L’immagine di coach Kidd che rovescia il bicchiere sul parquet è emblematico di questi Brooklyn Nets: una stella che cerca di adattarsi ad un nuovo ruolo che ricorre a mezzucci da campionato greco anni ’90 per “comprarsi” (il prezzo? Mah, roba da niente, 50.000 bigliettoni) un time-out, e perde.
Qualcuno, tipo Tyson Chandler, si è fatto due risate, ma D’Antoni s’è infuriato (non che ci voglia molto, con il mercuriale Mike): ogni squadra ha un certo numero di time-out, e non è giusto che qualcuno se ne inventi di extra; si inizia così, e si finisce con svenimenti, crampi “tattici”, palloni in tribuna e ghiaccio spray miracoloso. Vi ricorda qualcosa, amici del calcio nostrano?
I Nets non erano certo nati, nelle intenzioni del management, per penzolare nelle parti basse dell’Atlantic Division. Dopo l’eliminazione per mano dei Bulls (privi di mezzo roster) dell’anno passato, Mikhail Prokhorov ha deciso che, sì, costruire una squadra con pazienza è bello, ma tutto sommato sarebbe meglio vincere subito. È la consueta impazienza del neofita miliardario che crede di poter “comprare” vittorie, e solitamente quest’impazienza produce disastri.
Il progetto, se così vogliamo chiamarlo, del GM King non era necessariamente fallimentare. Garnett e Pierce hanno dimostrato di essere superstar disposte a sacrificare minuti e tiri per avere una chance di vittorie, e il loro innesto in un nucleo talentuoso ma privo di focus e leadership poteva avere senso, anche se l’età del duo suggeriva cautela.
Tutti bravi, a fare i quarterback del lunedì, come dicono in America, se però il nostro uomo da tredici miliardi di dollari avesse dato un’occhiata alla Storia (che, come diceva Cicerone, è magistra vitae) si sarebbe accorto che quando qualcuno apre i cordoni della borsa per tentare di vincere alla svelta, raramente riesce nell’intento.
New York, per sua natura, significa pressione. Vincere nella Grande Mela è bellissimo, ma lo è proprio perché farcela è impresa difficilissima, vuoi per l’asticella, che è sempre piuttosto alta, vuoi per dei giornali locali un po’ meno pacifici ed amichevoli del Sacramento Bee.
Avevamo scritto di coach Kidd, al momento della sua assunzione, sottolineando come nessun altro giocatore sia passato altrettanto rapidamente dal campo alla panchina (almeno in epoche recenti e quindi paragonabili). È probabilmente ingiusto scaricare tutta la colpa su Jason Kidd, ma certamente, se le cose non dovessero migliorare, il primo capro espiatorio sarà lui, anche perché muovere i contratti di questi giocatori (e ottenerne di migliori in cambio) sarà operazione ostica.
Quel che è certo è che i periodici newyorkesi, dal Post fino al Daily News, chiedono la testa di Kidd. In realtà, un management sereno si renderebbe conto che Kidd è stato messo in una situazione difficile da gestire (come avevamo preconizzato) e quindi il problema non è l’allenatore in sé, ma il modo in cui la squadra è stata assemblata e affidata ad un esordiente.
Abbiamo fatto abbastanza filosofia, ora addentriamoci nei motivi tecnici dei problemi della squadra: posto che le assenze ci sono e si fanno sentire, i Nets segnano 99.3 punti per 100 possessi, e si collocano 22° per efficienza offensiva. Con quei giocatori, direte voi; sì, con quei giocatori, rispondiamo noi. In difesa le cose vanno peggio: 107.2 punti concessi su 100 possessi collocano i Nets all’ultimo posto della lega.
Aggiungiamoci che i Nets tendono a scavarsi la fossa nel primo quarto (meno 10 di media), quando in teoria le istruzioni del coaching staff sono più fresche, e non escono nemmeno così bene dallo spogliatoio dopo l’intervallo, subendo un -16 di parziale nel solo terzo quarto, quando viceversa, i Pacers di Frank Vogel escono, come si dice, “guns blazing”; impossibile pensare che il modo in cui questa squadra è allenata non centri nulla.
Certo, l’asse pivot-play ha già saltato molte partite per infortunio, ma è anche vero che, se i risultati possono essere influenzati da chi c’è in campo, la preparazione tecnica non lo è: i giocatori dei Nets, con o senza Williams e Lopez, danno l’impressione di non sapere cosa stanno facendo, tanto che Garnett e Pierce, che non sono certo dei volume shooters, stanno tirando sotto al 40% e Joe Johnson sta cercando di fare tutto da solo.
Fare tutto da soli, dicevamo? Dopo la partita del 18 novembre contro i Blazers, i giocatori hanno voluto tenere uno di quei “players only meeting”, che di solito anziché risolvere i problemi li acuisce.
Pierce si è pubblicamente lamentato del fatto che la squadra non è in grado di fare aggiustamenti nel secondo tempo, Kidd ha più volte sottolineato come la seconda unità giochi di squadra e spesso ha lasciato in panchina i titolari nel quarto quarto; non è esattamente il classico quadro novembrino di una squadra con ambizioni da titolo.
Il problema è che, ci dice SinergySports, il meglio di quest’attacco viene dai possessi in isolamento, e questo non dice bene di un roster così talentuoso e soprattutto di chi lo allena. È vero che anche gli Heat di tre anni fa alternavano gli isolamenti di James e di Wade, ma si trattava di giocatori diversi rispetto a Joe Johnson e a Paul Pierce (oltre ovviamente a essere più giovani).
Essere la decima squadra per esecuzione di giocate in isolamento non è ideale per un roster di questo talento, che non è stato messo insieme per fare penetra e scarica, ma per giocare un basket “alla Boston Celtics” (concedeteci questa generalizzazione).
Kevin Garnett, per la verità, ce la sta mettendo tutta, nonostante l’età, gli acciacchi e il circo che lo circonda. Dopo aver iniziato con 7 punti media e il 32 percentile dal campo, nelle ultime sette sta viaggiando con otto punti e il 44%. Non numeri tali da esaltarsi, certo, ma in netta controtendenza rispetto all’inizio tragico.
Considerato che KG è un giocatore che va oltre alle statistiche, è probabilmente lui il mattone dal quale coach Kidd (o qualcun altro al posto suo) dovrà ripartire per cercare di dare un senso a questa stagione. Non è più il giocatore capace di vincere un MVP dominando in difesa e a rimbalzo (a proposito, i Nets sono diciottesimi nella classifica dei rimbalzi di squadra) ma è certamente un leader ed è ancora perfettamente in grado di fare le piccole cose che aiutano a vincere. Ha preso sotto alla sua ala Brook Lopez, del quale parla un gran bene, e sicuramente aiuterà la squadra a crescere.
Il problema, se non dovesse bastare la mano incerta del coaching staff, è che gli infortuni continuano a cambiare le rotazioni, impedendo ai giocatori di forgiare un’intesa. L’ultimo della lista ad essere rimasto fuori è stato Paul Pierce, sostituito da Anderson. Continua a non esserci Williams, oltre a Kirilenko e Jason Terry.
È possibile che quando rientreranno tutti (se rientreranno; i Lakers dello scorso anno erano una squadra di superstar e alla fine i cinque Hall of Famer hanno giocato insieme solo una manciata di partite) gli assenti, il non-gioco dei Nets assumerà i connotati del gioco di squadra. In fondo KG, The Truth e il Jet si conoscono già, mentre Kirilenko è un giocatore adattabile.
Rimane l’impressione che ci siano troppe mani a chiedere il pallone, che è sempre e solo uno, e che la soluzione adottata sia quella di alternare gli isolamenti, anziché adottare una strategia di gioco altruista e fondata sul movimento (della palla e dei giocatori lontani da essa).
Se Phil Jackson, allenando i Big Four del 2004 (che oltretutto erano motivatissimi ed erano a Los Angeles apposta per vincere il titolo, sacrificando soldi, minuti e tiri) incorse in grosse difficoltà, va pure peggio all’esordiente coach Kidd, che abbiamo spesso visto paralizzato a bordo campo, mentre Lawrence Frank impartiva ordini al posto suo (ed è stato ora esautorato dal suo ruolo in panchina e in allenamento proprio perché minava l’autorità di Kidd).
I Miami Heat del 2006 erano una squadra assemblata con poco senso, dotata di tanto talento, di veterani che sparavano le ultime cartucce, ma avevano dei solisti più forti (Wade e Shaq) e un coach di enorme personalità in Pat Riley, che non a caso fece fuori Stan Van Gundy dopo qualche settimana e si rimise, lui che era anche GM, ad allenare.
I Blazers del biennio 1999-2000 erano una squadra di talento assoluto, ma ad allenarli c’era un coach esperto come Dunleavy, e il roster era popolato da elementi nel pieno della propria carriera anziché da veterani prossimi al ritiro.
Insomma, è già molto difficile gestire un gruppo con la panchina così lunga, dove inevitabilmente qualcuno finirà con il sentirsi escluso e reclamerà più minuti o più tiri, senza affidare il tutto ad un esordiente, che per quanto esperto conoscitore della NBA, fino a poco tempo fa faceva tutt’altro.
L’anno passato con i Knicks (un gruppo costruito secondo una logica nel complesso simile a quella adottata dai Nets) non sembra averlo preparato a gestire il gruppo. Mentre New York, nella passata stagione, aveva trovato la propria identità attorno ad un gruppo di veterani e ad una filosofia di gioco (buona solo per la regular season, certo, ma almeno buona per qualcosa), Brooklyn sembra una squadra persa in attacco come in difesa.
Il record parla di 5-14, e salvo miracoli, difficilmente a settembre 2014 ci saranno cerimonie di consegna degli anelli dalle parti del Barclays Center; ai Nets manca una gerarchia, un go-to-guy designato, una filosofia difensiva e delle rotazioni certe. Di sicuro le assenze stanno peggiorando la situazione, ma è vero anche che il talento a disposizione è comunque tanto, sufficiente per pretendere un record almeno prossimo al 50% di vittorie e non stiamo vedendo segnali molto incoraggianti. Nelle ultime dieci i Nets sono 2-8 e di partita in partita qualche timido segnale di ripresa si alterna a ricadute.
Con 102 milioni di payroll, le aspettative sono alte (anche se irragionevoli, Kidd ha accettato il posto e non può andare ora a spiegare a Prokhorov che il roster è difficile da amalgamare) e le chances che Giasone rimanga in sella fino in fondo sono basse.
I Nets hanno licenziato Avery Johnson, che aveva appena vinto il premio di allenatore del mese, quindi riteniamo che quando la pressione dei media diventerà insostenibile non esiteranno a mostrare la porta a Jason, invitandolo ad un passo indietro e ad assumere magari un ruolo dirigenziale, per evitare a tutti l’imbarazzo di licenziare un azionista della squadra.
È probabilmente tardi per costruire un playbook che sfrutti in modo diametralmente opposto il talento a disposizione, ma Kidd ha ancora la possibilità di adottare alcuni correttivi: può accorciare le rotazioni, mettere ai margini i giocatori che secondo lui non fanno gruppo, anziché tenerli in quintetto per via del nome prestigioso e poi lasciarli in panchina nei quarti quarti.
Può adottare dei set semplici, che partano da situazioni di single double ad esempio, sfruttando i tiratori, come Pierce, Johnson, e i bloccanti alla Garnett o alla Lopez, per cercare di non far stagnare l’attacco, magari tentando anche di prendere questo tipo di tiro in mezza transizione, situazione particolarmente congeniale a Pierce, che è uno di quelli che stanno avendo più difficoltà.
Difensivamente, la squadra è da costruire, ma quello che manca, in primo luogo, è l’effort. Se i giocatori non si mettono a disposizione, si può fare zona mista, uomo, preparare le rotazioni e la difesa in transizione ma i risultati saranno sempre dei comodi lay-up o dei tiri non contestati per quegli attacchi disposti a fare uno o due extra-pass. Una grande difesa si vede dalla voglia di aiutarsi, una grandissima difesa dalla preparazione tecnica alle diverse situazioni.
Viste le circostanze, nessuno pretende che i Nets s’inventino una difesa tipo Chicago dalla sera alla mattina, ma di sicuro qualcosa di più è possibile ottenre, se con la cura Rivers persino i Clippers, udite udite, sembra che inizino ad avere una vaga idea di cosa fare nella propria metà campo (vaga, ci teniamo a sottolineare).
Che dire? Kidd non ha molto tempo, quando rientreranno i titolari avrà al massimo un mese di tempo per rimettere in sesto la situazione. Se non ci riuscirà, verrà sostituito, ma visto il modus operandi della dirigenza, non è detto che il prossimo allenatore sia migliore.
Per risolvere i problemi, il primo passo è riconoscerli, quindi la mossa decisiva è stabilire se esiste un allenatore disponibile sul mercato capace di mettere ordine in questo pasticcio, e non far fuori l’allenatore perché è quello che fanno tutti o quello che chiede il Daily News.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.