bav464E’ il 20 dicembre 2003, e al Rose Garden sono arrivati gli Spurs. La partita è già finita all’intervallo, e Tim Duncan metterà a referto i soliti 26 e 10, conditi con 3 stoppate per ventitreesima doppia doppia di stagione e la decima vittoria consecutiva per San Antonio.

Ad un certo punto dell’incontro, il pallone esce dal campo, tutti vogliono la rimessa e un attempato nanetto si intromette tra gli astanti: “Levati tu, palla a Portland!“. “Hai sbagliato fischio“, risponde Timoteo. No, replica l’ineffabile Dick Bavetta. Arriva un Time Out sul campo, e Duncan, con i classici occhi sbarrati che usa ogni benedetta volta che decide di contestare un fallo, insiste “ci scommetto dei soldi, che hai sbagliato fischio“. Bavetta risponde che non può scommettere soldi, ma un hamburger, quello sì.

Dopo la partita, davanti al videotape del match appena concluso, l’arbitro dovette ammettere che sì, effettivamente, quella rimessa era di San Antonio e non dei Blazers, damn!

Qualche giorno più tardi, il 6 gennaio, il fischietto di Brooklyn capitò dalle parti dell’Alamo per arbitrare una partita tra Wizards e Spurs. Memore della promessa, lungo la strada per l’AT&T Center effettuò una fermata ad un fast food; pacchetto recapitato nello spogliatoio dei texani, con tanto di bigliettino: “Hai ragione Tim, ho sbagliato chiamata. Goditi l’hamburger“.

Questo è solo uno dei mille aneddoti riguardanti Richard T. Bavetta, l’arbitro NBA più riconoscibile di tutti e anche il più rispettato, al di là dei quotidiani siparietti che si permette di intrattenere con i giocatori o anche con gli spettatori della prima fila, che lo apostrofano per 48 minuti.

Superati i settanta, ogni mese arbitra le sue 15 partite, una più o una meno, come d’altronde fa dal 1975, anno del suo ingresso nella Lega.
E’ uno degli arbitri più rispettati tanto che persino Mark Cuban, uno che ha dossier praticamente su chiunque lavori per la NBA, ha detto (con un’iperbole) che arbitra da manuale.

Bavetta ha sempre fatto della capacità di essere ironico e paziente il suo marchio di fabbrica.
Sempre, oddio, diciamo pure che gli esordi non promettevano esattamente una carriera lunga e soddisfacente.

Ma andiamo con ordine.
Brooklynese di Park Slope, figlio e fratello di due poliziotti dell’NYPD, frequentò Power Memorial prima che ci passasse Lew Alcindor, poi andò all’università al St. Francis College, sempre a Brooklyn. Laureatosi nel 1962 con tanto di MBA in finanza e un posto da broker presso Salomon Brothers a Wall Street, Dick iniziò ad arbitrare nella Wall Street League insieme a suo fratello, arbitro part time.

Aveva 27 anni e decise di fare un corso per poter arbitrare le partite delle scuole superiori. Lavorava a Downtown, ma si assentava il martedì e il venerdì pomeriggio, quando giocavano le leghe scolastiche. Cominciò ad arbitrare al Rucker, famosissimo playground newyorchese, facendosi un nome nell’area metropolitana.

Ronnie Nunn, che sarebbe diventato in seguito il responsabile degli arbitri NBA, giocava nei tornei del Rucker e si ricorda di lui: “Era il genere di persona che scende in campo e ti mette a tuo agio. Sapeva sempre cosa dire per consentire ad allenatori e giocatori di concentrarsi sulla partita anziché sull’arbitraggio“.

Bavetta andava a fare il fischietto nel weekend in posti come Allentown, Scranton, poi tornava in città e alle sette di mattina era al suo posto da Salomon Brothers, quando si dice la passione. Si sentiva attratto soprattutto dalla pallacanestro professionistica della NBA, che gli sembrava la più adatta per le sue caratteristiche. “Non importa quanto tardi fosse, tornavo in città e andavo a fare un giro sulla 34esima, attorno al Madison Square Garden, guardavo l’insegna e sognavo di arbitrare una partita lì“.

Dopo vari tentativi, non sembrava che la NBA fosse nel suo destino. Piccolo, dall’aspetto ordinario e abbastanza esile, venne scartato alle audizioni per nuovi arbitri per ben 9 anni filati perché non era abbastanza imponente (allora pare proprio che la possanza fosse un criterio importante per scegliere a chi dare il fischietto), fino al fatidico 1975, quando si ritirò Mendy Rudolph (una leggenda dei fischietti, primo a passare quota 2.000 partite arbitrate), che liberò un posto consentendogli di esordire, quando si dice la coincidenza, proprio al Madison Square Garden, il 2 dicembre, otto giorni prima del suo compleanno; sempre al Madison Bavetta ha arbitrato un Jazz @ Knicks del 2004 che è stata la sua partita numero 2.000 (è stato il quarto arbitro di sempre a farlo).

Passione, dicevamo: per coronare il suo sogno, divorziò da sua moglie, Frances, che preferì non avere un marito (e un padre per le sue due bambine) che vivere con uno costantemente assente, impegnato ad arbitrare qualche partita all’altro capo dell’Unione. La paga sarebbe stata la metà di quella che aveva come Stockbroker, ma al cuore non si comanda.

Per parecchio tempo Bavetta non fu granché, come arbitro professionista. Costantemente tra i peggiori nelle valutazioni espresse dalla NBA, era quello che affibbiava più tecnici ed espulsioni di tutti: “Ogni anno mi chiedevo se mi avrebbero richiamato per la stagione successiva“.

In una partita a Norfolk Scope del 1981 tra Washington e New Jersey decise di non fischiare un fallo su Albert King mentre suonava la sirena, mandando su tutte le furie Larry Brown.

Proprio nel 1981 però le sue due figlie andarono a vivere con lui e qualcosa cambiò: Bavetta iniziò a lavorare più duramente, andò ad arbitrare ad Harlem e nella lega Pro del New Jersey durante l’estate, cominciò mantenere un regime di allenamento costante, fatto soprattutto di corse; sei, otto miglia tutte le mattine e un riposino il pomeriggio, per arrivare carico e concentrato alle partite.

Gli effetti iniziarono lentamente a vedersi; divenne arbitro capo (con il potere di overruling sull’operato dei colleghi) e nel 1986 arbitrò la sua prima gara di Playoffs.

Ripensandoci, ero un arbitro ordinario, niente più che mediocre. Ma quando Christine e Michelle (le sue figlie, ndr) vennero a vivere con me, mi diedero uno scopo e le cose iniziarono a migliorare. Divenni arbitro capo e arrivai ai Playoffs; è come se mi avessero offerto stabilità. All’epoca pensavo che gli avrei insegnato la vita, ma sono state loro ad insegnarla a me“.

Bavetta diventò un arbitro, nelle parole di Bennett Salvatore, dotato di una grande capacità di ricordare le giocate, innamorato del gioco e con un’innata capacità di non essere mai ostile, nemmeno davanti ai giocatori più infuriati. “Tu sei lì ad urlargli, con il sangue alla testa, e lui ti ascolta e poi dice:” a proposito, l’hai visto l’incontro di Sumo in tv l’altro giorno?” e poi se ne va, lasciando il giocatore o l’allenatore a chiedersi se non sia matto“.

No, non è matto, è solo uno che sa, usando le sue stesse parole, di essere un attore di serie B sul proscenio della NBA. Ecco perché è così restio a distribuire tecnici (al punto di essersi guadagnato la nomea di arbitro un po’ molle) e perché ricorre ad espedienti per cercare di calmare i giocatori, spiazzandoli, anziché soffiare sul fuoco per potersi togliere la “soddisfazione” di punire le recalcitranti stelle del parquet.

Anche per questo è diventato l’arbitro preferito dai giocatori, che a volte si arrabbiano, protestano, ma sanno che Dick è in buona fede e non ce l’ha con nessuno. Come giustamente scritto nel 1998 sul New York Times da David Firestone, è apprezzatissimo dagli allenatori per la sua disponibilità ad ammettere, dopo la partita, di aver sbagliato un paio di fischi. Anche così si diventa l’arbitro con più presenze in assoluto nella storia della NBA.

Pur non rubando mai la scena ai giocatori, Dick è diventato ugualmente un fan favourite grazie alla sua capacità di non prendersi sul serio, all’autoironia che gli consente di ballare con una mascotte prima di una partita o accettare una sfida di corsa contro Charles Barkley (All Star 2007) e che conosce tutti per nome, inclusi i massaggiatori.

Il suo carisma e la sua longevità straordinaria, che lui attribuisce all’aver sempre usato cinque paia di calzini (e scarpe di mezzo numero più grandi) lo collocano nell’empireo dei personaggi più noti e popolari della NBA, un volto e un nome che sono marchi riconoscibili tanto quanto quelli dei giocatori o di David Stern.

Non è sempre stato così. Quando il suo nome era relegato nei bassifondi delle valutazioni degli arbitri, una volta commise reato di lesa maestà, facendo overruling su una chiamata decisiva di Earl Strom, l’arbitro numero uno della NBA degli anni settanta; i New Jersey Nets vinsero così la partita sui Sixiers. Strom, che nella sua gloriosa ma vivace carriera non ha mancato di fare a botte con giocatori e spettatori (era la famosa “NBA dei vostri padri“!), si ricordò di non averle mai date ad un arbitro e, raggiunto Bavetta negli spogliatoi, colmò la lacuna facendogli un occhio nero.

In quell’occasione Bavetta fu quasi sbeffeggiato dalla stampa, ma quello stato di cose era destinato a cambiare il 9 novembre del 1984, data in cui la carriera di Dick svoltò decisamente: durante il terzo quarto di un Celtics-76ers, il suo collega Jack Madden si ruppe una gamba scontrandosi con Dennis Johnson; Bavetta si ritrovò ad arbitrare da solo e in diretta nazionale.

Nell’ultimo quarto Julius Erving e Larry Bird vennero alle mani e furono tutti e due espulsi, e tanti saluti alla nomea di arbitro debole. Bavetta riuscì a gestire con polso e buon senso una partita ad alto rischio e da quel momento la sua carriera decollò.

Quando Earl Strom tornò a mettere le mani addosso a Bavetta (il motivo? A detta dell’ineffabile Earl, Dick era un arbitro casalingo, che sfavoriva le squadre ospiti) ma dovette scusarsi con l’esile nativo di Brooklyn, che dal canto suo, da quel giorno in poi fece del suo meglio per essere un arbitro meno incline a farsi condizionare dal pubblico (non riuscendoci proprio sempre, vi direbbero Mario Elie e Gregg Popovic, che se lo ricordano nella veste di sesto uomo dei Knicks durante le Finali 1999, comunque vinte 4-1 da Sean Elliott e compagnia).

Spiegare, parlare, questi sono diventati gli ingredienti capaci di trasformare un arbitro insicuro (infatti dare tanti tecnici, ben lungi dall’essere segno di polso, denota carenza dello stesso; pensiamo a Violet Palmer, cui spetta il compito ingrato di tenere a bada i macho al testosterone che girano per la NBA e che era presente, come Bavetta peraltro, la sera della rissa con 10 espulsioni -tutti i giocatori in campo- tra Knicks e Nuggets) in uno dei migliori fischietti in circolazione.

Bavetta è bravo, ma esistono arbitri anche migliori; pochi però hanno il suo carisma. Sbagliare è umano, dice il proverbio, e spesso ciò che fa impazzire gli allenatori e i giocatori, non è l’errore arbitrale, ma l’incapacità di ammetterlo. Bavetta sbagliava e sbaglia tutt’ora, ma ha l’umiltà di riconoscere l’errore.

Nel 2006 è arrivata la partita numero 2.135 di Bavetta, con cui ha stabilito il record assoluto per gare arbitrate in NBA, sorpassando Jake O’Donnell. La cosa veramente incredibile è che queste 2.135 gare sono consecutive. La striscia era sembrata in pericolo quando Jalen Rose gli ruppe inavvertitamente il naso centrandolo con un pugno destinato a Patrick Ewing; Dick concluse la partita con il naso rotto, si fece operare e tornò la sera successiva per arbitrare un’altra gara di Playoffs.

Anche di recente, non sono mancati i momenti critici e le teorie del complotto: da Gara 6 tra Lakers e Kings del 2002, a Tim Hardaway, che lo chiamò Knick Bavetta dopo la sconfitta dei suoi Heat in Gara 7 nel 2000, decisa da un fischio discutibile (e puntualmente discusso in tutte le salse) di Bennett Salvatore.

Bill Simmons fece una lista delle partite a suo avviso peggio arbitrate dei playoffs NBA, quelle in cui la lega, per motivi di audience, aveva un interesse a cambiare l’inerzia della Serie, e fece notare che Dick Bavetta era l’unica costante di queste partite. Un’altra volta, i maestri della polemica di ESPN gli fecero notare che lui fischiava molto più dei suoi partner, ma Bavetta rispose, con malcelato divertimento: “nessuno me lo aveva mai fatto notare prima“.

Oltre ad essere stato un professionista esemplare, Bavetta si distingue anche lontano dal campo. Qualcuno troverà stucchevole parlare della beneficenza fatta da gente ricca e famosa, ma troviamo positivo che un professionista (non milionario, peraltro) del mondo dello sport trovi tempo da dedicare a chi è meno fortunato anziché usare i suoi guadagni per costruirsi una piscina d’oro.

Dal 1986 Dick finanzia le Bavetta Scholarships, una serie di borse di studio per studentesse meritevoli appartenenti a minoranze e ragazzi senza mezzi economici. E’ membro del consiglio di amministrazione del Double H-Hole in the Woods Ranch, che si occupa di fornire a bambini con malattie molto gravi la possibilità di trascorrere del tempo nella natura, sciando, facendo camminate e quant’altro.

Bavetta si occupa di ragazzi malati di tumore o sieropositivi dal 1992, e partecipa come direttore alla Fondazione contro il diabete giovanile, nella sezione del nord dello Stato di New York.

Dick va avanti per la sua strada, e, incurante dell’età, continua a correre lungo le Route 1 e 9, vicino all’aeroporto di Newark; ai poliziotti che accostano facendogli presente che non si dovrebbe correre sull’isola spartitraffico di una superstrada, risponde: “Mi avete fermato perché sono in eccesso di velocità?

Ogni tanto quando corre qualche automobilista suona il clacson, riconoscendolo, ma lui si schermisce. “di certo non sembro proprio un Dio dell’Olimpo, con il cappellino e la crema solare“.

No, nessuno lo scambierà mai per Apollo, ma il vecchio Dick da tutta l’idea di essere uno che ha passato la vita a fare quello che preferisce, e che si diverte ancora, dopo più di trent’anni, come se fosse il primo giorno.

One thought on “Focus: Dick Bavetta

  1. Articolo meraviglioso che fa luce su un vero personaggio dell’NBA…che però come arbitro è a volte invisibile (rispetto ad altri magari fin troppo visibili)

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