Si dice spesso che la Regular Season NBA è noiosa, e in parte è vero, ma il 26 marzo, alla Bankers Life Fieldhouse, è andata in scena una di quelle partite che ripagano gli appassionati per qualche fiacco matinée di troppo.
La sfida era una di quelle segnate sul calendario da tempo: il terzo duello tra Heat e Pacers, con la serie stagionale in parità (1-1) e un solo ulteriore incontro prima dei Playoff.
Non è stata una partita particolarmente bella dal punto di vista tecnico, ma è stata una lotta senza esclusione di colpi tra due franchigie che si sono incontrate probabilmente nel peggior momento del loro 2014.
Nel mese di marzo entrambe le squadre hanno compilato lo stesso, modesto, record, con sette vittorie e altrettante sconfitte, quindi entrambe si affacciavano alla partita di Indianapolis con l’intenzione di usarla per cambiare l’inerzia e allungare (nel caso di Indiana) o ridurre lo svantaggio (nel caso di Wade e compagni).
Spoelstra, per l’occasione, ha preferito il quintetto “alto” con Bosh e Oden, come nella vittoria contro Portland, mentre i Pacers si sono presentati con il consueto quintetto, particolarmente indigesto agli Heat.
Due falli nei primi minuti e 13 punti di Hibbert nel primo quarto hanno convinto rapidamente Spoelstra a lasciar perdere gli esperimenti e tornare al basket che ha portato a tre finali e due titoli.
A quel punto gli Heat, che avevano perso molti palloni e giocato in modo infelice, si sono ripresi, riuscendo a chiudere il primo tempo addirittura in vantaggio di un punto dopo un parziale di 15-4.
Evidentemente Oden porta dei vantaggi (fisicità, stazza, stoppate) ma tenerlo in campo impedisce agli Heat di giocare il loro basket migliore. Greg è arrivato proprio per giocare contro Indiana, ma paradossalmente sarà più utile contro altre avversarie, perché per giocare sul terreno dei Pacers, Miami deve snaturarsi troppo perdendo in efficacia.
Doveva essere, nei piani dello staff degli Heat, la partita con cui capire se Oden è pronto a fronteggiare Hibbert, ma il campo ha dato un responso inatteso: Udonis Haslem, che ogni anno rischia sempre di finire ai margini della rotazione e implacabilmente trova il modo di guadagnarsi un ruolo, ha disputato una partita difensivamente sontuosa nel secondo tempo, impedendo a Hibbert di segnare altri canestri dal campo; che sia lui il vero anti-Hibbert?
Lo scopriremo nei Playoff, quando, a detta di tutti, Pacers e Heat dovranno collidere.
Nel terzo quarto gli Heat sono sembrati sul punto di uccidere la partita in molte occasioni, ma poi i Pacers si sono aggrappati alla loro difesa, hanno tenuto Miami senza segnare per più di cinque minuti e hanno trovato un protagonista insperato in Evan Turner, che, fino all’espulsione per doppio tecnico di Stephenson, non aveva combinato granché.
Invece proprio l’ala proveniente dai Sixers nel finale ha piazzato un paio di zampate decisive, un canestro in contropiede e una bella virata su Mario Chalmers all’altezza della lunetta per finire con un lay-up.
A chiudere la partita ci ha pensato David West, autore fin lì di una prova tanto muscolare quanto poco incisiva: ovviamente, non poteva che segnare un tiro da tre dopo aver fintato un passaggio consegnato.
Pochi istanti dopo, è stato Chris Bosh a rispondergli con un altro tiro da tre, che, complici i due errori dalla lunetta di George Hill, ha dato al centro degli Heat la possibilità di vincere la partita con un tiro allo scadere che però è finito corto.
Da un punto di vista puramente tecnico, questa partita ci ha detto poco di nuovo. Sapevamo che tra queste due franchigie non corre buon sangue e sapevamo che entrambe le squadre stanno vivendo un momento poco brillante, confermato da una partita dalla quale è uscita vincitrice Indiana, tirando con il 37%.
Le note più interessanti riguardano l’esperimento Oden e l’impatto positivo di Turner. Se il centro di Buffalo è rimasto in campo per soli sei minuti (totalizzando due punti, due stoppate e altrettanti falli) e non ha fatto altro che rimarcare l’impressione che il suo uso, in ottica di Playoff, potrà essere solo quello di occasionale arma tattica, Evan Turner ha viceversa stupito, perché ha risposto bene alla prima partita “vera” della sua carriera, nella quale si è anche trovato a sorpresa a giocare gli ultimi cinque minuti, con un impatto da attore consumato di questi palcoscenici.
Sono quindi queste le due squadre che si fronteggeranno in Finale di Conference? C’è un clima d’ineluttabilità attorno a quest’argomento che sta perdendo attualità con il proseguire dello slump delle due corazzate e l’emergere di altre squadre, come Chicago, che ha appena battuto Indiana, e soprattutto i Brooklyn Nets, che tutti avevamo dati per morti troppo presto.
È un esercizio inutile, ma non ci si può che chiedere cosa sarebbe stato di questa stagione delle “retine” bianconere se Lopez non si fosse infortunato, ma è una realtà che questa squadra possa essere la sorpresa dell’est. Esperienza e talento non mancano, staremo a vedere.
Stesso discorso si può fare per Chicago, una squadra dalla preparazione difensiva sontuosa; che campionato avrebbero potuto disputare, con Rose e Deng?
Di certo l’Est non è competitivo quanto l’Ovest (eufemismo) ma non è poi così certo che Pacers e Heat passeggeranno fino al rematch della bellissima finale dello scorso campionato, soprattutto se, da qui a fine stagione regolare, non risolveranno i loro problemi.
Naturalmente non c’è motivo di stracciarsi le vesti, il tempo per rimediare abbonda; nel caso degli Heat, può valer la pena citare il precedente dei Chicago Bulls del 1997, che arrivarono ai Playoff senza essere in gran forma e vinsero il secondo titolo consecutivo.
Sicuramente la rosa di South Beach ha un problema di freschezza atletica e di ricambio che non è stato effettuato a dovere. Sono andati smarriti alcuni giocatori emotivamente importanti come Joel Anthony e Mike Miller (che oltretutto poteva occasionalmente giocare da star).
Chris Bosh è entrato nel suo ruolo di terzo violino, diventando un difensore eccellente e un realizzatore temibile sugli scarichi, ma non è in grado di essere un’opzione credibile e continua in attacco.
Rimane da capire quanto Wade si stia preservando per i Playoff. La quantità di benzina che il numero 3 avrà in serbatoio a maggio giocherà un ruolo capitale nelle sorti della stagione dei Miami Heat, e forse anche del loro futuro: Pat Riley e LeBron James hanno costruito un bel rapporto, certo, ma James quest’estate sarà free agent e potrebbe anche decidere di “portare i suoi talenti” in una squadra più giovane.
Gli Heat sono alla ricerca di una rotazione e dell’alchimia giusta, mentre i Pacers sembrano essere alle prese con un meccanismo inceppato in primis dal calo di produttività di Paul George, che si è riscosso nel secondo tempo della partita ma che da tempo non sta giocando il basket trasudante sicurezza della prima parte di stagione.
Indiana resta una squadra avvinghiata a dei meccanismi offensivi che non stanno funzionando per le incertezze degli interpreti, e l’unico modo per uscire da queste difficoltà è vincere; chissà che aver battuto i rivali non restituisca serenità a Paul George e compagni.
I Pacers, autori di una partita giocata sui nervi, ha vinto quando sembrava che gli Heat potessero, con un mini-allungo, chiudere definitivamente il discorso. Alla fine, a fare la differenza, ancor più dei secondi possessi, sono state le palle perse: 19 quelle di Miami, che i Pacers hanno fatto fruttare con 26 punti, rimanendo agganciati alla scia degli Heat anche quando l’attacco schierato dava risultati sterili.
Di queste palle perse, 12 sono, in parti eguali, responsabilità di James e Wade; LeBron, dal canto suo, ha giocato una partita di sostanza, andando tanto in lunetta (quindici conclusioni dalla lunetta a fronte di 19 tiri dal campo) e finendo con 38 punti, ma senza trovare grande collaborazione nei compagni; Wade, con quindici punti, è stato l’unico altro Heat ad aver concluso la partita in doppia cifra.
È stata una partita dura sin dall’inizio, tra due squadre che si piacciono poco e non fanno nulla per nasconderlo e che forse è stata esacerbata nella sua durezza dal modo incerto in cui è stata diretta.
L’arbitraggio della terna capitanata da Monty McCutchen, inutile nasconderlo, non è stato sempre all’altezza; troppi fischi fantasma nel primo tempo in particolare, e l’impressione costante che i nervi fossero a fior di pelle, mentre il pubblico di Indianapolis esplodeva a ogni replay mandato sul maxischermo.
A farne le spese più di tutti è stato Lance Stephenson quando, nel quarto quarto, dopo un bel canestro dei suoi, si è rivolto a Wade dicendogli “what?”; quel vecchio marpione di Dwayne ha sorriso, spalancato le braccia e cercato l’arbitro con gli occhi sbarrati, come a dire “ma gli lasciate dire certe cose?”.
Risultato: secondo tecnico (e il primo era stato uno di quegli odiosi doppi tecnici di ponziopilatesca memoria) e lavata di capo da parte di Frank Vogel.
Per giunta, è stata una partita nella quale si sono sprecate le scorrettezze; c’è stato un mezzo flopping di Stephenson su un tocco di Lebron e uno tutto intero di Rio Chalmers su un blocco di West, un fallaccio di Scola su James e uno dello stesso LeBron su Hibbert, che se l’è vista brutta.
Si può pensarla diversamente, ma quando diciamo che vorremmo vedere meno protezione per le stelle e un gioco più fisico non intendiamo certo questo; violenza non vuol dire fisicità, ma queste sono considerazioni complessive che dovranno essere fatte da Adam Silver e dai suoi sottoposti, non certo dai singoli arbitri che ogni sera devono arbitrare con le regole delle quali dispongono.
Ad ogni modo, a dieci partite dalla fine, i Pacers hanno portato a casa una vittoria importante, che vale tre lunghezze di distanza sulla diretta rivale, battuta in una gara di rara intensità, la tipica vittoria che può strappare il cuore a una rivale e rinsaldare la convinzione nel proprio valore.
Vedremo presto se gli Heat accuseranno il colpo e se Indiana ha ritrovato la convinzione per dare l’ultimo affondo alla regular season, in attesa dei Playoff, che si annunciano tra i più incerti (e quindi emozionanti) di sempre.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.