Se Nietzsche vivesse nei giorni nostri farebbe il tifo per i San Antonio Spurs. Il motivo è presto spiegato: non c’è niente al mondo che si avvicini quanto la franchigia texana al concetto di eterno ritorno, elemento chiave della teoria del filosofo tedesco.
Si, perché gli Spurs sono ormai diventati un caso di studio interdisciplinare per la loro incredibile continuità ai vertici della Nba.
Che coach Popovich sia un genio non lo scopriamo certo oggi; che il trio formato da Duncan, Parker e Ginobili fosse destinato alla leggenda era ormai conclamato. Ma, diciassette anni dopo la prima stagione completa da capo allenatore dell’ex agente della CIA, alzi la mano chi sia aspettava di vedere in azione una macchina di guerra di questo calibro.
San Antonio non si sta limitando ad una stagione a ottimi livelli, ma ha preso in mano le redini della lega guardando tutti dall’alto in basso. A sedici gare dal termine della regular season, infatti, gli Spurs sono accreditati del miglior record della Nba: il traguardo delle 50 vittorie è stato tagliato in anticipo rispetto a tutta la concorrenza, evento che si ripete per il quarto anno consecutivo (solo i mitologici Celtics degli albori della lega sono riusciti a fare meglio) e che porta a quindici il numero di stagioni consecutive sopra quota cinquanta successi (sarebbero diciassette al netto del lockout del 98/99).
I numeri non dicono mai tutto, ma quelli degli Spurs fotografano il successo di una squadra capace di eccellere in tutti gli aspetti del gioco.
L’attacco è ormai diventato, da qualche anno a questa parte, il punto focale delle fortune dei texani: gli oltre 110 punti per possesso segnati rappresentano il quarto miglior dato statistico della lega, un numero che diventa ancora più significativo alla luce dell’analisi delle percentuali dal campo (secondi solo agli Heat col 49%) e soprattutto dall’arco (primi per distacco con un superlativo 40% nel tiro da tre).
Anche nella metà campo difensiva, però, San Antonio raggiunge livelli di eccellenza: poco meno di 98 punti a partita concessi (sesto posto davanti a Miami) che si traducono in poco meno 103 punti subiti per possesso (quarto posto assoluto).
Il tutto condito da una motivazione feroce, un fuoco alimentato dalla cocente delusione delle Finals 2013 che, fin dal primo meeting del training camp, è stato il primo step dal quale ripartire per lanciare il guanto di sfida in una stagione in cui poter ripetere i fasti di quella scorsa appariva quasi impossibile.
Solitamente, per una squadra di veterani come è a tutti gli effetti quella degli Spurs, la rincorsa ad un miglior seeding tende ad essere messa in secondo piano rispetto alla gestione delle energie degli uomini chiave.
Popovich, però, si trova nella invidiabile posizione di avere la botte piena e la moglie ubriaca: il roster dei texani garantisce rotazioni infinite, che consentono di tenere altissima l’asticella del rendimento pur consentendo ai non più verdissimi simboli della squadra di godere di un minutaggio abbastanza contenuto.
Già perché gli Spurs, dopo una finestra di tempo praticamente infinita, vivono e muoiono ancora nei loro tre campionissimi: un caraibico, un francese e un argentino, che non sono una barzelletta bensì il gotha della palla a spicchi dell’era moderna. Duncan, Parker e Ginobili si stanno rendendo protagonisti dell’ennesimo tie break contro lo scorrere del tempo, un match che anche per questa stagione sembra destinato a rimanere in parità.
Tim è presenza sempre più totemica nell’organizzazione degli Spurs: vederlo giocare è come gustare un Porto d’annata, ogni partita è come un master di pallacanestro spiegato da un luminare della materia.
Una doppia doppia di media (gli concediamo i 10 rimbalzi tondi nonostante una virgola, noblesse oblige) e un impatto del genere dovrebbero essere illegali per chi si appresta a girare la boa delle 38 primavere (per fare un esempio Brad Stevens, di qualche mese più giovane di lui, è coach dei Boston Celtics); ma la classe senza età del caraibico promette di risplendere ancora, vista anche la leggera flessione del suo minutaggio programmata da coach Popovich in vista del finale della regular season.
Parker, dopo l’apoteosi estiva con la nazionale transalpina, è ormai nell’empireo del gioco. La squadra ha saputo sopperire ad alcuni acciacchi che lo hanno tenuto ai box, ma qualche stop potrebbe non essere stato poi così negativo: il franco-belga ha mostrato lo smalto di sempre una volta tornato in campo, e le gare saltate potrebbero aver preservato le preziose gambe dalle quali passeranno le ambizioni di gloria dei texani.
Ginobili, ineffabile come non mai, sta mettendo insieme cifre addirittura migliori di quelle dello scorso anno. Il mancino di Bahia Blanca è quello che, dei tre campionissimi, accusa maggiormente il logorio fisico; ma il talento infinito, unito alla sua astuzia da navigato pirata della lega, lo rendono ancora un’arma letale dalla panchina.
Per garantire il successo e la strepitosa continuità del progetto Spurs, però, ci vogliono anche altre carte vincenti da estrarre dal mazzo. La capacità dei texani di aggiungere anno dopo anno i tasselli ideali per il sistema ideato da coach Popovich è formidabile, e arricchisce ogni stagione la squadra con protagonisti di oggi e campioni di domani.
Kahwi Leonard rientra in entrambe le categorie, perché il prodotto di San Diego State sta studiando da uomo franchigia rivelandosi decisivo anche per il presente.
Propaggine naturale della personalità del coach, i suoi sovrumani silenzi di leopardiana memoria fuori dal campo sono antitetici rispetto all’impatto nel rettangolo di gioco, un’importanza che è stata certificata dalla sgommata con la quale, al suo rientro dall’infortunio, gli Spurs si sono presi la vetta della Western Conference e il miglior record della lega.
Leonard rappresenta l’anello di contatto tra i simboli della franchigia e gli Spurs che verranno, oltre a essere già una delle chiavi del presente insieme a giocatori come Diaw e Green.
Il francese in versione califfo è un’arma a tutto tondo, mentre il re delle triple delle scorse Finals è tornato a carburare dopo un inizio in tono minore, candidandosi di nuovo a rendersi protagonista quando la posta in palio inizierà ad essere altissima.
Insieme a lui, da qualche mese a questa parte, sul perimetro è appostato un altro cecchino infallibile: Marco Belinelli è l’orgoglio italiano in una stagione nella quale, a causa degli infortuni di Gallinari e Bargnani e dello scarsissimo utilizzo di Datome, il tricolore è sventolato ben poco sui parquet della lega più famosa al mondo.
Il Beli sta vivendo il privilegio di essere il primo azzurro a lottare per il titolo, un onore quanto mai meritato per un ragazzo che ha lavorato duro per dimostrare di essere uno che dall’altra parte dell’Oceano ci può stare eccome, senza limitarsi a fare da comparsa.
La sua capacità di aprire le difese (sublimata dallo storico successo nella gara del tiro da tre all’All Star Game) e di giocare il pick&roll, oltre alle doti difensive affinate in una stagione sotto l’egida di coach Thibodeau, lo rendono un tassello ideale per un sistema che sembra cucito su misura per lui.
Quando il gioco si farà duro ci sarà anche lui sul palcoscenico più importante, per un roster che, tenuto conto dell’età media (29 anni, la quarta più alta della Nba) e degli straordinari ma comunque mortali (anche se non ne siamo proprio sicuri) campioni che ne fanno parte, sembra avere tutte le carte in regola per l’ultimo, meraviglioso giro di valzer dei suoi futuri hall of famer.
Nietzsche guarda gli Spurs, e si compiace: il “qui e ora” è sotto l’Alamo, ma adesso Pop e i suoi ragazzi vogliono un altro anello per chiudere davvero il cerchio e diventare superuomini.
Studente in giurisprudenza, amo ogni genere di sport e il suo lato più romantico. Seguace di Federico Buffa, l’Avvocato per eccellenza, perché se non vi piacciono le finali NBA non voglio nemmeno conoscervi.
“Ricordati di osare sempre”.
Spurs con Leonard sul paquet ha un record di 43W9L (82.69%) Statistica che rende meglio di tutti l’impatto di un 3° anno nella lega migliore al mondo