Per l’NBA di metà autunno si aggira, in cerca di rivincite e conferme, un essere provvisto di un corpo estraneo sulla fronte che lo distingue da altri membri di specie molto più comuni: non è un unicorno, e nemmeno Harry Potter, è Anthony Davis.
Il lungo chicagoano è stato uno dei protagonisti indiscussi di questi primi 20 giorni di stagione regolare, nei quali ha ammutolito i (non-pochi) critici che dopo il primo anno l’avevano bollato con la peggior etichetta applicabile ad un atleta: quella di over-rated (o sopravvalutato, se preferite).
Sì perché molti, dopo averlo visto dominare in una finale NCAA praticamente senza segnare (6 punti contornati da 16 rimbalzi, 5 assist, 3 e recuperi e 6-stoppate-6 in quella Kentucky-Kansas), dopo averlo pronosticato, ça va sans dire, alla pick numero 1 del Draft 2012, e dopo aver sentito i commenti entusiastici di tutto l’entourage di Team USA a Londra, si sarebbero aspettati un impatto istantaneo di Unibrow su una franchigia come New Orleans, amante abbandonata da CP3, senza il becco di un quattrino, e incapace di intendere e di volere (era appena passata dalla gestione controllata di Stern a quella di Tom Benson, owner dei Saints della NFL).
E invece? Invece la montagna sembrava aver partorito poco più di un topolino, cioè una regular season da 13.5 PPG, 8.2 boards e quasi 2 stoppate, numeri ottimi per un rookie ma araldi di una serie di difetti non contemplati nel profilo del giocatore-franchigia medio: un fisico tutto da costruire, un gioco in post deficitario e anche una certa tendenza ad infortunarsi (commozione cerebrale dopo la prima partita e in seguito en plein di problemi nella parte sinistra del corpo, caviglia, spalla e infine ginocchio).
Le aspettative c’erano ancora, ma iniziavano a sorgere dubbi sul quando e sul se Davis si sarebbe tramutato nella stella su entrambe le metà campo che sembrava destinato a diventare.
Be’, le prime 9 partite somigliano molto ad un elisir contro i dubbi ed i timori di cui sopra: che ne dite di quasi 21 ad allacciata serviti con 11 carambole e, udite udite, 2.1 recuperi e 3.6 rejections (che se mantenuti lo renderebbero il primo a superare il 2+3 dai tempi di Olajuwon nel ‘91) a partita per convincersi che in fondo al ragazzo un po’ di fiducia si possa dare?
Non pochi sono sembrati datati nel confronto diretto con lui, su tutti Pau Gasol, lastricato sotto una doppia doppia da 32+12 (e 6 stoppate) l’8 novembre, a conferma di come la sorte spesso ce la metta proprio tutta per evidenziare certi passaggi di rito: perché Anthony ha definitivamente aperto gli occhi alla Lega sul suo potenziale proprio contro il catalano, colui che, fosse finito a New Orleans in cambio di Paul come stabilito nella off-season 2011, avrebbe probabilmente generato un numero di vittorie troppo alto per arrivare alla prima scelta assoluta tradottasi poi nell’arrivo di Davis; si può quindi dire che l’allora demonizzata ingerenza di Stern (de facto owner della franchigia in quel periodo), che bloccò la trade per mandare CP3 sull’altra sponda dello Staples, quella senza stendardi, abbia alla lunga prodotto un beneficio probabilmente decennale per i neo-Pelicans, e Anthony, con la suddetta prestazione monstre, si è preso la briga di farlo notare.
I numeri sono come sempre l’effetto del miglioramento, non la causa; quest’ultima si può ricercare in più fattori:
a) il guadagno in termini di peso. Nelle parole del giocatore durante l’estate ha messo su 10-12 libbre di muscoli, ovvero circa 5 chili; questo non lo rende ancora un autentico armadio da pitturato (se è possibile che un uomo di 208cmx105kg possa non essere un armadio…), ma di sicuro questa “durantizzazione” è un passo verso la definitiva configurazione di un fisico da battaglia, ed è una conditio sine qua non per il fattore successivo;
b) un’aggressività totalmente diversa: non è molto frequente che un giocatore raddoppi il numero dei tiri liberi tentati, ma, sì, questo è il caso. Davis è passato da 3.2 a 6.9 viaggi in lunetta, segno di una personalità emergente e di una predisposizione ai contatti assolutamente accresciuta;
c) un ruolo più vicino a canestro. L’addio di Robin Lopez ha portato coach Monty Williams a schierarlo da centro per molti minuti, considerato che il titolare Jason Smith ne gioca poco più di 17 e che Stiemsma starà fuori per 6-8 settimane, e la prossimità al ferro, soprattutto in fase difensiva, gli permette di sfruttare appieno doti intimidatorie e tempismo in aiuto;
d) più soluzioni al tiro: oltre alle solite note, ricezione sul lato debole e in contropiede, dove per facilità di corsa è immarcabile per qualunque lungo, ha alzato di parecchio le percentuali dal mezzo angolo destro (66.67%) e dal gomito sinistro (62.5%), anche se, va detto, i tiri tentati da queste posizioni sono sotto l’unità a match;
e) un’estate libera da impegni e infortuni. Nel 2012 la kermesse londinese (garbage time a iosa, peraltro) aveva indiscutibilmente preteso un dazio sulla preparazione alla prima stagione da pro, dazio tradottosi nella serie di problemi fisici già descritti (in particolare la reazione da stress alla caviglia); quest’estate, al contrario, solo il mini-camp di Team USA a Las Vegas ha interrotto il training estivo, permettendogli di arrivare totalmente integro ai blocchi di partenza;
f) un livello di squadra più alto: gli arrivi di Jrue Holiday e Tyreke Evans, oltre alle condizioni psico-fisiche (vedi offerta di Phoenix pareggiata contro la volontà del giocatore) finalmente accettabili di Eric Gordon gli hanno tolto molta pressione, soprattutto offensiva, permettendogli di giocare senza forzature, ed il ritorno di Ryan Anderson (26 all’esordio con Philly) gli garantirà ulteriore libertà dai raddoppi a cui bene o male inizia ad essere sottoposto seralmente, tutto ciò senza pensare alla pura e semplice esperienza di un anno di NBA sulle spalle (sophomore slump a chi?).
A questo punto ci si potrebbe interrogare non tanto sul perché uno con queste doti, e in queste circostanze “ambientali”, abbia già un posto pressoché certo nel roster della Western Conference nell’All-Star Game casalingo del 16 febbraio, ma piuttosto su come abbia potuto diventare questo tipo di giocatore bruciando ogni casello.
In fondo dopo il primo anno Davis era un cantiere aperto con consegna a lungo termine, e invece ora sembra che il passaggio dalle fondamenta alle rifiniture del Duomo si sia concluso sostanzialmente nottetempo. Come è stato possibile?
Per riutilizzare la metafora della montagna e del roditore, si può spiegare pensando che non ogni ammasso roccioso abbia gli stessi tempi di gestazione, e che nello specifico questo ammasso abbia dei tempi arduamente prevedibili per diverse ragioni. Dunque perché una partenza lenta seguita, neanche una rivoluzione terrestre dopo, da uno scatto bruciante?
Innanzitutto bisogna ricordare come Davis abbia speso relativamente poco tempo all’interno di questo corpo: detto così sembra un paradosso, ma la statura sviluppatasi a balzi di 10 cm l’anno (1.83 da freshman all’high school, 1.93 da sophomore, 2.03 da junior, fino ai circa 2.10 attuali) lo ha reso un neofita del proprio fisico e ha pesantemente condizionato il suo sviluppo come giocatore, da guardia sedicenne appostata in angolo a gazzella d’area provvista di rampini per toccare il cielo (2.30 di apertura alare, secondo di tutta la classe 2012).
Il suo essere “Alice in Wonderland” (e in un’intervista su SLAM lui stesso racconta di quanto si sia sentito fortunato a non aver sofferto di dolori articolari per una crescita così subitanea) spiega dunque il ritardato sviluppo di una massa muscolare ingente, l’eufemisticamente non grande varietà di movimenti in post contenuta nel suo primissimo bagaglio NBA, ma anche il buon trattamento di palla (ottimo outlet pass) e la gran difesa pure sul perimetro.
Insomma il suo è un upbringing quasi più di stampo europeo che made in USA, e può ricordare quelli di Pau Gasol, passato da lungo tiratore a uomo d’area al momento dell’arrivo a Memphis (Unibrow non ha ancora tentato una tripla, ed esegue il 57% dei propri tentativi dal campo nel pitturato), e di Gallinari, cresciuto da guardia di 1.85 e svegliatosi una mattina di una spanna più alto; ed è la ragione che sta dietro a questo andamento “Nasdaq” nel suo sviluppo, perché, se evidentemente tutti questi cambiamenti strutturali richiedono tempi di adattamento proporzionati al crescente livello di difficoltà cestistica, i miglioramenti del chicagoano di ruolo in ruolo, e la sua attitude a trasformare il background anatomico altalenante in un punto di forza, lasciano pochi dubbi sulla sua etica lavorativa e generano seri punti di domanda su quanto estesi possano essere i suoi margini di miglioramento. In positivo, ovviamente.
E quali sono, in definitiva, le prospettive a medio-lungo termine? Quelle di squadra sono abbastanza promettenti, sebbene per quest’anno i playoff sembrino fuori portata: il roster di New Orleans è sformato come il pastrano di un borseggiatore dickensiano, gonfiori sospetti in alcuni punti (backcourt, con Holiday, Evans e Gordon, quest’ultimo in odore di trade, per non parlare dello svaporatissimo Austin Rivers, e in misura minore fra le ali grandi, Anderson, Aminu, adattato alla SF, e Davis stesso) e vuoti preoccupanti in altri, in particolare in mezzo; ciononostante, l’orizzonte è buono, vista la bassa età media (23.9), e con qualche scelta più coesa (e magari una pick fra le prime 10 al prossimo Draft) Crescent City si ritroverà in fretta nei discorsi primaverili.
Per quanto riguarda gli obiettivi individuali, Davis può già sogghignare: l’All-Star (perennial) dovrebbe essere assicurato, così come un posto in un quintetto post-stagionale (almeno in quelli difensivi) e perché no anche uno nel roster di Spagna 2014, tutto grasso che cola considerato quanto Unibrow possa ancora migliorare alcuni aspetti del gioco, dal jumper al gioco di piedi in low post, alla necessità di mettere ancora qualche oncia sulle spalle, e sembra veramente il minimo indispensabile per una carriera sulla quale si spalmerà parecchio caviale, perché quando l’IQ cestistico incontra il talento bisogna cancellare l’ordinario per puntare direttamente al gradino successivo.
freshman di lingue a milano, a 11 anni si ammala gravemente di NBA grazie a LeBron James (fino a the Decision) e Kevin Garnett; il suo sogno è fare il giornalista sportivo
One thought on “Focus: l’esplosione di Anthony Davis”