Si sapeva già da settembre che per i Lakers questa sarebbe stata una stagione strana; quando tieni un training camp costellato di misfits (Wesley Johnson, Nick Young, Shawne Williams, Xavier Henry), personaggi in cerca d’autore (Robert Sacre, Jodie Meeks, Jordan Hill, Jordan Farmar) e rookie di secondo piano (Ryan Kelly e poi anche Kendall Marshall), sai che le aspettative non potranno rimanere invariate rispetto al consueto standard (titolo NBA) dei Los Angeles Lakers.

Nessuno però, nemmeno Mike D’Antoni, poteva immaginarsi che sul 2013-14 di Los Angeles sarebbero grandinati infortuni a ripetizione, dai più gravi (la frattura che ha levato di mezzo Kobe dopo appena sei partite, oppure i problemi ormai cronici alla schiena di Steve Nash) ai vari ed eventuali che hanno azzoppato il roster e che hanno falcidiato in egual misura guardie ed ali della compagine californiana, trasformando in un disastro quella che era iniziata come una stagione di transizione.

Per un breve momento, tra dicembre e gennaio, i Lakers avevano anche trovato spirito di gruppo, tenacia, giocando con il coltello tra i denti, ad immagine e somiglianza del carattere di Mike D’Antoni, uno che lotta in panchina con la stessa tigna che metteva sul parquet ai tempi eroici di Milano.

Sulla lunga distanza i Los Angeles Lakers si sono dovuti arrendere a una Western Conference troppo forte e a una serie infinita di problemi fisici che ha costretto D’Antoni a cambiare continuamente quintetto e rotazioni.

Il pubblico dello Staples Center sta sopportando a cuor leggero una stagione da 25-55, (non esattamente consueta nella storia della franchigia gialloviola), nonostante qualche analista avesse preconizzato l’ira del parterre hollywoodiano; viceversa, famosi e meno famosi si sono accontentati di quello che passava il convento senza brontolare più di tanto.

Gli abbonati dello Staples si sono appassionati alle vicende di una squadra sfortunata come poche, povera di talento e popolata da giocatori atipici, che, nonostante le avversità, ha continuato a lottare, per quanto possibile, collezionando anche alcuni scalpi prestigiosi, alternati a sconfitte imbarazzanti.

Non si può fingere di non sapere che buona parte del pubblico di L.A. ha passato la stagione a seguire con simpatia questa compagine disastrata mitigando l’amarezza di ogni sconfitta con il miele della promessa di una delle prime chiamate al draft di giugno, quello di Parker, Embiid, Wiggins e gli altri fenomeni.

Già, il draft. Quello del 2014 sarà uno dei più seguiti di sempre, e, sebbene sia stipato di giocatori dal grande potenziale, anch’esso reca sicuramente in grembo la propria dose di fregature, e proprio per questo, da qui a giugno, verranno compilati infiniti “mock draft”, si scrutinerà ogni scelta fino all’ultimo dettaglio, incorrendo qualche volta in quell’over-scouting che descrive il fenomeno per il quale, a forza di guardare gli alberi, non si vede più la foresta.

Così, mentre ci si domanda angosciati se le braccia di Julius Randle siano lunghe abbastanza e si attende con ansia lo sbarco messianico di Dante Exum per poter finalmente valutare il talento visto più che altro su Youtube, ad El Segundo ci si chiede se Mike D’Antoni sia l’allenatore giusto al quale affidare il “new deal” californiano o se, viceversa, sia giunto il momento di salutare il coach della West Virginia e puntare su allenatori più adatti a gestire, oltre a Kobe, un rookie che sarà seguitissimo (e avrà bisogno di imparare in fretta come gestirsi con la stampa, in campo e con i colleghi).

D’Antoni siede sul pino angeleno da meno di due stagioni, dal novembre 2012, quando, persa la pazienza con Mike Brown –dopo una partenza da 1-4 (e la parodia dell’attacco Princeton)-, Jim Buss decise che l’ex allenatore di Treviso, Phoenix e New York era l’uomo giusto per guidare al successo la squadra di Howard, Kobe, Nash, Gasol e World Peace.

D’Antoni non ha mai avuto vita facile a Los Angeles, né con il pubblico, che voleva il terzo ritorno di Phil Jackson, né con il club, perché il suo carattere, a volte troppo diretto, ha rapidamente generato screzi con alcuni dei suoi giocatori, su tutti Gasol e Howard.

Arrivato per magnificare il potenziale di Steve Nash, che con Mike vinse due trofei di MVP negli anni ruggenti dei Suns, Mike si trovò viceversa alle prese con una chimica di squadra inesistente, con problemi fisici assortiti (a partire da Nash medesimo) e, come se tutto questo non fosse abbastanza, con una faida deleteria tra Dwight Howard e Kobe Bryant per la leadership della squadra.

La stagione finì in modo inglorioso contro quegli Spurs che poi sarebbero andati a contendere il titolo a Miami fino a Gara 7, e la conferma di D’Antoni sembrava una scelta tutto sommato logica: era nozione comune che il buon Mike, pur non avendo convinto, meritasse una seconda chance, visto che l’anno precedente aveva ereditato un circo difficile da gestire.

In questi due anni D’Antoni ha fatto delle cose buone: ha recuperato Steve Blake, che dall’arrivo a Los Angeles non aveva mai giocato da par suo; ha regalato spazio a Earl Clark, consentendogli di lucrare un bel contratto a Cleveland e infine, quest’anno ha dato spazio a Ryan Kelly (scoprendolo interessante stretch-four), e Kendall Marshall, il semisconosciuto playmaker che i Lakers hanno sotto contratto per un altro anno e che ha impressionato per il tiro e per le indubbie abilità da passatore.

A fronte di questi successi e dello spirito di squadra che i Lakers hanno sempre esibito (anche quando sarebbe stato facile lasciarsi andare al tanking più becero), Mike ha palesato una volta di più i suoi limiti tattici e la sua rigidità dogmatica.

Ha avuto a disposizione tre lunghi veri in due anni e ha avuto problemi (per giunta a mezzo stampa) con tutti, da Dwight Howard, che aveva chiesto il suo licenziamento come prerequisito per rimanere in giallo-viola, a Pau Gasol, con il quale si è beccato a più riprese, fino a Chris Kaman, che, per sua stessa ammissione, non gli ha rivolto la parola per quasi un mese di stagione regolare.

Posto che anche Kobe non è innamorato dei metodi e dello stile di D’Antoni, sembrano davvero poche le chance di ritrovarlo alla guida dei Lakers al prossimo training camp.
Pur tenendo a mente che si è trattato di due stagioni anomale e difficili (per motivi diametralmente opposti), è chiaro che tra D’Antoni e Los Angeles (staff e giocatori) non è sbocciato un rapporto di stima e fiducia.

L’unico argomento che depone a favore di Mike è che i Lakers gli devono altri quattro milioni e dovrebbero licenziarlo per poi pagare un altro allenatore, ben sapendo di non avere comunque nessuna concreta chance di lottare da subito con le pretendenti al titolo NBA (salvo sorprese che al momento ci sembrano alquanto improbabili) e se questa è l’argomentazione più forte a favore di D’Antoni, capite bene che la permanenza in riva al Pacifico dell’ex numero 8 delle Scarpette Rosse milanesi è quanto mai in bilico.

Nessuno sa che cosa stiano pianificando Mitch Kupchak (fresco di rinnovo quinquennale) e Jim Buss, tuttavia è realistico immaginare che Los Angeles voglia trattenere Gasol e provare a firmare un free agent d’impatto, soprattutto se la lottery dovesse consegnare ai Lakers (che, oltretutto, per regolamento, possono scambiare la loro scelta solo in cambio di altre scelte) un pick troppo basso per fare la differenza.

Sostituire D’Antoni potrebbe avere senso, sia perché i rapporti tra lui e il catalano sono ridotti ai minimi termini, sia perché esistono reclutatori migliori, e non a caso uno dei nomi che circola è quello di coach Calipari, fresco di Final Four e abile nel portare a Kentucky un All American dopo l’altro.

Qualcuno, in giro per la NBA, tende ad attribuire a Mike più responsabilità di quante gliene si possano effettivamente imputare. Il biennio negativo dei Lakers, l’addio di Howard e il declino di una franchigia non sono solo, o soprattutto, colpa di D’Antoni, ma è innegabile che queste stagioni a Los Angeles abbiano magnificato i limiti del suo credo cestistico.

Durante il sabbatico aveva dichiarato di aver sempre voluto un’ancora difensiva sotto canestro e di non averla trovata mai, implicitamente attribuendo ai GM la responsabilità per le difese storicamente scarse delle sue squadre, ma con Dwight Howard a disposizione non abbiamo visto miglioramenti difensivi, anzi, i rapporti tra i due sono declinati rapidamente (e in questo molte responsabilità appartengono al mercuriale centro della Georgia, ma tant’è, allenare in NBA significa avere a che fare con prime donne) fino all’addio di “Superman”, diretto a Houston.

Posto che forse il divorzio è dipeso dall’inconciliabilità tra le pretese di Dwight e le necessità dei Lakers, la sensazione è che D’Antoni non sia stato capace di vendere il sistema alla sua stella, che si è incattivita, sentendosi esposta (a torto o a ragione) nei confronti dei tifosi. Allo stesso tempo, Mike ha sacrificato Gasol alla panchina, non riuscendo a gestire la presenza contemporanea di due uomini di post basso, palesando i limiti del suo pensiero offensivo.

Allenatori più inclini alla psicologia forse sarebbero riusciti a gestire meglio il “declassamento” di Gasol (in fondo Manu Ginobili esce da 10 anni dalla panchina degli Spurs) ma Mike non ritiene di dover spiegare ai giocatori le sue scelte, e di questo non si è lamentato solo il permalosissimo Pau, ma anche tanti giocatori che alternavano partite da venti minuti d’impiego ad altre nelle quali non si toglievano nemmeno la tuta, il tutto senza mai ricevere una spiegazione dal coach.

D’Antoni era arrivato proprio per quell’attacco, fatto di canestri rapidi, di tiri da tre, pick and roll, quattro tattici, che tanto aveva avuto successo a Phoenix, ma la verità è che il personale dei Lakers non consentiva di giocare quella pallacanestro, perché l’uomo che avrebbe permesso di farlo, ossia Lamar Odom, era stato sacrificato un anno prima del suo arrivo.

Peraltro, si fa sempre del gran parlare dei quattro esterni, come se fossero un’invenzione di questi ultimi anni, ma Phil Jackson ha usato in quel ruolo Toni Kukoc, Robert Horry e Lamar Odom, implementandoli in un sistema di gioco complesso e di enorme successo.

La vera lacuna di D’Antoni risiede nella sua inflessibilità dogmatica; intendiamoci, ogni allenatore ha una filosofia di gioco, o dei principi guida. Phil Jackson, per citare un esempio lampante di coach che ha avuto successo a Los Angeles, ha sempre usato, sia con i Lakers che con i Bulls, l’Attacco Triangolo, ma lo ha adattato al personale a disposizione; preferisce i play alti, come Ron Harper, ma ha vinto cavalcando B.J. Armstrong e Derek Fisher. È sempre stato un grande allenatore difensivo, ma ha confezionato l’ultimo back to back dei Lakers adattandosi allo stile votato all’attacco di un gruppo dall’enorme volume di fuoco. Un grande allenatore capisce fino a dove può spingersi nelle sue richieste ai giocatori, mediando e “vendendo il sistema” senza calarlo dall’alto.

Se lo ha fatto Jackson, che arrivò ai Lakers dopo sei titoli NBA con Michael Jordan e Scottie Pippen, lo avrebbe potuto fare Mike D’Antoni, che è arrivato dopo una parentesi mediocre con i New York Knicks.

Lo vediamo succedere ad ogni livello, dalla serie D italiana fino alla NBA: alcuni allenatori convincono i giocatori, spiegano le scelte, lasciano libertà e, in ultima istanza, costruiscono dei gruppi vincenti. Altri allenatori ti dicono cosa devi fare e ti sgridano se non riesci; in NBA non si può pensare di vincere con la rigidità, nemmeno se ti chiami Gregg Popovich.

Essere dogmatici non è sinonimo di carisma e autorevolezza: Doc Rivers ha fatto un lavoro straordinario ai Clippers perché ha cambiato la mentalità del gruppo in modo graduale, ha spiegato ai Griffin e ai Jordan su cosa avrebbero dovuto lavorare, e oggi ha in mano una formazione che gioca come vuole lui, senza aver dovuto forzare la mano a nessuno; si fosse presentato al training camp pretendendo disciplina e difesa, avrebbe spaccato lo spogliatoio, generato insicurezze e scoraggiato i giocatori.

Certo, Mike ha scoperto Ryan Kelly e ha rilanciato Steve Blake, ma si tratta di miglioramenti insignificanti se i rapporti con Pau Gasol e Chris Kaman si riducono alla reciproca indifferenza.
Allo stesso modo, avere un ottimo pace offensivo e tirare bene da tre non significa nulla se poi la difesa continua a concedere canestri ad alta percentuale agli avversari, oltre a non avere nessun controllo dei tabelloni, condannandosi a non avere secondi possessi e a concederne a ripetizione agli avversari.

Chi sono i possibili successori di D’Antoni? Il nome che circola in questi giorni è quello del coach di Kentucky, John Calipari, uno che in NBA ha già allenato (male) e che, se non può essere considerato un grande stratega, è certamente un abile reclutatore, capace di vendersi e vendere il sistema ai giocatori di talento, almeno a livello collegiale.

La sua candidatura ricorda quella di Mike Krzyzweski nel 2004, quando poi si ripiegò su Rudy Tomjanovich, ed oggi come allora ci sono vari allenatori disponibili che hanno credenziali forse migliori in chiave pro di quelle di Calipari/coach K; si va da George Karl ai due fratelli Van Gundy, Stan e Jeff (che ormai non allena da molti anni ed è sicuramente in grado di gestire la spietata stampa di Los Angeles). Non si può escludere nemmeno qualche nome a sopresa (qualcuno aveva addirittura parlato di Kevin Ollie, sempre per rimanere in tema di NCAA, ma siamo alla speculazione pura.

Come detto, i Lakers potrebbero fare un ragionamento economico nel caso in cui la lottery consegnasse una scelta troppo bassa e Anthony e James non dovessero essere disponibili; in quel caso, sicuri di essere destinati a un’altra stagione mediocre, i Lakers potrebbero pensare di risparmiare dei soldi e lasciare D’Antoni a guidare la squadra, ma forse varrebbe ugualmente la pena di chiudere il rapporto e scegliere un allenatore disposto ad abbracciare un progetto di lungo respiro, che coltivi Kent Bazemore, Marshall, Kelly e il rookie che arriverà, nell’ottica di costruire un gruppo, in attesa di dare la caccia a Kevin Love, che sarà free agent nel 2015.

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