Difficilmente nello sport professionistico capita di assistere al dipanarsi di due porzioni di stagione quasi perfettamente antitetiche fra loro quanto a rendimento della medesima squadra.
Cosa sia successo a quella autentica macchina da guerra che erano i Pacers della prima metà dell’anno non è semplice da arguire.
Paragonati non più tardi di inizio febbraio ai Seattle Seahawks della NFL per spirito di sacrificio, coesione e ferocia difensiva, si sono sciolti nel giro di qualche mese, finendo per assomigliare più alla vostra squadra di basket amatoriale che altro.
Sono diverse le date che possiamo prendere come spartiacque in grado di contestualizzare tale repentino cambiamento nelle sorti della franchigia dell’Indiana.
Suggestiva è la soluzione che prevede di prendere come riferimento quella del Martin Luther King Day, che quest’anno cadeva per il 20 di gennaio quando l’agevole affermazione sui Warriors portava il record della franchigia a 33-7 (825‰), facendo presagire un cammino trionfale per gli uomini di Vogel. Da lì in poi le vittorie sono state 23, a fronte di 19 sconfitte.
Gli amanti del pettegolezzo da bar possono invece attribuire l’inizio del declino al 5 febbraio, giorno in cui comparve, forse per la prima volta sul web, la notizia che Paul George, il faro della squadra, aveva messo incinta una spogliarellista di Miami 7 mesi prima. Con tutto quello che ne è seguito a livello di tormenti personali (del giocatore) e impatto sulle prestazioni in campo.
Se non siamo soddisfatti, possiamo prendere per buona la pausa per l’All-Star Game, da sempre occasione per tirare le somme e ripartire (in questo caso in direzione ostinata ma contraria) all’interno della stagione. Il record allora recitava 40 W e 12 L. Dopo la pausa ha assunto i tratti di un più modesto 16-14.
Possiamo infine – questa è per i più maligni – adottare la data dell’arrivo di Evan Turner (25 febbraio) e con essa l’avvenuta, insensata (per i più) rivoluzione della compagine che fin lì aveva dettato legge, ad est come ad ovest del Mississippi. Se ne vogliamo fare un fatto puramente numerico, è utile ricordare anche che da marzo ad oggi il saldo tra le vittorie e le sconfitte è negativo (12-13).
Seppure appaia quantomeno plausibile collocare il momento della svolta in negativo nella prima metà di quello che gli anglosassoni chiamavano “mese del fango” (denominazione quanto mai opportuna per i Pacers), stabilirne con certezza le cause, diversificandole dagli effetti, risulta materia piuttosto complicata.
In prima battuta possiamo affermare che non si tratti in realtà di una vera e propria crisi, nonostante il calo pronunciato, evidenziato chiaramente nei numeri. Ad un occhio attento probabilmente non sarà sfuggito il fatto che non è cambiato poi molto nelle tendenze, nella struttura di gioco o negli schemi di Indiana.
Ad essersi deteriorata enormemente è stata invece l’efficacia nell’esecuzione dei giochi, sia in attacco che in difesa. In parole povere, i Pacers fanno ancora ciò che facevano nelle primissime palle a due, solo che adesso lo fanno peggio. Molto peggio.
I difetti della squadra di Vogel rispondevano a determinate caratteristiche ad inizio anno ed hanno continuato sulla stessa falsariga nel prosieguo del campionato. D’altronde si sa, una stagione NBA è lunga e logorante. È facile staccare le mani dal manubrio dopo un po’ che si conduce.
Che i ragazzi in maglia giallo-blu facessero una fatica bestiale a mettere dei punti sul referto si vedeva chiaramente anche a novembre, oppure l’anno scorso durante la splendida cavalcata nei playoff.
Indiana ha chiuso la stagione 2013/14 al 22° posto nei punti segnati per 100 possessi con 101,4 e al 19° per percentuale effettiva al tiro col 49.0%. Sempre sui 100 possessi si è classificata terz’ultima negli assist (21,0) e 26 ͣ nelle palle perse (15,9).
Dalla stagione dell’introduzione della linea di tiro da 3 punti (1979-80) solo 2 squadre (Knicks 1999 e Celtics 2012) delle 136 finaliste di conference segnavano 2,5 o più punti per 100 possessi al di sotto della media NBA.
L’atavica difficoltà nella circolazione di palla e la tendenza del gioco al ristagno sono sempre state lì da vedere, solo che fino a tutto il 2013 venivano abilmente nascoste dalle strabilianti prestazioni della stella della squadra Paul George.
Le evidenti falde acquifere aperte nell’instabile terreno dell’attacco dei Pacers erano poi sistematicamente coperte da una difesa ai limiti dell’umano. Non per niente veniva accostata alla Defensive Line per eccellenza del Football Americano.
Se prendiamo come riferimento la data del 30 dicembre, George tirava il 45.8% dal midrange (meglio di Chris Paul), il 41.2% da 3 punti (più o meno come Steph Curry) e il 59.8% all’interno del raggio degli 8 piedi dal canestro (meglio di Love e Duncan). Praticamente un androide.
Ecco, dal 25 febbraio in poi, è sceso al 37.1% dal midrange (peggio di Carter-Williams), al 33.2% da oltre l’arco (peggio di Millsap) ed al 45% dalla porzione di campo entro gli 8 piedi dal ferro (peggio di Ricky Rubio). È evidente come la coperta ad un certo punto della stagione sia diventata improvvisamente corta.
Probabilmente gli avversari hanno sviluppato una maggiore conoscenza delle tendenze di George e dei Pacers. Come detto, il playbook offensivo dei giallo-blu non può essere annoverato tra i più efficaci in circolazione. Può darsi che, non potendo modellare tutta l’argilla a disposizione, Vogel abbia sacrificato sull’altare della difesa un po’ di fluidità offensiva.
Su base stagionale la percentuale dell’attacco che si concretizza in tiri cosiddetti spot-up è solo del 16.2% (terz’ultima della lega a pari merito coi Thunder e davanti a Golden State e Sacramento). In un mondo in cui i corner 3s vengono spesso assimilati ad una specie di cartina tornasole, Indiana è 24 ͣ per triple dal lato sinistro (2,3) e 14 ͣ da destra (2,6).
Solo 5 squadre fanno peggio dei 18,8 tentativi a gara da oltre l’arco (peraltro convertiti col 35.7%). Così come solo 5 sono le squadre che segnano meno punti per gioco in situazione di taglio (1,16).
Il problema principale dell’attacco ha però un nome e, se possibile, anche un cognome precisi. Stiamo parlando di spaziature.
Fermando un qualsiasi fotogramma di una qualsiasi delle 82 partite dei Pacers vi sarà certamente capitato di osservare George e Stephenson appostati all’interno della linea di tiro da 3 punti, nel momento in cui il play sta cominciando il gioco d’attacco.
Non serve aver allenato a UCLA per capire come tutto questo renda più facile il compito ai difensori avversari, che, dovendo coprire una fetta di campo molto più esigua, possono stare comodamente rintanati nella propria area, contando di poter recuperare sull’eventuale scarico al tiratore in ogni momento e con pochi ed agevoli passi.
A tal proposito l’assenza di C.J. Watson è passata ampiamente sottotraccia. Secondo il parere più che autorevole di compagni navigati come West, Watson è l’unico giocatore del roster che conferisce alla squadra una certa dose di pericolosità da 3 punti. George, che – non mi fraintendete – resta pur sempre giocatore sublime, pecca ancora di superficialità in alcune delle sue scelte e il posizionamento offensivo è fra queste.
Stephenson adora scorrazzare come un cavallo sulla linea di fondo per motivi che a più restano misteriosi. Turner, povero Turner, non viene nemmeno considerato dagli avversari come possibile minaccia al tiro da lontano. Non tira mai da lì.
George Hill sta semplicemente vivendo una crisi d’identità da cui è difficile che riesca a tirarsi fuori senza l’aiuto di un buon terapeuta (non ci scordiamo però che a suo tempo è stato ceduto da coach Pop e quindi può darsi che presenti qualche difetto di fabbricazione).
Una volta appurata la penuria di frecce da scagliare da oltre la linea dei 3 punti, non resta che registrare anche l’assenza dell’arco per caricarle. George e Stephenson sono rispettivamente 65° e 66° nella lega per penetrazioni a partita (4,2). Difficile aprire il campo così.
Se a questo si aggiunge il fatto che, nonostante si tratti di squadra capace di mandare in campo con buona continuità (diciamo pure sempre) 2 lunghi di ruolo, solo una piccola percentuale dei tiri totali si distribuisce all’interno del semicerchio (29.06%) e che in questa speciale classifica Indiana è seguita soltanto da Knicks, Raptors e Blazers, si capisce perché la produttività offensiva sia così disfunzionale.
In un modo o nell’altro, si tende comunque ad andare a tirare all’interno del midrange, creando così in tale zona del campo un ingorgo simile a quello che si forma a Downtown Indianapolis quando in città c’è la 500 Miglia.
Roy Hibbert, il perno della squadra, tira in media a 8,0 piedi dal canestro (è la distanza maggiore registrata in carriera). Ha diminuito sensibilmente rispetto alla scorsa stagione le conclusioni ad alta percentuale (55%) entro i 3 piedi dal canestro (24.6% del totale dei tiri che prende), in favore di tiri a più bassa percentuale (41.6%) fra i 3 e i 10 piedi dal canestro (44% del totale). Oltre i 10 piedi invece perviene al tiro nel 15% dei casi.
Alla luce di tale radiografia, non è difficile capire perché Bird & Co. abbiano voluto operare pesantemente sul mercato in corso d’opera, nonostante i risultati spingessero in tutt’altra direzione. In questo senso si spiega infatti l’aggiunta di due elementi di difficile gestione – forse vere e proprie mele marce in grado di avvelenare tutto il raccolto – ma dotati di un indiscutibile talento nella metà campo offensiva.
Chi dice che i problemi sono iniziati dopo i nuovi arrivi, nel migliore dei casi mente. Anzi, rovesciando la questione, è possibile argomentare a buon ragione che gli innesti di Turner e di Bynum siano stati pensati proprio per sopperire ai frequenti black-out che, inevitabili, continuavano a verificarsi in fatto di produzione offensiva all’interno delle partite. E questo accadeva da inizio anno, e per lunghi tratti di gioco.
Probabilmente adesso, a giochi fatti (almeno per la stagione regolare), è anche possibile affermare che le modifiche non abbiano prodotto i risultati sperati.
Le ragioni di un epilogo così sfavorevole vanno però ricercate nella chimica di squadra e nell’amalgama all’interno del rettangolo di gioco. Inutile parlare di presupposti sbagliati a monte delle due trade.
I numeri ancora una volta però sono impietosi. Fino all’arrivo di Turner, puledro di razza se ce n’è uno, i punti concessi dalla panchina di Indiana agli avversari per 100 possessi erano 94,2 (ovviamente capintesta della lega). Dopodiché, a scambio avvenuto, sono saliti vertiginosamente a 106,3 (19° posto).
Questo non vuol dire assolutamente che Granger costituisse una garanzia difensiva di un qualche genere. Granger è stato per mesi una presenza impalpabile. Cederlo è equivalso a cedere una canotta vintage sbiadita in grado ormai di suscitare non più che un vago ricordo. E non voglio pensare che la sua dipartita abbia inciso sul morale degli ex-compagni. Non sono ragazzini, né tantomeno smidollati.
Tuttavia qualcosa è successo. Il cambiamento c’è stato ed è apparso netto. Tralasciando la statistica riguardante la percentuale dei rimbalzi offensivi catturati su quelli disponibili, precipitata già a partire da novembre (24.8% contro il 30.3% della passata stagione) e presagio funesto della scarsa voracità sotto le plance che di lì a poco avrebbero mostrato Hibbert e gli altri in una forma conclamata, sono diverse le aree dove i Pacers hanno fatto registrare un calo sensibile. I punti realizzati in contropiede sono passati da 11,5 a 7,4 di media (ultimi) dopo la pausa per l’All-Star Game. Quelli segnati invece direttamente da palle perse degli avversari sono diminuiti da 17,7 a 13,8 (ancora una volta ultimi nella lega).
Se ci spostiamo su un piano più generale, prima della partita delle stelle di New Orleans l’Offensive Rating dei Pacers era di 102,2 punti a partita (19°) e il Defensive Rating di 93,6 (1°) con un saldo medio quindi di +8,6 punti a partita (1°).
Dopo New Orleans le stesse cifre si sono assestate sui 99,8 punti (29°) nell’OffRtg e 102,5 (8°) nel DefRtg, con uno scarto medio di -2,7 (19°). La percentuale effettiva è passata da un dignitoso 49.6% ad un rivedibile 48%, che ha fruttato il 26° posto nella speciale classifica. Le percentuali nelle conclusioni all’interno della restricted area sono diminuite di 4.3 punti percentuali, costringendo Indiana ad occupare l’ultima posizione nell’intera lega col 56.3%.
Parallelamente, per quanto concerne il tanto amato midrange (20.8% della distribuzione totale dei tiri) la percentuale è scesa al 39.9% (18°), sempre in seguito alla pausa per l’ASG. Per completare il quadro, tutt’altro che edificante, il numero di possessi per 48 minuti, già di per sé piuttosto basso (96.21), è calato a picco fino a toccare la cifra irrisoria di 91.98 possessi per gara (27°). I Pacers, che fino a febbraio procedevano adagio, si sono praticamente fermati.
All’interno delle singole partite, il terzo quarto, che fino all’ASG costituiva terra di conquista per i giallo-blu (+20,5 in media il parziale) e rappresentava il momento in cui, dopo aver giocato al gatto col topo con i malcapitati di turno, i mastini dei Pacers stringevano idealmente – e non solo – le viti difensive, è diventato un periodo di gioco permeato dal più statico equilibrio, preludio delle caporetto dell’ultima frazione.
Quel che fa più riflettere però sono i cedimenti nella metà campo dietro. Il declino in attacco, che già era pessimo, non fa troppo rumore. Ma la difesa scricchiolante sul tiro da 3, quella sì, ha destato clamore.
Indiana nella scorsa stagione concedeva agli avversari la peggiore percentuale in assoluto nel tiro dalla lunga (33.1%). In quella appena conclusa si è classificata al quarto posto con un ragguardevole 34.8% concesso agli avversari. Dal 12 febbraio è però ventesima con il 37,2% delle triple degli avversari che hanno trovato il fondo della retina.
Sotto canestro Hibbert, il cui usage rate è franato in tutte le sue manifestazioni (a testimonianza di un’involuzione che definire preoccupante è dir poco), ha concesso quest’anno ben 9,8 conclusioni al ferro in media agli avversari (17° fra i giocatori con almeno 50 partite giocate, 29 minuti e 1 stoppata a partita. Le prime 3 posizioni di questa classifica sono appannaggio dei Sig. Gasol Marc, Davis Anthony e Chandler Tyson).
Irritante in alcune apparizioni, dal mese di marzo ha viaggiato col 37.6% dal campo su soli 8,5 tentativi e – udite, udite – 4,3 rimbalzi. Ho detto irritante? Definirlo irritante non rende l’idea, le sue prestazioni, specie nelle partite di cartello, hanno del pietoso. Nel senso che la difficoltà che dimostra in questi frangenti muove a compassione.
Non è l’unico tuttavia. Nella tabella sono riportate le statistiche di Indiana contro le squadre con record vincente dal 12 febbraio in poi, comparate con quelle delle altre contender. Non c’è davvero molto da stare allegri…
Diventa difficile anche augurare alla truppa di Vogel di ritrovare al più presto gli antichi splendori, poiché in determinati settori del gioco si è sempre balbettato dalle parti della Bankers Life Fieldhouse. La fluidità del gioco è sempre stata un mistero, così come la distribuzione degli effettivi sul campo.
George Hill, che non è mai stato – e probabilmente mai lo sarà – un facilitatore per i compagni, fra i play titolari delle 30 franchigie è il peggiore dopo Patrick Beverley dei Rockets per numero di assist a partita (3,5), punti totali scaturiti dai suoi assist (7,9) e assist opportunities (7,3), vale a dire tutti i passaggi che ha effettuato e che sarebbero stati conteggiati come assist se i destinatari li avessero convertiti in canestri.
Sorvoliamo sul dato dell’impatto del giocatore sugli eventi di gioco che si verificano sul parquet – troppa è la stima per l’uomo – che, con un misero 8.0% negli ultimi 2 mesi, lo colloca nelle retrovie, costretto ad inseguire veri e propri catalizzatori di gioco del calibro di Cory Joseph e Robert Sacre (con tutto il rispetto, si intende).
Non che George o Stephenson sappiano fare di meglio con la palla in mano. Born Ready, che fino alla fine di gennaio si era dimostrato un abile passatore, forse più spettacolare che altro, e viaggiava alla bellezza di 7,6 assist ogni 100 possessi (il 34.1% degli assist totali di squadra quando era in campo), è sceso a 5,6 (25.1% del totale), tradendo i suoi proprio quando avevano più bisogno: in contumacia Watson, Lance a capo della second unit aveva costantemente la palla fra i polpastrelli.
PG, dal canto suo, avrebbe bisogno di una specie di co-pilota, un tutor con mansioni simili a quelle del navigatore che siede al fianco di colui che guida nelle gare di rally. Troppo spesso si rende protagonista di scelte che definirei inoculate. Per uno del suo lignaggio, distribuisce il proprio gioco in modi sinceramente oscuri.
In stagione regolare infatti solo nel 16.6% delle situazioni che lo coinvolgono va al tiro in uscita dai blocchi, nonostante questa soluzione costituisca un’arma che lo porta a segnare 1,08 punti per gioco (21° nella lega). Nel 21.5% dei casi invece sceglie di concludere partendo come palleggiatore nel pick&roll, situazione questa che gli frutta appena 0,77 punti per gioco (98° in NBA).
Detto questo, probabilmente proprio attraverso una migliore esecuzione dei blocchi passa il possibile miglioramento nella qualità offensiva dei Pacers.
Dal momento che non appare così semplice tornare ad esprimersi sui livelli difensivi di inizio anno e il calo di West, vero e proprio salvagente della squadra durante i periodi di magra in questi anni, sembra inesorabile, Indiana dovrebbe concentrarsi maggiormente sui suoi difetti in attacco.
Coach Vogel potrebbe cercare di porre maggiore enfasi sulle fasi del gioco che fino ad oggi sono rimaste indietro. Può darsi pure che non abbia materiale a sufficienza per far girare il motore appieno anche in attacco.
Dovrebbe però riuscire almeno a smussare qualche angolo, rendendo più dinamici meccanismi e concetti che ancora oggi si presentano acerbi. I turni caldi dei playoff sono alle porte e, come è risaputo, con l’aumento delle temperature, i piranha finiscono per attaccare.
Avranno i Pacers il tempo per rimettersi in sesto?
grande amante del basket, del vino e della scrittura, segue l’NBA dal 1994, quando i suoi occhi furono accecati dal fulgido bagliore emanato dal talento irripetibile di Penny Hardaway. Nutre un’adorazione incondizionata per l’Avv. Federico Buffa e non perde occasione di leggere i pezzi mai banali di Zach Lowe.