Quando un draft viene immediatamente prima di una classe epocale come quella del 2014, capita spesso di sottovalutarlo, facendo già correre la mente alle meraviglie che riserva il futuro.
Invece, zitto zitto, il draft 2013 ha riservato delle sorprese, non solo e non tanto per gli evidenti errori di valutazione che sembrano emergere (calma, perché ci vuole almeno un anno o due per capire il vero valore di un giocatore) ma perché si sta rivelando popolato da giocatori intriganti e inattesi, gente che magari non entrerà tutta nella Hall of Fame, ma che si guadagnerà comunque un posto nel cuore degli appassionati.
Iniziamo con uno che non era certo inatteso, ma è ugualmente scivolato fino all’undicesima scelta: Michael Carter-Williams, il cui tonitruante esordio in maglia Sixiers è coinciso con la vittoria sui campioni in carica di Miami e, individualmente si riassume in 22 punti, sette rimbalzi, nove rubate, dodici assist.
È fermo dal 3 dicembre per una brutta infezione al ginocchio, ma i suoi lampi di talento hanno già fatto pentire molti GM che l’hanno scartato. MCW è l’esordiente che passa di più la palla tra tutti i rookie classe ‘13 (65.5 per gara) e dall’alto dei suoi due metri e del suo atletismo, con carta bianca a disposizione, sta davvero sorprendendo.
È anche la miglior matricola nella classifica per punti creati con passaggio (quota 17, il primo in assoluto è Chris Paul, oltre 26) ed è dodicesimo assoluto nella classifica degli assist opportunities. Sta viaggiando a 5 rimbalzi, 7 assist e 17 punti, pur non avendo tiri sicuri (40% dal campo) e senza essere automatico dalla lunetta (67%), merito dell’atletismo con cui va al ferro, quello stesso atletismo che, unito ai centimetri e all’apertura di braccia, ne fa un difensore temibile.
Se volete un candidato forte per il trofeo di rookie dell’anno, Carter-Williams potrebbe non essere necessariamente il cavallo vincente, ma di sicuro farà parte della corsa a due con l’altro grande rookie, quel Victor Oladipo al quale ha stampato in faccia una tripla doppia, ricevendo in cambio…un’altra tripla doppia (prima volta assoluta nella storia NBA in cui due rookies fanno una tripla doppia a testa nello stesso incontro).
Oladipo era dato come il grande favorito per il premio di miglior esordiente; guardia tuttofare dotata di grande atletismo, Victor si sta confermando come un ottimo giocatore, anche se 3.7 perse a partita non sono poche (curiosamente, ne perde 5 in casa e 2.4 fuori, invertendo la tendenza per la quale i numeri migliori si raccolgono a casa), ma, uscendo dal pino, sta viaggiando a 13 punti, quattro assist e cinque rimbalzi che soddisfano le pretese di Orlando, che da lui vuole soprattutto difesa, ordine e lavoro e li sta ottenendo tutti, oltre al talento fisico e all’atletismo di cui Oladipo dispone in dosi ragguardevoli, ma su questo non c’erano dubbi.
Attualmente è una guardia, più che un play sovradimensionato, come lo vorrebbero i Magic, anche perché non bisogna dimenticare che giusto un anno fa era un realizzatore che non portava palla e palleggiava poco; sono sorprendenti i suoi progressi e l’espansione che ha conosciuto il suo gioco offensivo. Victor sta comunque raggranellando 35.6 minuti di media nelle ultime dieci, con il 52% dal campo nelle vittorie e appena il 36% nelle sconfitte, il che ne fa il giocatore barometro dei Magic.
Tim Hardaway Jr. rappresenta una delle poche note liete dell’inizio di stagione di New York. Scivolato alla chiamata numero 24, è un tiratore competente, capace di crearsi un tiro quasi in ogni circostanza, e anche se non è affidabilissimo dalla media, ha abbondanti margini di crescita, tira già sopra il 40% da tre e ha atletismo da vendere, per cui ci sentiamo di dire che il ragazzo si farà anche perché sembra che dal papà abbia ereditato non solo il talento, ma anche un certo caratterino, di cui dovrà fare uso in uno spogliatoio nel quale a breve inizieranno a volare gli armadietti e in questo senso, attendiamo di vederlo più passatore, una cosa che, finora, non è davvero apparsa nelle sue corde. Strano, per il figlio di uno che ha chiuso la carriera con 8.2 assist di media.
Se vogliamo parlare di passatori, è obbligatorio menzionare Nate Wolters, che è precipitato alla 38, ma sta rendendo molto di più di quanto si aspettasse chiunque: 6.7 assist e 1.3 palle perse rappresentano un biglietto da visita eccellente per un play che si è trovato a giocare molti più minuti di quanti se ne aspettasse, complici gli infortuni di Knight e Ridnour (al quale un po’ somiglia, come tipo di giocatore). A South Dakota poteva essere l’uomo solo al comando, mentre nella NBA può essere viceversa un playmaker d’ordine, e in men che non si dica, buttato nella mischia, ha dimostrato intelligenza e adattabilità, sopperendo ad un atletismo non certo debordante con l’intelligenza del facilitatore, oltre alla non indifferente qualità di perdere pochissimi palloni.
Un altro bianco, sottovalutato per via del limitato talento, è Steven Adams, centro roccioso e potente che nella rotazione dei Thunder si è ricavato una nicchia, con 17 minuti per gara, e che usa quei minuti per catturare 4.8 rimbalzi a partita e mostrare una difesa più che competente. Giocatore offensivamente un po’ tortuoso (anche se non è scarso) è un atleta di livello superiore, con dei gomiti che fanno paura e una fisicità che è rara anche tra i lunghi NBA. Se è già diventato un personaggio di culto per i fans con i suoi video in cerca di una casa a Oklahoma City, con la sua taglia e la sua durezza il neozelandese diventerà presto un giocatore di culto anche presso i GM; non sarà mai una stella, ma è il genere di giocatore che innalza istantaneamente il livello di competitività di un allenamento e che garantisce minuti di grande sostanza.
Un altro giocatore ritenuto sottovalutato era Ben McLemore, e, ora possiamo dirlo, chi lo pensava non aveva tutti i torti: le cifre non sono formidabili, ma il ragazzo sta mostrando ogni grammo di talento di cui si parlava; tira bene, esplode a canestro dimostrando l’atletismo per il quale era famoso al college, oltre, naturalmente, alla sua bella meccanica di tiro, che oltre ad essere piacevole, è anche molto efficace.
Non è un difensore del livello di Oladipo, ma offensivamente stiamo parlando di un giocatore che vale moltissimo, e se il suo nome non sarà pronunciato molto spesso nella frase “rookie dell’anno”, la siberia californiana in cui gioca centrerà qualcosa, soprattutto ora che è arrivato Rudy Gay a fargli compagnia.
Dato per steal of the draft abbastanza presto, il tedesco Dennis Schoreder è fisicamente la fotocopia di Rajon Rondo (un altro giocatore che al draft è passato abbastanza inosservato) e i suoi primi vagiti NBA stanno lasciando intravedere lampi interessanti, ma non è un giocatore dotato, attualmente, della continuità che servirebbe per essere nulla più che un progetto, ed in fondo, anche in questo può ricordare il primo Rondo. Il nativo di Braunschweig, classe 1993, ex skateboarder, si trovava a giocare appena 14 minuti, alle spalle di Teague, con cifre trascurabili, ma la sensazione che questo teutonico atipico farà la differenza è rimasta, e gli Hawks l’hanno spedito in D-League apposta per dargli tempo per maturare, convinti di avere per le mani un giocatore di alto livello, al quale servirà tempo per costruirsi un pochino di tiro e adattarsi ad un basket leggermente diverso rispetto a quello al quale era abituato in Bassa Sassonia. Occorrerà pazienza.
Di santa pazienza si è armato anche il povero Anthony Bennett. Non era prosticato come prima scelta, essendoci giocatori più promettenti di lui a disposizione, ma quando i Cavs l’hanno chiamato, questo ha fatto impennare le aspettative nei confronti di questo ragazzone canadese proveniente da UNLV, con il risultato di rendere ancora più evidente l’errore nella scelta e l’impreparazione del ragazzo, che è per giunta oggettivamente sottodimensionato per fare l’ala forte. Tira con il 23% dal campo, con il 37% i liberi, con due punti e due rimbalzi in 10 minuti d’impiego. Se c’è un giocatore che dovrebbe essere lasciato andare in D-League, è Bennett, che sta soffrendo psicologicamente la panchina, che però è inevitabile, vista la sua abissale distanza dalla preparazione necessaria per dare un contributo di qualche tipo. Speriamo per lui di no, ma potrebbe essere il giocatore destinato a scalzare Kwame Brown dal titolo di peggior prima scelta di sempre.
Un anno fa, quando vestiva la maglia dei Bruins di UCLA, Shabbazz Muhammad era un candidato alla prima scelta assoluta, con quel fisico tarchiato e il gioco potente che poteva ricordare quello di James Harden. Greg Anthony si era spinto fino a definirlo un talento che si vede una sola volta in una generazione, e, per onestà, dobbiamo ammettere di averlo ritenuto un giocatore destinato ad avere un altro impatto rispetto a quello, sostanzialmente nullo, che sta avendo a Minneapolis, dove ha visto il campo solo per 4.2 minuti di media, accumulando numeri che sono, prevedibilmente, prossimi allo zero o comunque insignificanti in qualsiasi categoria statistica.
Affetto dalla sindrome di Tourette, Shabbazz viene da una famiglia di atleti, dalla sorella Asia, tennista, fino allo zio, che ha giocato nella NFL.
Ha fatto un po’ di rumore che, prima del draft, sia saltato fuori che Muhammad dichiarava un anno in meno della sua reale età, e la fama di talento complicato è stata confermata dall’espulsione dal Rookie Transition Program della NBA (una specie di camp dove i giocatori vengono educati alle regole sociali NBA oltre alle insidie che incontreranno nel corso della loro carriera). Giocatore prossimo al deragliamento dopo appena due mesi di carriera o talento incompreso da Rick Adelman? Secondo noi, è il tipico giocatore che con minuti a disposizione e carta bianca potrebbe anche farne 15-20, ma se sta in panchina con uno come Adelman, significa che probabilmente può farlo solo in un contesto di basket semplice e perdente.
Kentavious Caldwell-Pope è un altro giocatore che fu molto pubblicizzato da liceale, e che in due anni di college a Georgia ha fatto vedere parecchie cose buone, convincendo i Detroit Pistons a chiamarlo all’ottava scelta assoluta. In 23 minuti di utilizzo, Kentavious sta facendo intravedere lampi interessanti, senza con questo voler dire che il giocatore è fatto e finito o anche solo prossimo all’esserlo, con il 42% dal campo e soli 7 punti in una squadra già di suo altalenante.
Si credeva che fosse destinato ad avere impatto fin da subito, invece il suo rendimento è quello di un giocatore acerbo; lungi dall’essere una bocciatura, è la costatazione che il talento c’è ed è ben visibile, mentre occorrerà più tempo per portare a compimento in modo fruttuoso la transizione college-NBA, ma ci sentiamo di definirci molto ottimisti circa il fatto che i Pistons abbiano messo a segno un colpo.
Giannis Antetokounmpo è in questo momento il giocatore più giovane della lega; figlio di genitori nigeriani ma di passaporto greco, si sta imponendo come un 2.08 interessante, anche se con tanto lavoro davanti a sé, che già dispone di un arsenale offensivamente interessante (da rendere continuo e da raffinare, questo è ovvio) e con quei centimetri, tutta quella mobilità e la bravura palla in mano, è inevitabile pensare che potrà diventare un giocatore importante: ha l’altezza del numero quattro ma allo stesso tempo dispone della mobilità del numero tre, il che ne fa un giocatore tatticamente interessante. Il suo atletismo e le braccia interminabili lo rendono una costante minaccia per i tiratori avversari, che se lo possono veder piombare addosso proprio quando credevano di aver preso un tiro comodo; se c’è ancora tanto da lavorare sulla disciplina difensiva e sulla continuità mentale, ci sono delle basi fisiche che non si insegnano.
A Washington ha da poco esordito Otto Porter, reduce dall’infortunio che lo ha costretto a saltare il training camp; terza scelta assoluta, proveniente da una famiglia di cestisti, ragazzo solido, dotato di buoni fondamentali e di testa pensante, l’ala da Georgetown ha finora disputato appena 10 minuti di media in due partite, senza lasciare tracce statistiche degne di nota, ma siamo piuttosto convinti che un giocatore completo, difensore, ordinato come lui, troverà spazio anche nella rotazione affollata di ali dei Wizards. Attualmente ingiudicabile, ha tutto per essere un elemento prezioso in qualsiasi tipo di squadra, perché ha testa, difesa e talento per sapersi rendere sempre utile, pur senza essere una stella.
Trey Burke, nona scelta dei T-Wolves, scambiato subito con i Jazz, è un playmaker pronto all’uso (e, infatti, ripresosi dalla rottura di un dito, ha impiegato tre partite per prendersi lo spot di play titolare, sia pure dei derelitti Utah Jazz di quest’anno).
Narra la leggenda che da bambino fosse talmente veloce a rubar palla che furono cambiate le regole del campionato nel quale giocava, impedendogli di rientrare in difesa (!). Suo padre, che evidentemente aveva già un’idea di cosa fare del talento del figlio, l’ha addestrato dall’infanzia a essere ambidestro. Nelle rare vittorie dei Jazz i suoi numeri dicono molto bene (16 punti e 5.5 assist con un accettabile 41% dal campo) mentre nelle sconfitte dicono male, convertendosi in 10 punti con il 36% dal campo e appena 4.1 assist.
Con il 91% dalla linea, è un tiratore pressoché automatico, quindi è solo questione di tempo prima che maturi abbastanza esperienza da capire quali tiri prendere e quali no. In una squadra che ha delle guardie che giocano in modo inguardabile (Tinsley e Lucas) avrà comunque spazio, perché, se non altro, Burke ha il futuro davanti, proprio come Alec Burks, che ha passato l’estate a lavorare con John Stockton e sembra destinato a occupare la posizione che adesso è di Trey. Staremo a vedere.
Scelto con la chiamata numero tredici dai Mavs e scambiato con i Boston Celtics, il canadese Kelly Olynyk ha un aspetto bizzarro che corrisponde al suo modo di stare in campo.
Alto due e tredici, dispone di una freschezza atletica che lo fa sembrare molto più basso e duttile, ma Kelly è capace di farsi sentire a rimbalzo, dove non troneggia per capacità di presa di posizione ma sa essere fastidioso come un Jerome Williams dei tempi andati.
Figlio di un allenatore (padre) e di un arbitro (madre), è cresciuto in Canada, senza frequentare le superiori negli Stati Uniti, come è prassi invalsa tra i giovani cestisti di un certo livello. Ha sempre giocato playmaker e ha continuato a farlo anche quando era ormai un centro fatto e finito, finendo così con lo sviluppare uno stile atipico che ne fa un giocatore scomodo da marcare ma anche difficile da sistemare in campo. Difensivamente siamo alle aste, mentre offensivamente Olynyk tira con il 38% dal campo in 22 minuti di impiego, ma questo non deve ingannare, si tratta di un giocatore che quando, come ha detto Danny Ainge, maturerà fisicamente, avrà impatto. Resta da capire se sia un’ala piccola, un’ala forte o un centro. Dovesse costruirsi un tiro affidabile e sistemare la difesa d’aiuto, per i Celts le cose potrebbero farsi davvero interessanti.
Alex Len, centro ucraino dei Suns, e Cody Zeller, fratello di Tyler e Luke, in forza ai Bobcats, sono giocatori che stanno invece deludendo, ma per entrambi è presto per pronunciarsi. Zeller sta mettendo assieme statistiche scadenti, ma si sa che i lunghi hanno parabole di crescita diverse, che richiedono più tempo rispetto agli esterni. Rispetto a Olynyk, che ha cifre analoghe, è decisamente più indietro, ma occorre pazientare. Ha perso lo spot di titolare in favore di un giocatore medio come Josh McRoberts, che ha le medesime qualità di cestista relativamente atletico ma furbo. In teoria, la presenza di Jefferson avrebbe dovuto aprirgli il campo, ma sta tirando malissimo e sotto le plance ha un raggelante 33%. Len, che per un po’ si pensava andasse addirittura alla uno, deve recuperare dai ripetuti interventi sulle sue caviglie, e per il momento è ingiudicabile, anche se le notizie riguardanti i suoi dolori ricorrenti non lasciano molto tranquilli i fans dell’Arizona, che temono di aver pescato un giocatore incostante e dalle ossa di cristallo.
Nerlens Noel, centrone dei 76ers difensivamente prodigioso è in bacino di carenaggio e potrebbe rimanerci per tutta la stagione (ci dice Brett Brown), con i relativi dubbi circa le sue condizioni al rientro. Intanto i 76ers hanno sacrificato per lui Jrue Holiday e stanno ricostruendone la meccanica di tiro e il gioco, il che potrebbe diventare un vantaggio se l’anno prossimo dovesse rientrare in condizione per essere quel defensive stopper alla Sanders o Mutombo che era stato preconizzato essere, stoppatore ma anche capace di difendere one-on-one. Per il momento, lo vedranno solo gli allenatori.
Ci sono poi alcuni giocatori per il momento “dormienti”, come Tony Snell dei Bulls o Glen Rice Jr. dei Wizards che potrebbero esplodere ma non hanno ancora la maturità tecnica per farlo, quindi ci sono davvero tutti i presupposti per concludere che questo draft, vissuto (anche dagli addetti ai lavori) come un pallido preludio del 2014, non è stato affatto scarso, anche se palesemente ci sono stati molti errori nella valutazione dei giocatori, errori che, contrariamente al solito, sono emersi immediatamente.
Che dite, manca il nostro Gigi Datome? Beh, quella è un’altra storia!
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
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