La svolta è di quelle epocali; David Stern è stato Commissioner per così tanto tempo da diventare icona e sinonimo di NBA. Sarà strano dunque  vedere al suo posto la sagoma allampanata di Adam Silver intenta a consegnare il Larry O’Brian Trophy ai campioni NBA o nelle foto di rito del draft.

Stern assunse il ruolo di Commissioner nel lontano 1984, e, dopo trent’anni, il suo nome è inevitabilmente divenuto sinonimo della carica che ha ricoperto per così tanto tempo.

Newyorkese, di professione avvocato, è stato, come molti uomini di successo, bravo e fortunato: al suo primo draft strinse la mano a Michael Jordan, Akeem Olajuwon, John Stockton e Charles Barkley, quattro dei cinquanta migliori giocatori della storia, fenomeni che avrebbero contribuito ad accrescere la popolarità dell’NBA in tutto il mondo.

Ereditò da O’Brien una Lega in difficoltà economica, che, dopo i durissimi anni settanta stava iniziando a prendere il volo, trainata dalla rivalità tra Magic e Bird. Stern li cavalcò al meglio, poi capì e sfruttò tutto il potenziale commerciale di Michael Jordan e del Dream Team, trasformando l’NBA in un marchio globale, contribuendo con le espansioni a portare il campionato a 30 squadre dalle 23 che erano e aprendosi al mercato Canadese (con successo alterno).

Stern consegna al suo erede designato una NBA florida, nella quale (dati di Forbes) solo quattro squadre operano in perdita; una Lega fresca di un nuovo contratto collettivo decennale (anche se sia i giocatori che i proprietari hanno un opzione di uscita anticipata nel 2017).

Le sfide che si parano dinanzi a Silver sono perciò molto diverse da quelle che il suo predecessore si trovò ad affrontare negli anni ottanta.

L’NBA è un marchio che fattura cinque miliardi di dollari annui, un’impresa ramificata in tutto il globo. I trenta proprietari odierni sono uomini ovviamente molto ricchi, ma che hanno pagato care squadre acquistate durante il periodo del boom economico dell’NBA, quando, dopo gli anni novanta, il valore delle franchigie è lievitato vertiginosamente.

Sono imprenditori che non hanno comprato per puro sfizio o per passione, ma con l’intenzione di fare un investimento redditizio, e che quindi vogliono recuperare rapidamente dalla spesa fatta (pensiamo che il gruppo che controlla la franchigia di Sacramento ha speso mezzo miliardo di dollari. Per i Kings!) per acquistare la propria squadra, diminuendo i costi e aumentando i ricavi.

Silver avrà il suo bel da fare nel continuare a gestire l’NBA come ha fatto Stern, che ha sempre trattato i proprietari come suoi pari (se non addirittura come sottoposti). Il contratto collettivo (quello vecchio come quello vigente) genera attriti tra giocatori e proprietari e anche tra franchigie ricche e squadre collocate in mercati “minori”.

David Stern, pur essendosi sempre schierato con i suoi datori di lavoro, ha comandato la Lega con il cipiglio del dittatore, imponendo la sua linea senza lasciar prevalere gli interessi dei giocatori o dei proprietari; vedremo se Adam Silver, anch’egli newyorkese (ma natio del ricco sobborgo di Westchester) seguirà le orme del suo mentore o se, come sembra trasparire dalle sue prime dichiarazioni pubbliche, approccerà il ruolo con un atteggiamento inedito, meno dogmatico e più pragmatico, e, soprattutto, con quali risultati.

Cinquantenne, laureato a Duke e poi divenuto avvocato presso la Chicago Law School, Silver lavora in NBA dal lontano 1992 e si è occupato di NBA Entertainment, oltre ad aver ricoperto i ruoli di capo del personale e di assistente speciale del Commissioner.

È stato il delfino di Stern ed era nozione comune che Silver avrebbe continuato a lavorare nel solco della tradizione del suo volitivo predecessore, ma pare invece che Silver abbia intenzioni diverse, se Mark Cuban (che nel corso degli anni è stato multato per un totale di un milione e mezzo di dollari dal buon vecchio David) ha detto con un’iperbole, che “nei primi quindici giorni con Silver ho visto più innovazioni nell’arbitraggio che in quindici anni con Stern”.

Silver ha pacatamente mostrato l’uscio a parte del personale, sostituito da figure di fiducia come il suo nuovo assistente, Mark Tatum, oppure il responsabile di NBA Entertainment, Danny Meiseles, senza dimenticare il responsabile dei media, Bill Koenig, o il nuovo capo del merchandising, Sal La Rocca, oltre al braccio destro, Jarad Franzreb, che supervisiona la produzione di video per NBA, WNBA e D-League.

Silver ha ricevuto il caloroso endorsement della totalità dei proprietari, sia quelli della vecchia guardia (la famiglia Buss, Reinsdorf) sia i proprietari più recenti come Grousbeck o Clay Bennett; un benvenuto dettato forse dalla speranza, dopo trent’anni di prosperità durante i quali però Stern li ha comandati a bacchetta, di poter tornare a dire la loro e dettare la linea.

Silver è un professionista molto stimato anche dai dipendenti della NBA, dai GM e dai giocatori, tanto che Peter Holt, detentore della quota di maggioranza dei San Antonio Spurs, ha definito la sua nomina a Commissioner come un “no brainer” ossia una di quelle decisioni sulle quali non vale la pena sprecare troppo tempo a riflettere, tanto sono evidentemente corrette.

Silver è un abile negoziatore, e prima di lavorare per la National Basketball Association è stato l’assistente (un ruolo che nel sistema giuridico americano richiede molta preparazione, perché consiste nello svolgere ricerche legali e preparare il giudice al dibattimento) del giudice distrettuale Kimba Wood, che lo reputa il migliore assistente e negoziatore con il quale abbia lavorato, oltre che, e questo è curioso, un grandissimo burlone, sempre pronto allo scherzo.

David Stern, che ha lungamente tentato di presentarsi come un capo bonario e di regalare all’NBA un’immagine amichevole e disneyana, è sempre stato percepito come un tiranno; Silver, non sappiamo se per calcolo o per istinto, si è costruito una reputazione da negoziatore che gli tornerà molto utile.

Adam Silver non è un dirigente di primo pelo; ha partecipato alla negoziazione dell’ultimo contratto collettivo, guidando la delegazione della NBA; è stato il motore della digitalizzazione della lega e ha supervisionato la nascita di NBA TV, lasciando l’impressione di essere un manager moderno e dinamico in tutti quelli che hanno lavorato con lui.

Nelle sue prime interviste da Commissioner, Silver si è dimostrato assai più diretto di Stern, che era propenso a rilasciare dichiarazioni fumose e generiche.

Il neo-capo si è lanciato in dichiarazioni d’intenti sui più diversi aspetti della vita NBA. Al MIT Sloan Sports Analytic Conference di quest’anno, Silver ha parlato volentieri di temi che per anni sono stati accennati ma mai veramente affrontati.

Tanking, draft e formato dei playoff

Silver ha dichiarato di essere affascinato dall’idea di mettere in palio tra più squadre l’ultimo posto disponibile per i playoff; ha sostenuto che il draft, per come si svolge oggi, non sia necessariamente un meccanismo ottimale, ma ha sostanzialmente bocciato il sistema della rotazione (con il quale ogni squadra avrebbe automaticamente la prima scelta una volta ogni trent’anni) perché, ad esempio, cosa impedirebbe ai giocatori di rimanere un anno in più al college per essere scelti da una squadra piuttosto che dall’altra?

Mike Zarren, l’assistente GM dei Celtics, che aveva ideato il meccanismo, è già corso ai ripari, ideando una specie di “mini lottery” tra un gruppo diverso di squadre ogni anno, e questo sistema potrebbe avere qualche chance in più di vedere la luce.

Silver ha ventilato la possibilità che siano eliminate le Division, ha sostanzialmente detto che lo sponsor sulle maglie non è più un discorso di “se” ma di “quando”, parlando apertamente di cose che con Stern erano costantemente ammantate da un alone di assoluta incertezza.

Riguardo il tanking (sì, Sixers, stiamo parlando di voi!) ha detto “per come lo intendo io, tanking sarebbe perdere partite di proposito e non c’è prova alcuna che in NBA sia mai stata persa volontariamente anche solo una partita.”

Insomma, un conto è perdere di proposito, un conto è (e il confine, ce ne rendiamo conto, può essere sottilissimo) mettersi nelle condizioni di non vincere nell’immediato per ricostruire.

Colangelo, ad esempio, ha dichiarato candidamente di averci provato a Toronto, ma di non aver certo detto all’allenatore o alla squadra di perdere delle partite; semplicemente, allestì un roster troppo scarso per vincere (finendo poi per perdere anche il posto di lavoro, aggiungiamo noi).

La prima cosa che Silver vorrebbe fare è alzare l’età minima dei giocatori fino a vent’anni, e ci sembra un progetto sensato e fattibile visto che, cinicamente, i diretti interessati (i futuri giocatori) non hanno nessuna voce in capitolo al riguardo, ma è altrettanto vero che oggi l’NBA ha problemi più urgenti, legati alla qualità del gioco e alla rinegoziazione dei contratti con le televisioni nazionali.

Ha poi espresso il desiderio di ampliare la gamma e la profondità di statistiche avanzate a disposizione di una domanda fortissima di maggiori informazioni su cosa avviene in campo; viceversa, ha continuato, da un punto di vista dell’accessibilità e della completezza statistica oggi esiste un notevole divario tra il Baseball e il Basket.

La sfida alla NFL

La partita più importante che Silver ha dichiarato di voler giocare riguarda appunto il pubblico domestico; secondo le analisi di mercato, l’NBA ha un numero di fan americani equivalente a quello della NHL, ripetto alla quale ha un seguito più corposo grazie ai telespettatori occasionali, che raramente optano, in assenza dei benamati Baseball e Football, per una partita di Hockey su ghiaccio, forse perché il Basket è uno sport che tutti, prima o poi (come ha sottolineato lo stesso Silver) hanno praticato, mentre l’Hockey richiede strutture costose che non sono disponibili a tutti, o forse, semplicemente, perché la copertura televisiva di questo sport è largamente insufficiente.

Secondo l’annuale sondaggio Harris Sullo Sport, il 36% degli intervistati (pubblico nordamericano) ha indicato il Football come il proprio sport preferito da guardare in tv, mentre solo il 5% ha indicato il Basket professionistico.

Grazie ai dati demografici, appare vicino l’aggancio con l’MLB di Baseball, ma il Football rimane lontanissimo. Se Silver vuole guadagnare terreno, dovrà innanzitutto fidelizzare un numero maggiore di telespettatori occasionali, e per farlo serve qualità, probabilmente meno pause pubblicitarie, competizione e personaggi accattivanti.

Silver non ha la bacchetta magica, e non potrà fare tutto da solo, senza un po’ di quella fortuna che ha aiutato Stern (ricordate? Olajuwon, Barkley, Stockton e Jordan. Chissà che non succeda la stessa cosa con Parker, Embiid e Wiggins!) e senza uno staff efficiente, abile nel recepire le richieste del pubblico e nel tradurle in realtà.

In questo senso, è interessante notare la nomina di un uomo-marketing come Mark Tatum a vice-commissioner. L’NBA, grazie al suo status di sport globale, gode di una diffusione planetaria infinitamente maggiore rispetto a NFL e MLB, tuttavia, se pensiamo che i ricavi ottenuti dalla televisione l’anno scorso ammontano a 4 miliardi di dollari a fronte dei dieci ottenuti dalla NFL, è lampante che esista una concreta possibilità di espansione domestica.

Il rischio-lockout

Uno dei problemi che Silver dovrà affrontare, in un futuro non troppo remoto, è la possibilità di un nuovo lockout nel 2017, quando i proprietari potrebbero optare per uscire dal contratto collettivo decennale attualmente vigente.

Sebbene le squadre valgano capitali incalcolabili e tutti stiano guadagnando, molti degli attuali gruppi di controllo arrivano dalla finanza e hanno una mentalità per la quale la cosa più importante è ridurre il costo del lavoro e massimizzare i profitti.

Oggi i proprietari “romantici” come i Buss o Holt, sono in netta minoranza (posto che siamo comunque lontani dalle logiche demagogico-mecenatesche dei “Presidenti” del calcio nostrano), così come sono pochi i miliardari spendaccioni disposti a tutto pur di vincere. Agli altri interessa soprattutto rientrare dall’investimento iniziale e fatturare quanto più possibile.

È quindi plausibile che, pur guadagnando cifre ragguardevoli (e dopo la negoziazione del nuovo contratto televisivo, forse ancora maggiori), il Consiglio dei Proprietari possa decidere di tentare di ridurre ancora di più il potere negoziale dei giocatori, o che prevalga la linea di quegli owner che vogliono introdurre un salary cap rigido per aumentare la competitività dei mercati marginali.

È probabile che prima o poi si arrivi al cap rigido, sebbene sia una soluzione “socialista” che mal si attaglia alla mentalità americana, ma d’altronde in molti piccoli mercati è improponibile pensare di andare a pagare la luxury tax (ed è curioso, visto che sono stati proprio i proprietari delle squadre meno abbienti ad averla voluta per arginare la forza economica dei club delle aree metropolitane) e sarebbe un modo per garantirsi indirettamente una diminuzione della media degli stipendi dei giocatori. Se il cap è rigido, le regole economiche insegnano che diminuiranno gli stipendi, o rimarranno stabili quelli delle star mentre gli altri subiranno un crollo verticale.

Non si tratta di un discorso di competitività ma di introiti, perché se è vero che Lakers e Heat sono andati oltre al cap negli anni dei quattro titoli che hanno vinto, è altresì vero che gli Spurs operano in un mercato marginale ma sono stati capaci di vincere molto senza mai spendere più dello stretto necessario.

La nostra impressione è che il set di regole attuali produrrà un progressivo irrigidimento “di fatto” del cap, perché le regole attuali della luxury tax sono progressive; chi insiste nel voler continuare a sforare il tetto pagherà sempre più tasse, per cui, prima o poi, superare la soglia diventerà economicamente insostenibile.

La gestione di Silver sembra per adesso eminentemente improntata sul tentativo di sviluppare il mercato interno e introducendo gli sponsor sulle maglie, aumentando i ricavi, oltre che su una gestione meno dogmatica di arbitraggi e regole, strizzando così l’occhio agli staff tecnici e agli appassionati, che dovrebbero, se Tatum manterrà le promesse, essere cullati come non mai, proprio nel tentativo di “vendere meglio” la NBA.

Dunque Silver si trova a combattere molte battaglie contemporaneamente: dal marketing alla rinegoziazione dei contratti televisivi e del contratto di lavoro, dalle regole del gioco alla linea tecnica del gruppo arbitrale, le sfide non mancano; per il bene del gioco, non possiamo che fare gli auguri al nuovo Commissioner!

 

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