Il ritorno di Phil Jackson nella NBA è un bene per tutti. E’ un bene per la NBA e per tutto il mondo del basket.
E’ uno dei più grandi nomi della storia fino ad essere diventato uno degli ambasciatori internazionali del gioco che tanto amiamo.
Ha vinto due anelli come giocatore e 11 come allenatore, la seconda carriera di lunga superiore per importanza alla prima. Ora si apre il terzo capitolo.
Phil Jackson 3.0 è il nuovo presidente e responsabile delle “basketball operations” dei New York Knicks. Tenete a mente il numero 3.
Giocatore, allenatore e presidente quindi, prima di tutto. Devo dire che mesi di rumor insistenti sulla natura del suo nuovo ruolo non hanno lenito un po’ di amarezza sul fatto che sperassi, ovunque volesse andare, su un suo ritorno vero, cioè in panchina.
Forse non ha trovato gli stimoli giusti, forse non c’è in giro nessuna situazione ideale, resta il fatto che Phil non è come gli altri, non è lo mai stato.
Come fu al tempo per Pat Riley ha preferito convertire la sua fama e la sua competenza in una veste diversa, senza il rischio di sporcare una carriera che nessun aggettivo positivo potrebbe mai descrivere.
Peccato, sarebbe stato bello rivederlo a bordo campo. Ora però si apre una sfida assolutamente nuova e di certo non facile, nemmeno per lui.
Tutti sappiamo delle difficoltà dei Knicks negli ultimi anni, ormai decenni, di problemi che sono nati negli uffici dirigenziali per poi riflettersi sul parquet.
L’ultimo titolo risale proprio ai tempi del Phil giocatore, strano lungo mancino dalle braccia infinite e dal sorriso beffardo con baffetto, fece doppietta nel 1973 (il primo nel 1970) in una squadra a suo modo leggendaria dove aveva un ruolo marginale.
8.1 punti di media in poco più di 17 minuti per gara, nemmeno male, ma chi l’avrebbe mai detto che quel panchinaro estroso che restò fermo per tutto l’anno del primo anello per colpa della schiena sarebbe diventato semplicemente Phil Jackson, l’head coach mito.
Servirà proprio tutto il suo fascino per risollevare una nobile decaduta, gettata nel marasma da anni di visioni miopi e di investimenti sbagliati, il tutto ingigantito dalle luci di Manhattan.
La città di New York non si merita che la sua squadra, i Nets a Brooklyn è roba recente e storicamente e culturalmente periferica, non possa combattere per vincere il titolo e per stare nell’elite della lega.
Le ultime Finals sono del 1999, al termine di un decennio dove non sono mancati gli entusiasmi ma senza mai andare fino in fondo, nonostante gli ottimi lavori di Pat Riley prima e di Jeff Van Gundy dopo.
Da lì in poi il buio, con la penosa gestione manageriale di Isiah Thomas, il ritorno effimero di Larry Brown e la scommessa persa di Mike D’Antoni sul quale ci si era illusi avesse potuto replicare i Suns di Nash peraltro ben lontani dal vincere a giugno.
Non c’è marasma più intricato dei Knicks, Dave Letterman lo sa benissimo, e non c’è personaggio più grandioso per cercare di districarlo. Le premesse per un capitolo degno del nome di entrambi ci sono tutte.
Non voglio parlare della situazione salariale, probabilmente la voce più delicata come il nostro debito pubblico che tutti sanno come abbassare e che nessuno risolve davvero.
Vorrei concentrami su questioni più volatili, penso che il profilo di Phil mi autorizzi a discorrere non solo di contratti o del futuro di coach Woodson e di Carmelo Anthony o dei milioni regalati ad Amar’e Stoudemire.
New York può tornare una squadra vincente sotto il suo comando ? Credo di sì, anzi, è doveroso che sia così.
Il suo ritorno è un segno del destino. Giocatore, allenatore e oggi manager, questo l’abbiamo detto. Ma il numero 3 del suo destino corre su altrettanti canali.
La seconda linea storica mi porta alle città NBA che hanno toccato per mano il suo genio, escludendo quel po’ di New Jersey a fine carriera che comunque è nell’area. Prima New York, poi Chicago, poi Los Angeles, oggi di nuovo nella Big Apple.
Ho sempre trovato affascinante che abbia lavorato nelle tre città più grandi ed importanti degli USA, certo non è un tipo che presti facilmente servizio in provincia.
Un po’ come quel tale Obama che per azzannare a bocconi la sua America tanto amata fin dalle isolette dove è nato e addirittura dall’Indonesia d’infanzia si toglie la ruggine prima all’Occidental College di Los Angeles, poi alla Columbia a New York e infine, dopo tappa intermedia ad Harvard fa di Chicago la sua base per il grande sogno.
New York, Los Angeles e Chicago, le Big 3, cose minime direte, ma il segno è tratto. 3 titoli a Chicago, di nuovo threepeat con i Bulls, poi 3 di fila con i Lakers, peccato per quella solo doppietta con Kobe Bryant ma lì la squadra era più umana e forse proprio in quegli anni si è vista la sua vera grandezza.
Dunque ha vinto a New York da giocatore e non può che tentarci anche da presidente, come ha vinto a Chicago e ad LA. Il triangolo si chiude.
Triangolo, triangolo, già, questa parola non mi è nuova, caro Phil, che dici ? Non è più disegnato sulla lavagnetta per Michael o per Kobe ma è il disegno che sta per chiudersi per la vita di un predestinato.
Michael, Kobe e….provate a completare col terzo nome, chi manca ? Su, in principio fu Socrate, poi ci Platone e infine Aristotele, chi è si è passato il testimone come pensiero dominante per la NBA ?
Ovvio, LeBron, oggi comanda lui, piaccia o non piaccia, quest’anno il titolo di MVP andrà ad un immenso Kevin Durant ma quel filo del discorso è cominciato con Michael, è continuato pur più tormentato con Kobe e oggi è nella mente di The Chosen One.
Phil Jackson cercerà di portare LeBron a New York ? Non l’ho detto, non è nei programmi, forse è tecnicamente impossibile, forse, ma qualunque strada percorra arrivo sempre alla medesima conclusione.
Phil e Michael, Phil e Kobe, Phil e LeBron, manca solo un piccolo ulteriore passo ed è fatta. Suggestioni di una mente malata ? Sarà, ma questa suggestione, per adesso senza nessuna concretezza, è semplicemente troppo bella perché chiunque non ne faccia fantasia.
Credo che il suo ritorno a New York non possa ridursi all’ordinaria amministrazione, non per lui, non per il genio che è, non per le aspettative che ha creato solo il suo annuncio, 60 milioni di dollari in 5 anni sono bazzecole, per lui per primo.
Phil Jackson ai Knicks è visione, è osare il sogno più grande. LeBron in questo momento incarna questo, forse lui non lo sa ma è una pedina dello scacchiere del maestro Zen, lui non lo sa ma è entrato in un gioco più grande di lui, più grande del più grande.
Così ci dicono, così è presentato in giro per il mondo e in fondo se lo merita, Carmelo Anthony emoziona, LaLa al suo fianco è meravigliosa ma forse dovrà sacrificarsi.
Phil nel frattempo ha lucidato il suo business suit, si è seduto sulla comoda poltrona, ha in mano le carte, i conti, ma forse gli basta fare solo qualche chiamata e il gioco è fatto, non oggi certo, ma se succederà ricordatevi di questo pezzo, di quando sembrava solo stupida immaginazione.
“Poi ch’innalzai un poco più le ciglia, vidi ‘l maestro di color che sanno, seder tra filosofica famiglia” disse Dante di colui che venne per ultimo in quella famiglia, esponente della terza generazione.
Aristotele non ha mai chiacchierato con Socrate né Michael ha mai giocato one on one contro LeBron ma c’è un solo uomo che tiene insieme l’inizio e la fine.
E’ quell’uomo estroso che ha ricondotto gli estremi del suo destino laddove tutto era nato, all’ombra dei grattacieli di New York.
“E qualcosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure…”