Blake Griffin è un giocatore al quale sono state appiccicate etichette sbagliate. Sembra facile da giudicare, così pompato, sempre pronto ad esplodere verso il canestro, costantemente al centro di qualche duello rusticano contro i lunghi avversari.
Per alcuni è solo uno schiacciatore senza fondamentali, per altri è un provocatore, uno che si mette in posa da duro e poi non perde occasione per un po’ di “flopping”.
Nella stagione 2012-13 un po’ tutti lo abbiamo scaricato, smarrito come sembrava nella pallacanestro tutta salti e poco raziocinio della “Lob City” made in California.
Invece Blake, arrivato al suo quarto anno di NBA, sta viaggiando a 24.2 punti di media (career high), cattura quasi dieci rimbalzi e serve 3.5 assist; è incredibile quanto poco si parli di lui, nonostante, per la prima volta, i Clippers siano una squadra seria e in chiara e netta ascesa nel ranking della Western Conference.
Nel 2011 fu il primo rookie a essere chiamato dagli allenatori all’All Star Game dai tempi di Tim Duncan (1998) e da allora è una presenza fissa alla gara delle stelle. Griffin sta accumulando cifre e premi che però non calamitano su di lui l’attenzione che ci si potrebbe aspettare da un Rookie dell’Anno che è da due stagioni Secondo Quintetto NBA, oltre ad essere stato All American e Giocatore dell’Anno nella Big 12.
Blake è abituato a fare le cose a modo suo, senza badare troppo alle convenzioni e alle apparenze. Poteva essere diversamente per il figlio di una coppia interrazziale dell’Oklahoma (stato rurale e a nettissima prevalenza bianca), che ha ricevuto la propria educazione scolastica a casa, fino a quando ebbe tredici anni?
Cresciuto con l’ambizione di diventare un soldato delle forze speciali, una volta iscrittosi alle scuole superiori, Griffin si è ritrovato stella cestistica di Oklahoma Christian School con la quale vinse quattro titoli statali su quattro tentativi, agli ordini di papà Tommy.
Il talento fisico di Blake era tale da consentirgli di giocare contemporaneamente anche nelle squadre di baseball e di football americano, ma non è mai stato in dubbio che il suo destino fosse il basket.
Dopo un primo anno a Oklahoma (lo volevano anche Duke e altri college di prima grandezza, ma prevalse il desiderio di riunirsi con suo fratello maggiore, che già giocava per i Sooners) con il quale fece strabuzzare gli occhi agli scout NBA, si sarebbe potuto dichiarare per il draft e andare al primo giro, ma decise di rimanere un secondo anno al college per maturare fisicamente e per tentare di dare l’assalto al torneo NCAA.
Un anno più tardi, forte di una stagione che lo vide migliorare in tutte le principali categorie statistiche, Blake divenne la prima scelta al draft 2010, ma, a causa di un infortunio al ginocchio (frattura da stress) e dei suoi strascichi, il suo esordio fu posticipato di un anno.
Passò la stagione a guardare i compagni perdere 53 partite mentre si dedicava alla riabilitazione, ma nel 2011 Griffin non deluse le attese: primo giocatore NBA a chiudere la stagione d’esordio con almeno 20 punti e dieci rimbalzi (dodici, nel caso di Blake) dai tempi di Elton Brand, si aggiudicò tutti i premi di rookie del mese, chiudendo la stagione con un facile trofeo di Esordiente dell’Anno e una preziosa (perché stabilita dagli allenatori e non dai tifosi, spesso influenzabili dall’appariscenza più che dalla consistenza delle giocate) presenza all’All Star Game.
Impostosi come ricevitore dei passaggi di Baron Davis prima e di Chris Paul poi, Griffin ha beneficiato del tutoraggio di Chris Kaman, che lo prese sotto la sua ala protettiva, spiegandogli le insidie nascoste della vita del giocatore NBA e i trucchi da usare sotto ai canestri del campionato più tosto al mondo.
Griffin, nonostante avesse fatto incetta di riconoscimenti, chiuse la stagione dicendo di non essere nemmeno vicino al livello di gioco che si era prefisso di raggiungere.
Nel corso della stagione 2012-13 però, emersero alcune criticità: Blake era un’ala che non andava molto oltre alla sua capacità di schiacciare sugli alley-hoop alzati da Chris Paul, alternati alle conclusioni dalla media distanza (arma aggiunta durante la sua seconda stagione di militanza in maglia Clippers). Le sue statistiche, in una formazione divertente ed esplosiva (quanto scriteriata tatticamente) stavano declinando e la sua difesa rimaneva a dir poco porosa.
I frequenti screzi con gli avversari (da Jermaine O’Neal a Bogut, da Mozgov a Zach Randolph, passando per Draymond Green e Chalmers) contribuirono a determinare un indefinito alone negativo attorno a Blake, ritenuto un muscolare di talento ma privo di fondamentali, un contropiedista buono per cifre e highlights ma deleterio in un contesto competitivo (leggi playoff); oltretutto, le frequenti risse contribuirono a costruirgli una nomea di provocatore che oltretutto, dopo aver tirato il sasso, nascondeva vigliaccamente la mano.
Nella scorsa stagione ha aggiunto il tiro dalla media (è passato dal 33% dell’anno d’esordio al 39% attuale, in linea con la media NBA, che non sarà eccellente ma non consente ai difensori di ignorarlo completamente), mentre nel 2013-14 si è presentato in campo con un set sorprendente di movimenti in post basso e in avvicinamento grazie ai quali è diventato un attaccante vero e completo, capace di passare da 18 a 24 punti di media, mantenendo di fatto invariata la percentuale sul tiro da due punti (54.4 % contro il 54.8% dello scorso anno).
Nessun giocatore NBA ha segnato più canestri entro tre metri dal ferro, e se è vero che è sempre stato un suo punto di forza (da esordiente, mise assieme il 59%) quest’anno le sue percentuali negli ultimi tre metri sono schizzate al 64% (al ferro tira con il 68%), segno che sta imparando ad usare il tiro per aprirsi spazio.
Insomma, dopo essere approdato in NBA come uno “slasher” atipico (poiché normalmente si tratta di guardie o ali piccole), Griffin, consapevole di non poter prosperare tra i pro con il solo atletismo, ha messo assieme un tiro dalla media affidabile e quest’anno ha ulteriormente arricchito il suo arsenale con il gioco di post, che, unito a delle non disprezzabili doti di ball-handling, ne fanno un’arma offensiva di tutto rispetto.
L’impressione che Griffin non stesse più migliorando era generata dal fatto che il suo ruolo e le sue responsabilità, nell’attacco di Vinnie Del Negro, erano rimaste invariate, assecondando la tendenza odierna, che vuole liberare il post piuttosto che occuparlo.
Blake è un’ala forte, e siamo abituati all’idea che i lunghi nascano interni per poi sviluppare il gioco all’esterno (da Karl Malone sino a Tim Duncan) ma in questi ultimi dieci anni il ruolo è cambiato profondamente e così i suoi interpreti. Nel basket del terzo millennio, la cui parola d’ordine è “spread the court”, due giocatori interni sono ridondanti se non addirittura nocivi.
Griffin è figlio di questo basket, nel quale il lungo esplosivo e talentuoso è impiegato soprattutto per giocare a due in situazione di Pick n’ Roll, piuttosto che per le classiche ricezioni in post dei lunghi di una volta.
Esistono delle notevoli eccezioni, da Monroe a Bynum, da Randolph a West, ma oggi è consuetudine che i giocatori di frontline (soprattutto americani) arrivino in NBA capaci di fare i roller o di aprirsi per il tiro, ma non di prendere posizione in post basso in modo legale o di fare un passo d’incrocio come Naismith comanda.
In questo senso, la frontline dei Clippers era emblematica: DeAndre Jordan e Griffin si cibavano quasi unicamente di Pick n’ Roll.
Oggi, anche grazie allo straordinario lavoro di Doc Rivers, Jordan sta diventando un vero defensive stopper, mentre Griffin è passato dall’essere un realizzatore da situazione dinamica all’essere un giocatore molto più completo.
Di fatto, gran parte delle sue conclusioni continua a provenire dal post basso, ma la qualità dei suoi tiri e dei suoi possessi è completamente cambiata.
Se nella sua prima stagione le sue conclusioni arrivavano soprattutto (oltre che da vicino) lungo la linea di fondo, a sinistra, nella seconda stagione Blake ha lavorato per migliorare il tiro dalla metà destra del campo, per poi concentrarsi, con la “cura Rivers” sui tiri dalla zona compresa tra l’arco da tre e la lunetta dei tiri liberi, cioè i classici tiri frontali alla Garnett o alla Bosh, che, oltre ad aprire il campo, consentono al lungo di giocare l’alto-basso con il compagno di reparto.
L’improvvisa sterzata nel modo di giocare di Griffin si spiega quindi anche con le direttive provenienti dallo staff tecnico, senza per questo voler insinuare che usare Blake in situazione dinamica sia una cattiva idea in senso assoluto, ma solo che schierarlo in post alto/medio consente a Griffin di essere meno monotono; può far sfoggio delle sue non disprezzabili doti di passatore, oppure utilizzare il tiro per risucchiare il difensore e aprire spazio alla propria penetrazione o per i tagli dei compagni, diventando una minaccia poliedrica anziché un’efficientissima (ma limitabile) macchina da alley-hoop.
È così puntualmente arrivato il premio di Miglior Giocatore NBA per la Western Conference nel mese di febbraio, un riconoscimento che non si vedeva in casa Clippers da due stagioni, e che sottolinea quanto di buono stia facendo Griffin anche sul piano della personalità.
Non è lui il leader della squadra, ma il suo peso, tecnico e in spogliatoio, con le sue 38 doppie doppie, ha consentito alla squadra di non sbandare durante la lunga assenza di Paul e ora, con i playoff in vista, i Los Angeles Clippers stanno finendo in crescendo.
Oddio, in realtà, un problemino ci sarebbe, e si chiama difesa. Per quanto sia un saltatore d’eccezione, dotato inoltre di un fisico debordante, Blake colleziona la miseria di 0.5 stoppate a partita (in carriera non è mai arrivato ad una stoppata di media), ma, quel che è peggio, il suo defensive efficiency rating recita un mediocre 101.3, cifre che, in ottica-playoff, non promettono bene.
Molto meglio quando si parla di rimbalzi: l’ala dell’Oklahoma cattura il 64.8% dei rimbalzi nella sua disponibilità (dati NBA.com) e il 40% di quelli contestati.
In parte, la presenza vicino a lui di un DeAndre Jordan in grandissimo spolvero, che sta difendendo, intimidendo, stoppando e catturando ben 13.8 rimbalzi di media, può giustificare un impatto difensivo ridotto, ma se i Clippers vogliono cominciare a parlare seriamente di titolo NBA, Griffin dovrà necessariamente dare una mano al suo compagno di reparto.
Le potenzialità perché Griffin divenga un grande difensore ci sono tutte (almeno dal punto di vista fisico): oggi è un giocatore che nasconde i suoi difetti, ma forza, coordinazione e verticalità sono doti che potrebbero farne un cestista completo tra attacco e difesa anziché una di quelle stelle che sono tali solo nella metà campo offensiva.
Forse così Griffin si scrollerà di dosso la nomea di giocatore finto che lo accompagna, anche presso tra i colleghi: il suo 70% scarso ai liberi non giustifica i quasi 500 falli subiti (massimo NBA), alcuni dei quali tanto gratuiti da far parlare di “mancanza di rispetto” nei suoi confronti.
Davide Pessina di Sky ha detto più volte di ritenere che così tanti falli duri non possono che far pensare a qualche fallo vigliacco o parola di troppo detta dal Griffin, ed è probabile che abbia ragione, ma non c’è riprova.
Solo nelle ultime settimane Blake si è preso una gomitata in faccia da Tucker dei Suns, poi c’è stato un alterco con Jermaine O’Neal (e in generale, quando Griffin incontra Golden State ci sono sempre scintille) avvenuto fuori dagli spogliatoi.
Ci sono dei solidi motivi tecnici per i quali Blake è ovviamente un giocatore indiziato di subire molti falli: come detto, una parte consistente dei suoi tiri parte dal verniciato, dove, da sempre, i contatti non si risparmiano.
Se però questi falli sono una tattica volta a dissuadere Griffin dall’attaccare il ferro, dobbiamo dire che non sta funzionando. Blake è il quarto gioatore NBA per numero di schiacciate, e, se si è visto fischiare 13 falli tecnici (segno che ogni tanto anche lui perde la pazienza), è anche vero che, subito l’ennesimo colpo basso, si rialza e non fa una piega, un po’ come il Ginobili dei tempi belli, un altro giocatore che attaccava il canestro come un assatanato ricevendo in cambio una cospicua dose di mazzate.
Qualcuno, in puro stile Charles Oakley, tenta di mettere un argine a Griffin usando le maniere forti, ma a questo punto è chiaro che Blake non è un giocatore facilmente coinvolgibile in una rissa; quest’evidenza però, è lungi dal porre fine al gioco scorretto nei suoi confronti: se gli arbitri non puniscono questi falli che con dei personali, alcuni giocatori continueranno ad assestare colpi proibiti per il semplice fatto di non essere sanzionati.
Tutto questo riporta alla memoria la situazione che Shaquille O’Neal dovette affrontare in tanti anni di carriera: essendo grosso, fisico e talentuoso, era un giocatore estremamente frustrante da marcare e le difese avevano iniziato a prendersi sempre più libertà nei suoi confronti; Shaq subiva dei falli terminali ai quali non reagiva (e anzi, magari completava il gioco da tre punti) così gli arbitri si abituarono a considerarli dei falli normali anziché tecnici di tipo uno o due.
Una volta, dopo l’ennesimo colpo di clava in testa, disse in conferenza stampa: “Un pizzicotto è un pizzicotto. Se lo fai a me, dirò ‘ahia!’ Se lo faccio io a te, tu dirai ‘ahia!’. Un fallo è un fallo, e un flagrant è un flagrant.” Eppure, nel corso della sua carriera Shaq ha subito una quantità di falli duri e antipatici che non sono stati sanzionati come tali, quasi a compensare il vantaggio fisico che O’Neal aveva sui rivali.
Chris Paul ha detto che è incredibile quanto Blake stia sacrificando a livello fisico per la squadra, senza mai reagire alle provocazioni. “Non capisco come ci riesca” ha affermato. Onestamente, non lo capiamo neanche noi, e il timore è che prima o poi possa reagire, ma forse il nostro è un timore che non tiene conto dell’autocontrollo dell’ala dell’Oklahoma.
Non che queste provocazioni gratuite o una certa indifferenza della stampa specializzata possano scalfire le certezze di Blake; per lui le comparsate in tv, le pubblicità e i servizi fotografici sono divertenti, certo, ma non hanno cambiato la lista delle sue priorità.
Blake Griffin vuole diventare più forte. Quanto più forte? The sky is the limit!
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.