Alcune città nascono sotto una cattiva stella. Magari per un po’ la fortuna sembra girare, ma quando si fanno i conti, il bilancio è sempre, inesorabilmente, in rosso. New York è The Big Apple, Cleveland è The Mistake On The Lake, giusto in caso qualcuno si stesse chiedendo quale delle due è nata il giorno sbagliato.
Tutto iniziò con il Generale Moses Cleaveland, che diede il nome alla città quando supervisionò la costruzione dell’area che oggi è downtown, nel 1796, e poi anche lui se ne andò, per tornarsene nel natio e civilizzato Connecticut.
La storia di Cleveland è popolata di abbandoni. Posta strategicamente vicina alla regione dei Grandi Laghi, Cleveland giace sulle rive del lago Erie, ed è stata a lungo una città prospera. Qui Rockefeller fondò la Standard Oil, prima di spostarla a New York.
Negli anni ’20 era la quinta città d’America per popolazione. Oggi, è la quarantacinquesima, una di quelle città placidamente dormienti, spesso descritte dalla narrativa e dalla cinematografia come città tomba di ogni aspirazione, come la St.Luis di Franzen o la Baltimora di The Wire.
Cleveland è stata una città florida anche dal punto di vista sportivo: negli anni ’50 i leggendari Cleveland Browns dominavano il football e nel 1948 gli Indians vinsero la World Series (che è singolare, anche se per qualche motivo in italiano si traduce sempre come se “Series” fosse un plurale). Anche nello sport, non è durata: i Browns andarono a Baltimora, dove diventarono i Ravens. Oggi c’è una squadra NFL che si chiama Cleveland Browns, ma non sono gli eredi diretti di quella gloriosa tradizione.
Negli anni settanta, quando iniziò la fuga nei sobborghi tipica di tutte le città americane (anche New York, che negli anni settanta e ottanta era una città decisamente pericolosa, e basti vedere film come The French Connection o Taxi Driver per capire cos’era Times Square prima di Rudy Giuliani), Cleveland cambiò in peggio.
Nel 1978 la città andò in default, nove anni dopo l’incendio sul fiume Cuyahoga, ultimo di una lunga serie, che gettò discredito sulla città. Il fiume cittadino era così inquinato da essere completamente privo di pesci nel tratto tra Akron e Cleveland; piuttosto che di acqua, sembrava fatto di melassa, una specie di melma di colore indistinto che scorreva lenta.
Cleveland è una città di premesse alle quali non c’è seguito e le sue squadre rispettano questa maledizione che aleggia su una città che è stata grande ma oggi non ha più identità. I Browns non vincono niente dagli anni sessanta, gli Indians dal 1948. I Cavaliers, manco a dirlo, non hanno vinto mai. Sembrava che, con LeBron James, i Cavs potessero invertire la rotta, ma è finita con tanti cuori spezzati e l’ennesima delusione.
Dopo quell’addio, tuttavia, anziché scivolare nel consueto sconforto di una città che è stata grande e oggi è condannata a soccombere, il proprietario Dan Gilbert ha deciso di dare battaglia e il pubblico della Quickens Loans Arena lo ha seguito.
Se per la profezia “Cleveland vincerà un titolo prima di LeBron a Miami” non c’è stato nulla da fare, è tuttavia vero che i Cavs non si sono fermati nemmeno un secondo a languire su ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. Sostituiti Mike Brown e il GM Danny Ferry, è iniziata subito la ricostruzione.
A distanza di tre anni, i Cavaliers si sono presentati alla preseason 2013 con ambizioni di Playoffs.
Hanno firmato un veterano di provata esperienza e valore come Jarret Jack per dare fiato a Irving, oltre ad uno swingman come Earl Clark. In sede di draft si sono buttati su un giocatore inatteso alla prima selezione assoluta come Anthony Bennett, aggiungendo Andrey Karasev, il figlio di Vasily, alla 19. Infine, ciliegina sulla torta, è arrivato un All Star come Andrew Bynum, che non è fisicamente integro, ma con un contratto di un solo anno era un rischio calcolato da parte del GM Chris Grant.
Le cose però, non sono andate secondo i piani. Dopo 24 partite, il record parla di 9-15, ma soprattutto, al di là dei risultati, è palese che manchi la chimica di squadra, mentre le aspettative stanno influenzando le opinioni negative sui risultati di squadra.
Con 95.3 punti di media segnati (e il 43% dal campo), i Cavs hanno il ventitreesimo attacco della NBA, e sono quart’ultimi nella classifica degli assist, con 19 a partita (e quasi un terzo di questi assist sono di Kyrie Irving) e la palla che si muove poco e male.
Di questi canestri, solo il 52% è assistito, il che è un dato pessimo, per non parlare della ratio assist/palle perse, che è di 1.23, ma questo era lecito attenderselo, se l’allenatore è Mike Brown, uno che è riuscito a rendere asfittico anche l’attacco dei Lakers. I Cavs sono un jump shooting team, pessimi sotto canestro e condannati a prendere tiri dalla media, ma soprattutto, sono una squadra che, esplorata la prima opzione offensiva, si incarta, e questo non è accettabile a livello NBA.
Anche la difesa non lascia del tutto tranquilli: sarebbe la specialità di coach Brown, che ha detto di averci dedicato gran parte del training camp, ma nell’ultimo metro e mezzo di campo, i Cavs stanno concedendo il 63% (contro il 52% dei Pacers o il 55% dei Warriors, tanto per capirci), dato che fa il paio con lo scorso anno.
Da 3-4 metri stanno concedendo appena il 31% dal campo, miglior dato di tutte le 30 squadre, e costringono gli avversari a prendersi molti “long two”, ma qualcosa non funziona. Superato il muro degli esterni, se si riesce ad andare fino in fondo, non c’è l’opposizione che ci si attenderebbe dalla frontline dei Cavs.
Va detto che dopo un inizio disastroso, le cose sono migliorate, e che nella difesa sul pick and roll Cleveland si sta dimostrando particolarmente competente (secondo Sinergy Sports, concedono 0.69 punti per possesso in quella situazione, secondi nella NBA). Sono invece pessimi nelle situazioni di isolamento, dove di punti ne concedono 0.9 a possesso, cioè il peggior dato della lega, ma questo vuole essere un plauso per Brown: l’unico giocatore che potremmo definire uno specialista è Alonzo Gee, tutti gli altri esterni sono poco interessati alla difesa, e questo rimarca il buon lavoro del coaching staff nell’inculcare la mentalità di aiuto e recupero indispensabile per far funzionare una difesa corale.
Aggiungiamoci che anche a rimbalzo i Cavs non sono che mediocri (portano a casa il 50% dei rimbalzi totali disponibili) e avremo un quadro completo della situazione.
Mike Brown è un eccellente insegnante di difesa, ma non è un grande leader o un comunicatore. A detta di Shaq, le sue parole scivolavano addosso a LeBron, e, lo sanno tutti, se non si costruisce un rapporto forte con la star, in questa lega non si va molto lontano.
Il ragionamento della dirigenza dei Cavs è corretto; ad una squadra di giovani poco disciplinati tatticamente può servire un coach difensivo e tatticamente accorto. Hanno però toppato di grosso sul come: se si vuole vendere una filosofia di gioco, è essenziale scegliere un bravo venditore, magari un Doc Rivers, dotato dell’autorità e del carisma per comandare rispetto.
Gilbert e Grant queste cose le sanno meglio di noi, ed è strano che abbiano deciso di riassumere Mike Brown. Nessuno può discuterlo per quanto riguarda la metà campo difensiva (infatti anche Ettore Messina, nel suo libro dedicato alla stagione americana, dice che i giocatori ritenevano di essere molto più preparati difensivamente con Brown che con Jackson) ma oltre alla lavagnetta c’è altro. Occorre capire i giocatori, saper mediare, gestire uno spogliatoio e “spingere” le proprie idee.
Con un allenatore di esperienza ma con personalità relativa, i Cavs sono partiti male, e dopo una netta sconfitta contro i Timberwolves, si sono ritrovati a tenere già a novembre un players-only meeting.
L’incontro, lungi dal fare chiarezza, ha esacerbato le differenze tra i due principali contendenti, Irving e Waiters, con il risultato che, se il primo non difende, il secondo è un separato in casa che i Cavs, a quanto dice Chris Broussard, starebbero cercando di scambiare (le candidate più credibili pare siano Philadelphia e Chicago, ma queste “voci” vanno sempre prese con beneficio d’inventario). Dion avrebbe accusato Thompson e Irving di giocare da soli, senza passargli la palla.
Waiters nega di aver chiesto la trade (e non vediamo perché non dovremmo credegli: nell’NBA di Asik, Paul, Anthony, chiedere una trade non è un taboo), ma si è lamentato con la dirigenza per il doppio standard di giudizio: quello con cui sono valutati tiri e palle perse di tutti, e quello usato per Irving.
I Cavs si trovano, a dicembre, con un allenatore in difficoltà (anche se non a rischio licenziamento), con il secondo miglior giocatore del roster in rotta con i compagni, con Bynum, il grande investimento, ancora lontano dal dare il contributo atteso e, dulcis in fundo, con la prima scelta assoluta (nell’anno di Oladipo, Carter-Williams e compagnia) che non vede il campo.
Bennett ha sbagliato i primi sedici tiri della sua carriera, ha segnato un canestro dal campo nelle sue prime sette partite; operato ad una spalla a maggio, è in condizioni fisiche peggiori rispetto all’anno scorso. Tutto questo è sufficiente per dire già ora che i Cavs hanno sbagliato?
Saremmo ipocriti se dicessimo che la prima impressione non conta, e Anthony Bennett sembra semplicemente un pesce fuor d’acqua. Doveva essere il nuovo Larry Johnson, ma è lontanissimo dall’essere anche solo un giocatore utile alla causa. è possibile che dopo un primo periodo (a questo punto, un primo anno) di transizione, esploda tutto il potenziale che Cleveland ha visto in lui, ma non abbiamo mai visto una prima scelta assoluta così in difficoltà.
Non amiamo i commentatori che fustigano le scelte altrui a posteriori; tuttavia i Cavs se la sono un po’ andata a cercare con una scelta inattesa e estemporanea.
L’errore è grave soprattutto perché, lo stiamo scoprendo solo ora, questo draft non era poi così scarso. Posto che ad emergere sono giocatori che nessuno aveva tenuto in gran considerazione, i Cavs hanno evitato di fare una scelta ovvia come Oladipo per proteggere le proprie stelle (Irving e Waiters), ma hanno fatto male i loro conti.
Ora si ritrovano con una prima scelta assoluta in crisi di identità (e sul cui valore ci sono fortissimi dubbi) e con le due stelle della squadra ai ferri corti. Avessero scelto Oladipo, oggi prendere certe decisioni sarebbe più facile. Non è giusto giudicare l’operato di Chris Grant con il senno di poi, ma è anche vero che i Cavaliers si sono esposti tantissimo, e se usi la prima scelta per chiamare un giocatore ritenuto da tutti buono (ma non buonissimo) le critiche sono legittime.
Che fare ora? Cacciare Dion Waiters non sarà, di per sé, una panacea; tanto dipenderà da chi arriverà in cambio e da come Brown saprà riprendere il controllo dello spogliatoio, sempre che ci riesca: il battibecco con Kyrie Irving dovuto ad una sostituzione non lascia intravedere il sereno nel futuro del buon Mike, oltre ad esemplificare un problema di tante squadre NBA nel gestire le stelle: il miglior giocatore può essere trattato diversamente, ma non al punto da generare gelosie o incrinare l’autorità del coach. Era già successo ai tempi di LeBron, si sta ripetendo con Kyrie.
Intendiamoci, è importante coltivare un rapporto tra il miglior giocatore e la franchigia, ma questo rapporto non può basarsi su “favori” e trattamenti di riguardo, bensì sulla condivisione di un programma: l’esempio sono i Durant, i Duncan, i Bryant, i Nowitzki. Un giocatore franchigia non è tale perché gestisce la squadra come il suo personale country club, ma perché guida il gruppo con l’esempio; ciò rende facile la vita del coaching staff, che potrà usare l’esempio della stella per chiedere sacrifici al resto del roster.
Se Irving è il primo a difendere sui talloni, cedere Waiters non risolverà tutto per magia. Oggi va di moda trattare Dion come il capro espiatorio, ma, come spesso succede, buttare Giona dalla nave non farà sparire la tempesta.
In tutto questo, i tifosi dei Cavs si sono messi in testa che sia possibile riportare in Ohio LeBron James, che, se questo è il biglietto da visita della sua ex-franchigia, ci penserà due volte prima di lasciare gli Heat.
Vale davvero la pena di scambiare Waiters? I giornalisti di Cleveland dicono che l’immagine da “cattivo” che gli è stata dipinta addosso sia un’invenzione della stampa. In fondo, ci sono state fratture anche più profonde, risolte con un po’ di pazienza e disponibilità. Sbarazzarsi di Waiters ora non farebbe che accentuare la convinzione di Irving di aver diritto a fare tutto quello che vuole e probabilmente porterebbe a una contropartita tecnica di livello inferiore.
I Cavs stanno pagando delle attese generate dalla convinzione che Irving sia già una stella di primissima grandezza (mentre viceversa ha ancora molta strada davanti, sia in difesa che in termini di leadership) e che Bynum potesse costituire immediatamente la risorsa in post basso capace di trasformare una squadra disfunzionale in una corazzata.
Posto che la stagione dei Cavs è lungi dall’essere compromessa in modo irreparabile, la cosa più saggia sarebbe attendere l’esito della stagione per valutare meglio alcuni giocatori insieme a coach Mike Brown (che ha la tranquillità dettata da un contratto quinquennale) e solo poi decidere chi tenere e chi scambiare.
Posto che se mai è esistita una stagione NBA in cui arrivare ottavi (o anche quarti, nella Eastern Conference) non serve a nulla, è proprio questa, tanto vale che il gruppo cresca senza ansie.
La fretta è cattiva consigliera, e non siamo sicuri che una qualunque trade possa far molto oltre a consentire uno sterile accesso ai playoff, per i quali i Cavs possono comunque sperare anche con la squadra attuale, mentre la strombazzatissima free agency 2014 si traduce in due soli nomi veramente appetibili: Carmelo Anthony e LeBron James.
Quante chances esistono che King James faccia il figliol prodigo, e che Anthony decida di andare, con LaLa Vasquez, a vivere in Ohio, in una squadra che, anche se arrivasse settima o ottava, non sarebbe comunque un’automatica contender?
La parola chiave è pazienza. Verso Mike Brown, verso Waiters, verso tutti. Costruire una mentalità vincente è importante, certo, ma a volte è meglio lasciare che una squadra trovi la sua via in modo naturale, insegnando un sistema ai giocatori a contratto piuttosto che inseguendo la stella taumaturga.
Ci sono momenti in cui è bene muoversi rapidamente, ma Cleveland deve capire che non ha nessuna pressione addosso se non quella che si è messa da sola. Basta un po’ di lucidità per comprendere che rimanere eventualmente fuori dai playoff quest’anno non sarà un dramma per nessuno.
Già ai tempi di LeBron, Gilbert si fece prendere dalla fretta di costruire rapidamente.
Ciò che farà la differenza non sarà il singolo free agent quanto la capacità di scegliere bene al draft (e qui fischieranno le orecchie di Grant) e di dare i contratti giusti ai giocatori giusti (ad esempio, siamo sicuri che il Earl Clark valga il suo contratto?).
La prossima estate i Cavs potranno estendere il contratto a Irving e Thompson; un anno più avanti sarà il turno di Waiters, se sarà ancora della compagnia. Cleveland ha moltissime scelte nei prossimi due draft, e usare bene quelle chiamate (anziché per prendere Zeller o una specie di esperimento come Bennett) sarà cruciale per permettersi di costruire una squadra economicamente sostenibile.
Se Gilbert vuole vincere un titolo NBA sarà essenziale non sbagliare le piccole scelte fatte passo per passo, quelle che, alla lunga, aprono orizzonti anziché bloccarli; viceversa, sulle sponde del lago Erie si ritroveranno ancora una volta a maledire la sfortuna di essere Cleveland, la città delle delusioni.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Bellissimo articolo, soprattutto nella parte introduttiva sul Cleveland e la sua storia. Complimenti!
Grazie!