Il quintetto attuale dei Wizards recita: Wall, Beal, Ariza, Nenê, Gortat e la domanda sorge spontanea: quante squadre della Eastern Conference possono vantare uno starting five di livello maggiore?
Due sicuramente, Miami ed Indiana, ma il resto delle squadre, comprese le nobili decadute (pur in lieve ripresa ultimamente) Nets e Knicks, non sembra affatto aver qualcosa in più di Washington; anzi, dato il livello tragicamente basso della conference in questa annata, il record di 20 vinte e 20 perse raccolto sin qui suona come una discreta delusione (specie se gli smantellati e sorprendenti Raptors figurano con lo stesso indentico record).
La fresca – e netta – vittoria nei confronti dei campioni in carica potrebbe rappresentare però la tanto attesa svolta per i ragazzi di Wittman, perché dare una lezione di basket agli Heat motiva la truppa e rende più consapevoli della propria forza.
L’ascesa non più procrastinabile dei Wizards passa inevitabilmente dalle mani e dalla mente di John Wall, il quale ha proseguito il suo processo di esplosione definitiva iniziato nella seconda metà della scorsa stagione: lasciati i guai fisici alle spalle e migliorato sensibilmente al tiro (anche se la selezione dei tiri latita ancora e necessita di ulteriori affinamenti), è pronto per scalare la graduatoria delle point guard della lega e per lasciare che l’epoca ormai anche piuttosto lontana dell’Agent Zero divenga solo un ricordo e non più un rimpianto per i tifosi.
L’alfiere principe di Wall si è rivelato Bradley Beal, uno dei secondo anno più promettenti e destinato ad un avvenire da guardia dominante se non si dovesse perdere per strada, capace di mantenere il ventello di media fino al momento in cui si sono riacutizzati infortuni che parevano essere stati lasciati alle spalle (un ginocchio sinistro ballerino) incidendo negativamente sul suo rendimento. Tuttavia nelle ultime partite la tenuta fisica è tornata a buon livello e le prestazioni balistiche ne hanno tratto vantaggio (contro gli Heat 19 punti con oltre il 50% dal campo, 5 rimbalzi e 4 assist in 29’).
La sorpresa più inopinata è stata però il ritorno a livelli altissimi di quel Trevor Ariza che fece le fortune dei Lakers nella corsa al titolo 2009 per poi disputare un’ottima stagione ai Rockets l’anno seguente ed in seguito iniziare una parabola discendente tra l’approdo a New Orleans (due stagioni mediocri) e la prima stagione – quella passata – a Washington senza lasciare un segno tangibile.
Quest’anno invece, complice l’inesistenza di Otto Porter (di cui si parlerà tra poco), ha ritrovato ampia fiducia da parte del coach e l’ha ripagata con prestazioni d’alto livello, unendo alla consueta ed intensa applicazione difensiva una efficacia da dietro l’arco che pareva essere stata totalmente smarrita, e che gli ha concesso discreti bottini di punti.
Finora l’analisi è stata tutto sommato positiva: Wall prossimo All Star – finalmente, Beal vessato dai problemi fisici ma promettentissimo, Ariza ritrovato, e dunque cosa ha impedito a Washington di avere un rendimento costante e, di conseguenza, un record migliore?
Innanzitutto il reparto lunghi – sulla carta assai ben assortito – non è andato secondo le previsioni: i due titolari, il nuovo innesto Gortat e Nenê, sinora, per diversi motivi, non sono stati in grado di dominare come ci si sarebbe aspettato in una Eastern in cui i reparti lunghi d’alto livello latitano (fatte salve Indiana, Atlanta, Detroit ed in misura minore Chicago, il resto delle franchigie piange abbastanza negli spot di 4 e 5).
Il polacco, arrivato dai Suns e chiamato a sostituire Okafor fornendo nuove dimensioni offensive al team, ha realizzato discreti numeri (11 pts e 8,6 reb), ma non ha ancora dato l’impressione di essersi integrato al meglio negli schemi di Wittman, risultando spesso macchinoso e impacciato, parente lontano del Gortat di due anni fa o dell’inizio della stagione passata (ma pure di quello ammirato agli Europei con la sua nazionale a settembre 2013).
Il brasiliano Nenê non ha certamente mancato di mostrare alcuni momenti di basket abbacinante, in effetti si tratta di un lungo con mani deliziose – alcuni assist e movimenti sono davvero da cineteca – ed un atletismo fuori dal comune, tuttavia rimane un giocatore tanto geniale quanto discontinuo, pigro a rimbalzo e soprattutto tragicamente incline ad infortunarsi (questa stagione infatti non sta affatto costituendo un’eccezione, sono state già numerose le partite saltate per problemi vari).
Dietro i due lunghi titolari, in attesa che trovino continuità nel giocare insieme e migliorino la chimica, è stato utilizzato come primo cambio Trevor Booker, non proprio il non plus ultra dei comprimari di lusso: tanta energia, buone doti a rimbalzo e poco altro. Lo stesso dicasi di Vesely, l’altro rincalzo tappabuchi del reparto lunghi dei Wizards, qualche volo sopra il ferro per la Top 10 quotidiana di nba.com e un’inconsistenza generale che non fornisce garanzie.
Harrington ormai probabilmente non è da considerarsi nemmeno più un giocatore di basket, mentre Seraphin sarebbe pure giovane e con diversi punti nelle mani (dispone di un jumper affidabile dai 4/5 metri)… se venisse considerato maggiormente dal coach – evidentemente non lo vede – e se fornisse un apporto superiore allo zero nella metà campo difensiva, eventualità accaduta raramente nella sua ancor breve carriera NBA.
I problemi sotto le plance sono forse la causa principale della prima metà di stagione sottotono della squadra, ma un’altra nota negativa viene dalla alternative offerte allo starting five anche negli altri ruoli: l’unico a salvarsi dalla mediocrità – e si utilizza un termine “gentile” – è Martell Webster, buono per tutte le stagioni, una ventata di energia e di punti in ritmo dal pino, mentre gli altri cambi rispondendo al nome di Maynor (sotto-utilizzato e deludente), Temple (impegno ammirevole, ma non un giocatore da NBA), Glen Rice Jr (quasi mai visto), Singleton (…) e soprattutto Otto Porter.
Sulla terza scelta assoluta dello scorso – modestissimo – draft è doveroso spendere qualche parole in più: Otto era considerato dagli esperti come uno dei prospetti più NBA ready della classe 2013, un’ala piccola atletica in grado di contribuire in svariati modi pur senza eccellere in alcun aspetto del gioco, ad ogni modo un giocatore davvero interessante e che sembrava essere esattamente il tassello mancante ai Wizards nello spot di 3, destinato a formare un trio futuribile e temibile con Wall e Beal.
Le cose sono andate diversamente dal momento che, a causa di un fastidioso infortunio, il rookie non ha potuto svolgere né il training camp con i compagni né disputare alcuna partita di pre-season, finendo per calpestare i parquet NBA solamente a stagione inoltrata e con risultati tutt’altro che lusinghieri (il suo minutaggio pressoché nullo ne è la testimonianza, senza dimenticare l’influenza della fin qui ottima stagione di Ariza).
Forse è soltanto una questione di tempo e di adattamento, ma il ragazzo non è il prototipo del giocatore già pronto per il piano di sopra come molti si sarebbero aspettati, sia difensivamente che offensivamente (la meccanica di tiro è tutta da rivedere) le lacune appaiono troppe per contribuire da subito ai potenziali successi del team.
Riavvolgendo il filo del discorso è innegabile che i Wizards nella Eastern Conference possono e devono puntare alla post-season, tentando di lasciarsi alle spalle Raptors, Hawks (senza Horford perdono tantissimo), Bulls ecc… perché, fatte salve Indiana e Miami, non esistono potenze contro cui è impossibile competere se puoi schierare un quintetto come quello di coach Wittman; la panchina è assolutamente rivedibile ed in estate si dovrà lavorare in tale direzione (puntando magari anche ad un altro lungo di qualità vista la situazione di Nenê), ma già quest’anno un secondo turno di playoff non deve apparire un miraggio, è sufficiente dare continuità alle prestazioni ed affinare una chimica che non è ancora quella ideale.
L’impressione comunque è che manchi davvero poco per tornare a sorridere nella capitale dopo lunghissimi anni di malinconico anonimato.