Quando, a luglio, Chris Grant firmò Andrew Bynum con un biennale “a tappe”, che avrebbe consentito ai Cavs di sfilarsi se le ginoccha del centro originario di Plainsboro avessero fatto cilecca, tutti parlarono di colpo dei Cavaliers: dei ventiquattro milioni che valeva il suo contratto, solo metà del primo anno sarebbe stato garantito.
Alla fine, vista la stagione non esattamente favolosa dei Cavs e i problemi fisici e ambientali di Bynum, è andata proprio così: i Cavs hanno scambiato Andrew con Luol Deng di Chicago; i Bulls hanno immediatamente azionato l’opzione per uscire dal contratto di Bynum, abbattendo il monte salariale, essendo ormai rassegnati a ridurre i costi, in attesa di capire quanto è davvero rimasto di Derrick Rose dopo gli infortuni.
Così, a poche settimane di distanza, Andrew ha colto l’opportunità di aggregarsi al roster dei Pacers, che lo hanno voluto, parole di Bird, non certo per evitare che andasse ai Miami Heat: “non abbiamo soldi da buttare per togliere i giocatori alle altre squadre“.
Bynum, lungi dall’essere ridondante, sarà un utile complemento ai titolari della front line dei Pacers; è arrivato ad Indianapolis per dare fiato a Roy Hibbert e come polizza assicurativa in caso ci dovessero essere problemi di falli o peggio, infortuni, nel reparto lunghi.
Molti critici dell’operazione citano le precarie condizioni del centrone originario del New Jersey e il suo rendimento, certamente non soddisfacente, in quel di Cleveland: lo avevamo visto giocare per l’ultima volta con la maglia dei Lakers, segnando 18 punti di media con 11 rimbalzi e 1.9 stoppate. Nelle 24 partite disputate quest’anno (dopo aver saltato tutto il 2012-13) in maglia Cavs, ha messo assieme otto punti e cinque rimbalzi, denunciando un saldo passivo anche rispetto alle sue medie in carriera (11 punti e 7 rimbalzi).
Sicuramente le ginocchia di Drew sono fragilissime; lo erano già quando iniziò ad avere i primi problemi, figli diretti della sua postura, da ragazzino. Dopo otto anni di sportellate sotto i canestri NBA, sono in condizioni pessime.
Aggiungiamoci l’inevitabile ruggine accumulata nel corso di un’intera stagione passata a bordo campo (a sfoggiare un afro che nemmeno i Jackson Five ai tempi belli), ed è facile capire che queste perplessità hanno un fondamento, ma perdono di vista l’essenza dell’operazione: i Pacers non vogliono “Bynum l’All Star”, ma un giocatore che dia minuti a Hibbert, che porti esperienza (e Andrew, sebbene abbia solo 26 anni, ne ha da vendere, con 74 partite di Playoff e 12 alle Finali oltre a due titoli NBA) e sappia giocare.
Paradossalmente, se fosse ancora un giocatore da venti punti in trenta minuti, Indiana non saprebbe dove metterlo, ma viste le sue condizioni, si tratta di un affare sia per Bynum (che potrà dare quello che ha per una causa fortemente motivante come la caccia al titolo NBA), sia per i Pacers, che portano a casa un giocatore potenzialmente utilissimo ad un costo contenuto e senza sacrificare nessuno, come invece sarebbe avvenuto utilizzando lo strumento della trade.
Larry Bird sa bene che, dietro a West e Hibbert, l’unico lungo capace di gestire dei possessi offensivi è Scola. Andrew Bynum è, al contrario di Ian Mahinmi (che segna tre punti di media a partita), una presenza che nessuna difesa può permettersi di ignorare.
In carriera Bynum tira con il 55% dal campo (il 50% ai Playoff) e, complici gli anni passati ad assorbire tutto quello che Kareem Abdul Jabbar aveva da insegnare, dispone di un arsenale notevole di semi-ganci, tiri in allontanamento, spin-move, movimenti spalle a canestro, tiri dalla media.
Senza essere esplosivo, è comunque un giocatore potente che occupa spazio e che si fa sentire a rimbalzo.
Non è un difensore che da solo può ancorare una difesa, ma ha fisicità, centimetri, braccia e mentalità per dare fastidio, anche se, per quanto valido sull’uomo, non è sempre puntualissimo quando si tratta di aiutare. Se le sue condizioni fisiche gli consentiranno di giocare, la sua presenza contribuirà a mantenere la barra diritta anche quando Hibbert si riposerà, anziché subire un calo verticale della protezione del canestro (con Scola e West) o della pericolosità offensiva (con Mahinmi).
Alcuni hanno paventato rischi per la chimica di squadra (non ultimo, Ian Thomsen di Sports Illustrated) sottolineando come Andrew si sia contraddistinto per i comportamenti menefreghisti verso i compagni e un certo sprezzo per l’opinione altrui, vedi i parcheggi nei posti riservati agli handicappati o la musica a tutto volume in spogliatoio.
Altri hanno messo in discussione la sua voglia di giocare a pallacanestro, mettendolo in parallelo con tanti altri big man del passato, “costretti” a giocare a basket dall’altezza più che dalla passione, oppure a quei giocatori troppo intelligenti e con troppi interessi per dedicarsi davvero fino in fondo allo sport.
Sono tutte opinioni legittime, che però denotano scarsa conoscenza del soggetto in questione: Bynum iniziò a giocare a basket a cinque anni, quando non era un bambino particolarmente alto. Non è un mercenario del canestro, ma un appassionato che conosce la storia del gioco, uno che, arrivato in NBA diciassettenne, con un bagaglio tecnico modesto e il poster di Tim Duncan e Marcus Camby in camera, si è pian piano costruito in palestra, trasformandosi in un manuale ambulante di come si gioca in post basso.
Ha assorbito tutto quello che gli insegnava Kareem Abdul Jabbar (che ha ribadito di stimarlo molto anche in un’intervista dello scorso anno) e ha fatto tesoro degli allenamenti con Pau Gasol; i giocatori svogliati si fermano molto prima.
Nel 2010 giocò tutti i Playoff con il ginocchio destro gonfio per via del menisco da operare; strinse i denti, si fece drenare del liquido tre volte e andò a battagliare contro Kendrick Perkins (quello vero, non la versione alla camomilla in maglia Thunder) nel verniciato.
L’anno prima, infortunatosi al ginocchio sinistro, rientrò a tappe forzate pur di essere a disposizione per tentare di vendicare la cocente lezione impartita dai Celtics ai suoi compagni, mentre era (indovinate?) ai box per un infortunio.
Proprio i problemi fisici lo spinsero, questo settembre, a parlare apertamente di ritiro. Era il comprensibile sfogo di un atleta che vede il suo lavoro continuamente frustrato dal continuo peggioramento delle proprie articolazioni, ma tifosi e giornalisti scambiarono le sue frasi (dette con un apparente disinteresse, quasi che parlasse della carriera di qualcun’altro) per l’ennesima dimostrazione dello scarso interesse di Bynum per il basket, opinione confermata, a prima vista, anche dalle sue dichiarazioni in occasione della prima uscita ufficiale da Pacer: Andrew ha ammesso candidamente di non essersi allenato nelle ultime settimane, limitandosi a mantenere la dieta giusta. Apriti cielo!
Le solite autoproclamate vestali della moralità del gioco si sono stracciate le vesti, deridendo Bynum e la sua scarsa etica lavorativa; lui, che nel 2007 impressionò Kobe Bryant (lo ripetiamo: impressionò Kobe Bryant) per i risultati ottenuti in un mese di autoreclusione ad Atlanta per un training camp supplementare!
A nessuno è passato per la testa che Bynum si sia semplicemente fermato per dare sollievo alle sue ginocchia distrutte. In fondo, anche i 76ers, in occasione del training camp del 2012, gli chiesero di astenersi da ogni attività atletica per tre settimane, nel tentativo di preservarne le articolazioni.
Concentrati a dipingerlo come un deviante, pochi commentatori si sono presi la briga di spingersi oltre le sue capigliature bizzarre: a vent’anni si mise in spalla uno zaino e girò l’Europa da solo in Inter Rail, visitando Notre Dame e la Cappella Sistina. Pur non essendo un appassionato di calcio, l’anno successivo approfittò del Mondiale per visitare il Sudafrica e vedere qualche partita.
Si interessa di elettronica e informatica, è iscritto all’università, insomma, non è il classico ragazzotto immaturo e incapace di gestire i soldi, che si chiude in una camera d’albergo con la sua posse a fumarsi anche l’imbottitura dei divani.
Cresciuto in fretta e abituato ad avere a che fare con persone intelligenti e articolate, Drew ha assunto l’atteggiamento sardonico di Phil Jackson e il distacco di Jabbar senza avere l’autorità per poterselo permettere, e questo gli ha procurato pochi fans tra le fila della stampa.
Ad Indianapolis troverà persone dallo status indiscutibile, primo fra tutti Larry Bird, con cui potrà costruire un rapporto simile a quello che aveva con i suoi mentori a Los Angeles.
Se Andrew dovesse diventare di detrimento per gli obiettivi dell’organizzazione, Vogel potrà semplicemente metterlo ai margini della rotazione o tagliarlo (proprio come fece Popovic l’anno scorso con Steph Jackson) quando sarà troppo tardi per le altre squadre per metterlo a roster per i Playoff, motivo in più per dire che i Pacers sono in una win/win situation.
Per minimizzare il rischio d’infortuni, il suo inserimento sarà graduale e, salvo sorprese, non inizierà prima della pausa per l’All Star Game, per poi salire di minutaggio, saggiandone la resistenza.
Se esistono preoccupazioni sulle condizioni fisiche di Bynum, non si può dire lo stesso riguardo alla sua compatibilità tecnica con il resto dei lunghi di Indiana: ha mani, stazza ed intelligenza sufficienti per giocare con tutti, incluso Hibbert, anche se difficilmente i Pacers sperimenteranno le torri gemelle, perché la loro primaria esigenza è di dare respiro al centro titolare, dunque evitando categoricamente di farlo giocare assieme al suo backup.
Larry Bird ha una striscia aperta di giocatori dal carattere particolare con i quali è stato capace di costruire un rapporto fruttuoso; si va da Jalen Rose a Ron Artest, finendo con Lance Stephenson: chissà che presto non possa annoverare tra i suoi successi anche il nome di Andrew Bynum.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
bellalee