Dicono che siano i numeri a fare un giocatore. Di sicuro, dall’altra parte dell’oceano, alle statistiche ci tengono. Ma basteranno parziali e percentuali a distinguere tra un buon giocatore e una All Star?
Albus Jefferson, probabilmente, questa domanda se la sarà fatta.
Big Al, come viene amichevolmente soprannominato a ragione dei suoi 208 cm per 120 kg di peso, anche quest’anno, con la maglia dei Charlotte Bobcats, conferma statistiche di tutto rispetto. Ma, purtroppo per lui, è confermata anche la sua assenza dagli All Star Game.
Eppure fin quì Jefferson è sceso sul parquet con medie impressionanti, che lo pongono tra i migliori centri della lega. Le cifre parlano di una stagione da 20.1 PPG, 10.5 RPG, 2.1 APG e 23.1 EFF.
Ma ciò che più colpisce è la capacità che ha avuto Al, nel mantenersi a questi livelli stagione dopo stagione. Da quando nel 2004 è diventato un rookie ad oggi, Jefferson vanta una media di 18.8 punti, 10.1 rimbalzi, 0.8 palle rubate e 1.5 blocchi a partita, per una percentuale al tiro del 49.7 per cento.
La sua peggior stagione negli ultimi sette anni è fatta di 16.0 punti, 9.2 rimbalzi, 0.6 palle rubate e 1.1 blocchi a partita con il 49.2 per cento al tiro. Per avere un’idea di cosa queste cifre significano, Tim Duncan, non certo uno qualunque, negli ultimi sette anni ha avuto una media di 17.7 punti, 10.1 rimbalzi, 0.7 palle rubate 2.0 blocchi a partita con un 50.8 per cento al tiro. Le differenze? The Big Fondamental ha a casa quattro anelli ed è stato due volte MVP NBA e tre volte NBA Finals MVP.
Certo, Duncan gioca negli Spurs, squadra al vertice, sempre competitiva e in lotta per il titolo. Jefferson quest’anno si è unito ai Bobcats. Se vogliamo scelta discutibile. I 41 milioni di dollari in tre anni offerti, di sicuro hanno inciso. Probabilmente nessuna big avrebbe pagato tanto per averlo.
Ma ancora una volta il ventinovenne centro da Prentiss si trova a giocare in un piccolo mercato. Tranne al suo esordio, infatti, quando fu scelto dai Celtics, Big Al ha vestito le casacche di Minnesota e Utah, squadre, se vogliamo, di secondo piano in cui risulta più facile essere un giocatore predominante.
Il fatto di non essersi mai confrontato in una grande realtà al fianco di fuoriclasse affermati, in lotta per il titolo, con tutte le pressioni e le difficoltà che ciò comporta, rappresenta una falla nella sua carriera, che impedisce la possibilità di soppesare il giocatore al 100%. Forse, la vera occasione di svolta, non l’ha ancora avuta. Un grande club potrebbe leggittimarlo, dandogli il riconoscimento che merita.
Di sicuro la sfortuna non è mancata nella esperienza NBA di Jefferson. Tanti gli infortuni che lo hanno fermato a inizio carriera, e nei momenti di massima espressione.
Nel 2005-06 subisce vari infortuni alla caviglia e una lacerazione al menisco del ginocchio destro, che lo costringono a giocare solo 59 partite. Il 2 agosto 2006 si sottopone ad intervento chirurgico per rimuovere alcuni speroni ossei, e nel novembre dello stesso anno subisce anche un intervento di appendicectomia.
Nel 2008-09, dopo le prime 50 partite, un grave infortunio al ginocchio destro lo costringe a terminare anticipatamente la stagione. Probabilmente anche queste fragilità a livello fisico espresse a inizio carriera, hanno fatto sì che l’attenzione dei grandi club non si posasse su di lui.
Peccato. Perché se le sue qualità tecniche parlano di un campione sul parquet, fuori dal campo non è da meno. Fin da quando era uno studente, infatti, umiltà e lealtà sono stati segno delle grandi qualità morali che questo giocatore possiede.
All’high school di lui dicevano: ” È un bravo ragazzo, vorremmo ci fossero più Al Jefferson in giro”. Il salto in NBA, i soldi, la fama, non lo hanno cambiato.
Una star con i piedi per terra. Da sempre attiva nel sociale. A testimonianza di ciò, si è adoperato in ‘Operation Rebound’ per offrire cibo e assistenza alle vittime dell’uragano Katrina nel suo stato natale del Mississippi, ha donato 25.000 dollari alla Miami Dade College Foundation per stabilire una borsa di studio in onore del suo defunto padre, e ha partecipato a parecchie iniziative, negli anni a Boston, a favore dei bambini, diventando portavoce del TD Banknorth Kids Clubhouse, e ospitando gruppi di ragazzi ad ogni partita casalinga dei Celtics.
Che dire, la storia di questo giocatore parla chiaro. I critici, invece, parlano di un giocatore che non difende sufficientemente bene per essere un grande centro NBA, e che non si è mai messo in discussione nelle grandi città.
Probabilmente non verrà riconosciuto come un giocatore d’élite, ma sarebbe un peccato vedere un talento così importante non venir mai considerato per quello che merita.
Al Jefferson non è mai andato al college
e chi l’avrebbe detto? non certo alessandro infante…