Gasol e Blake: compagni di squadra entrambi classe 1980

Gasol e Blake: compagni di squadra entrambi classe 1980

Il 1980 è l’anno spartiacque per capire se devi ritirarti a breve dal parquet o per pregustare il sapore del tuo imminente ritiro: non è chiaro se tu, cestista milionario, sia ancora nel pieno o già in declino.

Dopo aver eguagliato, se non superato, l’età di Cristo e Alessandro Magno, non resta che scegliere tra dignità e milioni.

Per i trenta nati nel periodo 1974-1979 era stato piuttosto semplice tracciare un bilancio, perché la carriera sembrava, per tutti loro, ben definita (Pablo Prigioni a parte).

Per quelli del 1980, che invece sono diciannove, la faccenda è un po’ più complessa: si tratta, per lo più, di giocatori ancora utili se non titolari, ma non si riesce a decifrare, per l’appunto, a che punto sia il loro calo fisiologico.

Ora, prima di passarne in rassegna i compleanni, vi sia inutile una mera statistica che non ha nulla di astrologico: nessuno dei diciannove è nato tra novembre e gennaio e sono ancora tutti trentatreenni.

Febbraio: è decisamente il mese più proficuo del 1980 in fatto di nascite.

Il più vecchio dell’annata gioca a Washington, è nato il 17 in barba alla scaramanzia, si chiama Harrington ma non è parente del mitico Othella. Al Harrington, 17 febbraio, è un atleta di cui fa sempre piacere parlare.

Tanti anni a Indiana per poi esplodere (ingrato!) tra agli Hawks. Quando ai Warriors era in declino fu ceduto ai Knicks: diciotto mesi straordinari in fatto di statistiche personali, con media punti altissima ma un po’ meno apporto a rimbalzo. Anonime le esperienze a Orlando, dove è singolare che Harrington (PF, se non SF) abbia giocato da pivot. Ora, ai Wizards, rischia di salutare tutti malamente: è infortunato da novembre e non si sa nulla di preciso circa i tempi del recupero.

Mike Miller, 19 febbraio, tirerà tutto il tirabile [NDR: non pensate male, è uno a posto] finché avrà anche solo un minuto a partita. Si dice che tra specialisti del settore lo definissero una specie di Hubert Davis, ma da quando ha qualche anello al dito è più vicino alla schiera dei Robert Horry che a quella dei Kyle Korver.

Peccato per i tatuaggi, tra i più orribili del parquet: la percentuale, invece, dice al presente 42% da 3 e 46% da 2, i numeri migliori dal suo anno a Washington (di cui mi ero clamorosamente dimenticato). Questo ritorno a Memphis poi ha molto di romantico; i suoi 21 mpg dicono che ancora ne ha per un po’.

Steve Blake, 26 febbraio, non si salva nel disastro dello Staples. L’unica cosa è che ha le cifre migliori della carriera, seconde solo al 2008-’09, a Portland. Certo senza Kobe e Nash anche Meeks e Henry sembrerebbero dei giocatori quasi appetibili, ma siccome qui stiamo valutando solo l’apporto materiale, si può dire che Blake ha fatto il suo sporco lavoro.

Il problema è che dal 10 dicembre fino a ieri non l’abbiamo più visto in azione [NDR: ieri notte tripla doppia, chapeau!], per cui sembra una via di mezzo tra la situazione di Al Harrington e quella di Mike Miller (accomunati dal fatto di aver giocato a Orlando, ndr): in attesa di giudizio.

Tayshaun Prince, 28 febbraio, è un inanellato, un atipico, un grande (ha pure finito il college, una rarità). L’unica cosa che un po’ disturba, per lui come per molti altri, è il fatto che abbia lasciato Detroit, con cui sarebbe stato splendido vederlo concludere in bellezza, anche da dodicesimo uomo.

Titolarissimo, ha un minutaggio sotto i 30 mpg per la prima volta dal 2003. Anzi, della sua assiduità in quintetto va detto che solo nel suo anno da rookie non è partito nei primi 5: per il resto, sempre dentro. Cifre in calo, ma tant’è; ancora prezioso nei rimbalzi difensivi, mai sotto il 40% da due.

Marzo: è il mese dei potenziali inespressi, o il mese dei Clippers, se preferite.

Matt Barnes, 9 marzo, ha cambiato otto squadre dal 2004. Il suo gioco è sembrato non evolversi mai; il suo apporto è sempre lo stesso dal 2005-’06, anno di svolta (ma proprio una piccola svolta) nel minutaggio: lo confermano le statistiche per 36 minuti, che dimostrano questa specie di stasi. Il suo ritorno ai Clippers è la ciliegina, la chiusura perfetta per una struttura “a cornice” che l’ha portato a finire dove aveva iniziato. Non è facile sapere quanto durerà, ma non è scontato che si ritiri presto.

Caron Butler, 13 marzo, ai Clippers c’è rimasto fino all’anno scorso. E’ un lusso tenerlo in campo per meno di mezz’ora, perché è ancora oggi un giocatore sontuoso; ha avuto qualche infortunio di troppo nei momenti chiave, ma la sua qualità non può essere messa in dubbio. Una prova schiacciante sono i quasi 20 ppg messi assieme nella sua unica post-season con i Mavs. In più è completo, come si vede dalle voci “assist” e “recuperi”. Devo sbilanciarmi personalmente, e confessare che “Tuff Juice” è uno dei miei prediletti: speriamo, dunque, che scelga una via dignitosa per smettere.

Jamal Crawford, 20 marzo, mette un sacco di punti e non accenna a voler smettere. Dovunque sia stato (ai Bulls di Brand, agli orribili Knicks, ad Oakland, Atlanta e Portland) ha sempre segnato; c’è stata forse qualche annata in cui è sembrato più utile in difesa, ma fondamentalmente non gliel’ha mai chiesto nessuno. Da notare che questa stagione da sesto uomo è la migliore di sempre per efficienza al minuto: sta viaggiando a 18 ppg, ma gioca dieci minuti in meno rispetto ai tempi d’oro, quando toccava il ventello. Non so, ma l’impressione è che siamo ancora lontani dalla fine.

Ad aprile nascevano i bianchi, ed erano icone del social network.

Matt Bonner, 5 aprile, con quei capelli e quel fisico non poteva non colpire chiunque si interessasse di basket e affini. A parte che è lo stesso giocatore che può rivendicare, contemporaneamente, un passato a Messina a 20 ppg e un anello con gli Spurs, non è una carriera alla Jason Caffey. La nicchia di Bonner è ben definita, e se stiamo parlando di un eterno gregario è solo per il fatto che, nella sua nicchia, Bonner è perfetto. Non chiederà di più. Non chiederà di meglio. Due anni e poi il ritiro, in my opinion.

Luis Scola, 30 aprile, è semplicemente un idolo delle folle e non potrebbe essere diversamente. A parte la discutibile qualità delle sue canzoni in formato .mp3, far parte di Indiana nel 2013-’14 è un motivo di vanto per chiunque. Anzi, esserne parte integrante è la cosa più importante.

D’accordo, le cifre sono semi-dimezzate dai tempi di Houston (l’anno a Phoenix non fa testo) ma non dimentichiamo che Luis Scola è quello che ha monopolizzato le attenzioni quando invece era il momento di Yao Ming, quello che alle Olimpiadi, se sei italiano, ti ha fatto soffrire quanto se non più di Ginobili (e, quel che è peggio, senza aver nemmeno giocato a Reggio Calabria o a Messina).

Maggio è un mese di gregari, senza dubbio.

Keith Bogans, 12 maggio, poteva trovarsi un ingaggio solo nei Celtics di quest’anno. Va ricordato essenzialmente come un grande girovago della panchina. Stando a basketballreference, avrebbe racimolato 19 milioni di dollari in carriera: Antoine Walker al suo posto starebbe vacillando, ma Bogans è riuscito a farsi tesserare anche quest’anno. Che si ritiri a breve è l’unica speranza.

Reggie Evans, 18 maggio, almeno è un gran rimbalzista. Il sesto posto finale per media (quarto nel totale-rimbalzi) dello scorso anno ha chiaramente del clamoroso. Eppure va detto, di questa mancata promessa dei Sonics, che i rimbalzi gli hanno garantito più di 700 partite di cui la metà da titolare. Un’altra stagione, massimo due.

A giugno sono nati due giocatori che hanno fatto – non da superstar – la storia della NBA.

Udonis Haslem, 9 giugno, è il ponte di collegamento tra due generazioni di Miami. C’era con Shaq la prima volta (quando Avery Johnson, Terry e Nowitzki persero il sonno per qualche settimana), c’era con i Big Three la seconda volta e pure la terza, in attesa di vedere se sarà o meno three-peat.

Meno decisivo ma sempre solido a rimbalzo, il treccina in chiave futura è quasi un problema. Il fatto è che non andrà via più da Miami, con cui ha iniziato la carriera, ma sarà sempre più ai margini. Il minutaggio degli ultimi tre anni recita 24, 18 e 12. Se vorrà evitarsi un anno alla Juwan Howard a 6 mpg, confidiamo nel fatto che Haslem smetta entro un anno, per il bene di tutti e per scongiurare imbarazzi societari.

Richard Jefferson, 21 giugno, qualche tempo fa faceva le Finals con l’attuale coach di Brooklyn a passargli la palla e con K-Mart a schiacciare sull’altra ala. Ora, titolare a Utah, non vincerà l’anello, ma si è ripreso alla grande dopo l’orribile periodo nei Warriors.

Sembrava un inglorioso canto del cigno (arrivava dagli Spurs “rassegnato”, sembrava uno di quei veterani alla spasmodica ricerca dell’anello) ma invece, alla fine, si è ripreso alla stragrande. Vale un po’ il discorso di Caron Butler: in sostanza, Jefferson può fare ciò che vuole. Certo è che per un giocatore che ha sempre avuto nell’atletismo la sua miglior dote, sarà difficile far fronte decorosamente al passare dell’età.

A Luglio ne è nato uno, ma buono. Più buono di tutti gli altri messi insieme.

Pau Gasol, 6 luglio, è l’emblema dell’Europa nella NBA dai tempi di Drazen Petrovic, con l’eccezione dei soli Nowitzki e Parker. Con buona pace del minore Marc, che ora è davvero quello più forte tra i due, Pau è leggenda. Leggenda vera, anche se è un po’ in calo.

Dei Lakers del 2014 non avrebbe molto senso parlare; di uno che ha quasi 900 partite, 16000 punti e 8000 rimbalzi ampiamente superati, invece, qualcosina si può sempre dire. Per esempio, che dopo l’anno scorso era difficile tornare a mettere insieme certi numeri; per esempio che Kobe, tenendo a mente questo fatto, ci proverà, perché non potrà essere da meno. Y que viva Pau, siempre, anche se è banalmente di Barcellona come non ti aspetteresti mai. Che vada a Phoenix o meno (trattativa al momento in standby) il giudizio non cambia.

Agosto, come luglio, ne ha partorito solo uno, che tanto male non è (“The Fesh Prince”, versione italiana, cit.)

David West, 29 agosto, arriva all’inizio di ogni stagione con una montagna di scetticismo ad accompagnarlo. Non è un peso facile da sopportare, se non giochi in questi Pacers. A New Orleans ha fatto la storia, ma per un giudizio definitivo bisognerà aspettare i playoff (chi scrive teme che per Indiana sia una cosa da “ora o mai più” e che l’anno prossimo saranno cavoli amari).

La verità è che stiamo parlando di un quattro che dai tempi del college – Xavier – non ha fatto altro che migliorarsi: quando questo non è stato evidente in fatto di numeri, West ha mostrato un rinnovato bagaglio di esperienza e leadership. Ormai è un giocatore prezioso, per chiunque voglia competere per l’anello.

Settembre è strano: uno dei due è letteralmente rinato, l’altro resta nell’anonimato.

Mike Dunleavy, 15 settembre, nasceva con un nome un tantino scomodo. La rinascita, invece, risale al 2011: dopo un lungo infortunio ed una regular sotto gli standard è riuscito a rilanciarsi nell’ultima stagione in maglia Pacers. Che tra Milwaukee e Chicago abbia detto la sua non stupisce, data la sua solidità. In più, nel confronto statistico con Mike senior, ha decisamente vinto.

Roger Mason, 10 settembre, vuole solo vincere lo stesso anello che gli altri vecchiardi in maglia Heat hanno già vinto l’anno scorso. Questa, neanche a dirlo, è la sua occasione. A seguito della quale, con il benestare di tutti gli addetti al parquet, potrebbe anche lasciare, senza che questo rattristi nessuno. Ne ricordiamo un discreto 2008-’09 con gli Spurs (unica occasione in doppia cifra di media) e niente più.

A ottobre sono nati i più giovani, che sono per assurdo tra i meno rilevanti dell’annata.

James Jones, 4 ottobre, merita una menzione speciale. Tecnicamente si potrebbe dire che Lebbbron e Bosh hanno raggiunto lui, Haslem e Wade per provare a vincere il titolo. Il fatto è che di questi tempi (Roger Mason et similia, si legga sopra) è raro non trovare un veterano degli Heat che sia arrivato almeno tre anni fa. James Jones, in tutta la sua mediocrità, è invece l’eccezione. Si segnala per aver frequentato il college a Miami (diritto di nascita) e per aver alternato il 33 e il 22, anche se dopo Mourning indossare il 33 è un po’ dura.

Nick Collison, 26 ottobre, è ad Oklahoma da quando erano a Seattle. Sembra giusto ricordarlo perché, nell’era di Durantula, si tende a parlare solo di KD. Parliamo del pick numero 12 del darft 2003 (esordio però nel 2004): più in basso avrebbero pescato David West, Boris Diaw, Carlos Delfino, ma anche Outlaw, Perkins e Barbosa. A fronte di tutto ciò, che poi consiste in 6.7 ppg e 5.7 rpg in carriera, ne prevediamo il sacrosanto ritiro nel 2015.

Ringraziamo Gasol, West, Haslem e Jefferson per aver ravvivato la carrellata, non senza aver ricordato che chi scrive tifa Knicks, non tifa per Miami e spera in una finale Indiana-San Antonio, che sinceramente allora è più realistico tifare Knicks.

Ringraziamo anche la scaramanzia, e ci auguriamo che per tutti questi giocatori il finale di carriera sia dignitoso. Wikipedia è lì che aspetta.

 

2 thoughts on “La classe 1980 in NBA

  1. Complimenti per l’articolo, per me che sono nato nell’80 un colpo al cuore definire “vecchi” miei coetanei…
    Comunque Crawford e West quelli che si mantengono meglio…

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