“Sono passato dall’essere il giocatore più vecchio della lega ad essere un allenatore matricola”.
Così Jason Kidd, quarant’anni, rookie dell’anno nel 1995, dieci volte All Star, 19 stagioni di NBA, 4 volte primo quintetto difensivo, 5 volte primo quintetto NBA, un MVP sfiorato nel 2002, cinque volte miglior assistman della Lega con 12091 assist in carriera (secondo ogni epoca dietro al solo John Stockton), un titolo vinto a Dallas, così, dicevamo, si è presentato nella conferenza stampa di presentazione in qualità di nuovo allenatore dei Brooklyn Nets.
Back where he belongs, recitava lo schermo digitale del Barclays Center, mentre Billy King, il General Manager della franchigia di Brooklyn, gli stringeva la mano; sì perché per Kidd questo è un ritorno a casa, nella franchigia della quale fu playmaker, tra alti (due finali) e bassi, per sette stagioni.
Oggi il suo posto in campo è occupato da Deron Williams, che durante la conferenza di presentazione sedeva in prima fila, abbeverandosi delle parole del suo idolo di gioventù. I Nets contano che tra i due nasca un legame solido su cui costruire una squadra vincente; la stima espressa da Williams nei confronti di Giasone è certamente un buon inizio.
Kidd ha dalla sua tantissima esperienza come stella e leader, ma una parte non secondaria del suo carisma viene dall’essere stato capace, quando ormai declinava e non era più un giocatore da tripla doppia, di riciclarsi come tiratore da tre e difensore, vincendo il titolo che mancava per coronare la sua bacheca dei trofei. Questa poliedricità farà sicuramente presa sia sulle stelle che sui giocatori di contorno, da chi, come Garnett o Pierce, si dovrà riciclare in ruoli diversi da quelli abituali, a chi, come Keith Bogans, stella non è mai stato.
Assumere un allenatore esordiente è una scelta che King ha definito non poi così rischiosa, ricordando i successi di Mark Jackson e Larry Bird, due che non avevano esperienza ma hanno fatto subito molto bene.
Tuttavia, non è facile trovare chi abbia smesso la divisa ed indossato il completo più rapidamente di Coach Kidd.
Mike Dunleavy divenne allenatore subito dopo aver smesso di giocare, ma era una situazione particolare: si era ritirato e aveva fatto l’assistente, per poi tornare brevemente a disputare poche partite tra il 1989 e il 1990, subito prima di essere assunto come capo allenatore dai Lakers e portarli alle Finali (poi perse contro i Bulls). Non c’è quindi paragone con Jason Kidd, la cui transizione tra campo e panchina non ha conosciuto soluzione di continuità.
Bill Russell iniziò ad allenare quando ancora era giocatore, su nomina del venerabile Red Auerbach. Fu giocatore-allenatore per tre anni, vincendo due campionati (e divenendo il primo allenatore nero della NBA) per poi proseguire con minor fortuna a Seattle e infine a Sacramento. Erano però tempi completamente diversi e Russell allenò una squadra che conosceva profondamente e che, in fondo, già un po’ allenava, viste le sue mansioni in campo e fuori al servizio di Red Auerbach.
Come lui, ricordiamo Lenny Wilkens, Dave Cowens, Alex Hannum, Bob Pettit e Red Holzman, ma parliamo appunto di allenatori giocatori in epoche cestisticamente difficili da comparare con Kidd nel 2013.
E’ più semplice fare un parallelo con la parabola di Danny Ainge, che chiusa la carriera a Phoenix, dopo un anno tornò ai Suns (in cui militava proprio Jason Kidd) per allenarli. Durante la sua quarta stagione sulla panchina dei Soli dell’Arizona Ainge lasciò l’incarico a Scott Skiles (per la gioia dello spogliatoio, pare), un altro ex giocatore, ritiratosi da qualche anno.
Skiles, anch’egli ex NBA, iniziò ad allenare mentre terminava la carriera da giocatore al PAOK e si è rivelato negli anni un allenatore abile tecnicamente e capace di costruire una forte identità difensiva sia ai Bulls che ai Bucks, ma non è mai esploso ad alto livello, nonostante goda di molta considerazione; alcuni dicono che tenda a divenire inviso allo spogliatoio, nonostante egli stesso sia stato un giocatore e più di tutti possa apprezzare le istanze del suo roster.
Oggi, dei trenta allenatori che siedono su una panchina NBA, sono 10 quelli che non sono mai stati giocatori professionisti: Tom Thibodeau (che è nel giro NBA dal 1989, quando venne nominato assistente a Minneapolis) Brett Brown di Philadelphia, Steve Clifford, Dave Joerger, che viene dalla IBA e dalla CBA,è passato per la D-League ed è stato assistente a Memphis, prima di diventare capo allenatore.
Frank Vogel dei Pacers è stato video coordinator sotto Rick Pitino a Boston, poi è passato alla panchina come assistente, sempre a Boston e in seguito a Philadelphia, e infine ai Pacers, di cui è diventato Head Coach. Mike Brown è un altro ex video coordinator divenuto assistente di Gregg Popovic e poi Head Coach a Cleveland.
Stessa strada per Erik Spoelstra, che però non si è mai spostato da Miami, che oggi allena con successo. Brad Stevens, scelto a sorpresa dai Celtics, viene da Butler, in Division I. Michael Malone, di Sacramento, ha una solida carriera da assistente sia in NCAA che in NBA, ma anche per lui questa è la prima panchina da Head Coach.
Dwayne Casey, di Toronto, dopo una discreta carriera a Kentucky ne divenne assistente ma perse il posto per una brutta faccenda di mazzette, conclusasi quando dimostrò la propria estraneità. In seguitò fu assistente NBA a Seattle e a Dallas (dove vinse il titolo) e capo allenatore a Minneapolis prima di assumere la sua attuale posizione in Canada.
Il più celebre ed il più bravo degli allenatori che non sono stati professionisti è Gregg Popovic, il quale passò per Air Force, Pomona Pitzer (terza divisione), gli Spurs e i Warriors come assistente, e di nuovo gli Spurs, dove ha vinto quattro titoli NBA.
La maggioranza degli allenatori della NBA invece viene dal campo: in una player’s league è essenziale che a guidare la squadra sia qualcuno di cui i giocatori si possano fidare; chi meglio di un loro ex collega, passato per la medesima esperienza?
Mike D’Antoni, dopo tanti anni di onorata carriera in Europa, divenne subito l’allenatore della squadra in cui aveva militato per 13 stagioni, Milano, restandoci per altri quattro anni vincendo una Coppa Korac.
In seguito, a Treviso, in tre anni vinse una Coppa d’Europa, una Coppa Italia, una Supercoppa italiana e lo Scudetto nel 1997, replicando nel 2002, di ritorno dai Denver Nuggets. Forse non l’allenatore più simpatico e flessibile del mondo, ha goduto di un momento di grande popolarità a Phoenix, senza però mai trovare lo spunto per vincere e convincere ai Playoff; licenziato da Steve Kerr, è passato ai New York Knicks, con cui ha vissuto un biennio piuttosto mediocre.
Attualmente allena i Lakers, dopo aver trascorso la prima stagione in riva al Pacifico a tentare di mediare senza successo tra i suoi credo tecnici (tanto contropiede e pick and roll) e le caratteristiche del suo roster.
D’Antoni è un coach-giocatore atipico, perchè a differenza di molti suoi colleghi, è intransigente sul sistema di gioco da adottare e anziché adeguare il suo gioco al roster a disposizione, ha tentato di riprodurre lo stile dei Suns anche ai Knicks e ai Lakers, dove non aveva il personale per farlo. Aveva anche parlato di costruire una difesa più solida, giurando e spergiurando che con un lungo difensivo la difesa delle sue squadre sarebbe migliorata, ma ha avuto Dwight Howard e ha bruciato il rapporto senza riuscire a entrare in sintonia con il volatile centro, fuggito a gambe levate in direzione Houston, Texas.
Proprio a Houston allena Kevin McHale, che i più anzianotti (come vola il tempo!) ricorderanno in maglia Celtics. McHale, ritiratosi nel 1993 dopo una carriera da Hall of Fame e tre titoli NBA, passò un po’ di tempo a dedicarsi alle telecronache per poi entrare a far parte della dirigenza dei Minnesota Timberwolves.
Assunse subito Flip Saunders come allenatore, con cui gestì il club senza la consueta netta separazione tra dirigenza e staff tecnico. Passeranno ben dodici anni dal suo ritiro prima di vedere McHale in panchina, quando dovette licenziare il suo compagno di college Saunders e subentrargli a stagione in corso; McHale compilò un discreto 19-11 ma a fine stagione assunse Dwayne Casey come proprio sostituto; dopo aver licenziato anche Randy Wittman tornò sulla panchina dei Wolves, dimostrandosi un buon allenatore.
Questa sarà la sua terza stagione sulla panchina di Houston; la sua presenza (oltre ovviamente a quella di Hakeem Olajuwon) è stata l’esca usata per convincere Dwight Howard, interessatissimo ai trascorsi di Olajuwon e McHale nel pitturato NBA, a rompere gli indugi e firmare per la franchigia texana. Ancora una volta, un allenatore con un passato da giocatore ha maggiore facilità a comunicare con la squadra e se poi ha un nome ed una carriera di rilievo, può aprire un canale privilegiato con la stella della squadra.
Larry Bird, compagno di squadra di McHale, si ritirò nel 1992 e passò qualche anno a svolgere mansioni dirigenziali a Boston. In seguito venne chiamato da Donnie Walsh a guidare i Pacers del natio Indiana: un triennio ricco di soddisfazioni culminato con le Finali NBA, perse contro i Lakers, i nemici di sempre di Larry Legend.
Bird, affetto da problemi di salute, decise che avrebbe allenato tre anni soltanto e ha mantenuto la parola, nonostante Walsh abbia tentato di convincerlo a proseguire la sua avventura in panchina. Nel 2003 venne nominato Presidente degli Indiana Pacers, carica che ha ricoperto fino all’anno scorso. Il 26 giugno di quest’anno, risolti i suoi problemi fisici, Bird è tornato ad essere Presidente dei Pacers.
Anche in questo caso, parliamo di un ex giocatore carismatico, che si è trasformato in un allenatore capace di tradurre la sua esperienza in consigli per i suoi giocatori: sotto la sua guida, Jalen Rose si trasformò in un All Star, perdendosi via via, tra Chicago e Toronto, dopo il ritiro di Bird, che di lui aveva profeticamente detto: “Non dovrebbe esserci bisogno di andare a ricordargli di allenarsi bene”.
Bird è stato un raro caso di superstar capace di mettersi nei panni dei suoi giocatori, e anche se spesso ha espresso frustrazione per l’incapacità dei suoi di giocare con l’intensità che ci avrebbe messo lui, ha saputo gestire con assoluta maestria un gruppo particolare, che con lui arrivò ad esprimere un basket offensivo di livello assoluto.
Avery Johnson, che già quando giocava era soprannominato Lil General, è stato un playmaker non certo baciato dal talento, ma ugualmente capace di rimanere nella lega per 16 anni, la maggior parte dei quali da titolare, e di vincere il campionato 1999 con San Antonio.
Già allora era cosa nota a tutti che Johnson avrebbe tentato la strada della panchina, e infatti subito dopo il ritiro divenne assistente di Don Nelson a Dallas, finendo per rimpiazzarlo quando Mark Cuban decise che, sì, d’accordo divertire il pubblico con l’attacco, però anche vincere non sarebbe stato malissimo.
Tanti saluti al caro Nelson allora, e squadra in mano a coach Johnson: divenuto il più veloce allenatore di sempre a raggiungere 150 vittorie, Johnson trasformò una squadra talentuosa ma abbastanza scriteriata in una compagine solida e affidabile, una vera contender.
Alla prima stagione “piena”, condusse Dallas alle Finali, poi perse in modo rocambolesco contro Miami (da 2-0 a 2-4). Nel 2007, forti di un record di 67-15, i Mavs avevano il favore del pronostico e volevano vendicare la sconfitta dell’anno precedente; vennero invece eliminati in modo abbastanza ignominioso dall’ottava piazza ad ovest, i Warriors, allenati proprio da Don Nelson.
Nel 2010 Johnson venne assunto dai Nets e andò 12-70, venendo poi licenziato nel dicembre del 2012 (dopo aver vinto peraltro il premio di allenatore del mese a novembre). L’impressione che abbiamo dall’esterno è che Avery Johnson sia un allenatore capace, un tattico di buon livello, ma abbia bisogno di un po’ di esperienza per maturare nella gestione del gruppo: i suoi Mavs erano una squadra forte e ben costruita, ma isterica e incapace di gestire la pressione nei momenti caldi, ed è lì che si vede il grande condottiero.
Attendiamo di poterlo vedere nuovamente all’opera per valutare se Johnson è un grande allenatore o un Flip Saunders, tecnicamente bravo, ma non dotato di quel quid plus che può spingere una squadra a buttare il cuore oltre l’ostacolo.
Mark Jackson è un’altro playmaker destinato a diventare allenatore già quando giocava: point guard di classe e sostanza, Jackson era il braccio destro in campo di Larry Bird in quei Pacers che, in tre anni, arrivarono due volte alle Finali di Conference e una volta alle Finali. il reverendo Jackson era una figura carismatica già quando giocava spiegando basket pur senza disporre di grande velocità o di atletismo.
Playmaker di cuore, orgoglio e dotato di un ball handling da vero play newyorkese, dopo il ritirò si dedicò con successo alle telecronache. Chi ha avuto occasione di sentire le telecronache dei playoffs in anni recenti non può non ricordare il suo “hand down, man down, oppure i suoi siparietti con Jeff van Gundy.
Da due anni Action Jackson allena ad Oakland, assunto dalla nuova proprietà, decisa ad avere un allenatore forte e carismatico per guidare il gruppo di giovani capitanato da Stephen Curry. In questo biennio Jackson ha guidato con successo un nucleo intrigante e futuribile, che quest’anno è stato sconfitto al secondo turno da San Antonio per 4-2, dopo una bella stagione da 47-35. Jackson è un ottimo esempio di ex giocatore di successo, ma, a differenza di Kidd, anche lui ha avuto anni a disposizione per prepararsi e per maturare quella distanza dai giocatori che è forse indispensabile per ottenerne il rispetto.
Di ancora maggior carisma dispone Doc Rivers, che appese le scarpe al chiodo dopo 14 anni di militanza tra Atlanta, New York, i Clippers e gli Spurs. Come Avery Johnson, è stato un “generale in campo” ai tempi in cui giocava, playmaker d’ordine (anche se può vantare una presenza all’All Star Game) più che di talento puro, è sempre stato il braccio destro in campo dei suoi allenatori.
Tre anni dopo il ritiro, gli Orlando Magic, con un lampo di buon senso, lo assunsero anche se Glenn (Doc è un soprannome) non aveva nessuna esperienza. Al primo anno conquistò un po’ a sorpresa il premio di coach dell’anno, portando vicinissimo ai playoffs un gruppo che viceversa sembrava destinato a perdere in attesa della ricca free agency di Tim Duncan, Eddie Jones, Brian Grant, Tracy McGrady e Grant Hill (che poi in effetti arrivò, anche se, scartato il pacchetto, i Magic scoprirono che il giocattolo era rotto). Dopo quattro stagioni positive concluse con eliminazioni al primo turno venne licenziato nell’anno in cui McGrady ammise di non aver proprio dato esattamente il massimo e passò a Boston.
Ai Celtics iniziò male e aveva tutta la stampa contro, ma riuscì nell’impresa di rimanere in sella fino all’arrivo di Ray Allen e Kevin Garnett. Con un gruppo talentuoso ma da assemblare e gestire, conquistò le Finali e il titolo al primo anno, battendo Phil Jackson, onore di cui possono fregiarsi solo lui e Larry Brown. In seguito è riuscito a spremere tutto quello che si poteva spremere da un nucleo vecchio e piagato dagli infortuni, riconquistando le Finali nel 2010, perse solo in Gara 7.
Oggi è i Clippers, ed è uno degli allenatori più stimati della lega, sicuramente è quello più carismatico e per il quale conquistare menti e cuori dei giocatori sembra una cosa naturale ed inevitabile. I suoi discorsi prepartita trasudano carisma, e il suo modo di gestire la squadra, ruvido e sicuro, è davvero sinonimo di leadership e ha grande presa sui giocatori. Questa sua caratteristica, prima ancora del talento tattico, è la sua arma migliore. Ora lo attende il non facile compito di costruire un’identità difensiva per la franchigia eternamente perdente di Los Angeles.
Abbiamo menzionato Phil Jackson, e non si può non dedicare un po’ di spazio all’allenatore più vincente di tutti i tempi. Giocatore-hippie nei lisergici anni settanta, servì sotto Red Holzman nella New York che fa ancora lacrimare Spike Lee, quella di Willis Reed, DeBusschere, Cazzie Russell, Bill Bradley (che oggi è Senatore), Barnett, Frazier (e poi anche Earl “The Pearl” Monroe) e si innamorò del modo di allenare dell’altro Red (contrapposto all’odiato Auerbach).
A fine carriera Jackson allenò nella CBA e a Porto Rico, tentando di rientrare senza successo nella Lega, finché Jerry Krause decise di assumerlo come assistente vicino a Doug Collins. Ai Bulls conobbe Tex Winter e due anni più tardi rimpiazzò Collins. Il resto, come si suol dire, è storia: sei titoli con Michael Jordan e Scottie Pippen, il Montana, lo Zen, lo scambio di gentilezze con Jeff Van Gundy (che gli appiccicò il soprannome di Grande Capo Triangolo), altri tre anelli con Kobe e Shaq. Aveva fama di allenatore fortunato e bravo a gestire il talento, non certo di un tattico o di un allenatore in senso classico. Eppure nel 1994 aveva condotto Pippen e poco altro ad una gara 7 contro i New York Knicks.
La sua rivincita venne nel 2006, quando, un anno dopo averlo silurato i Lakers dovettero bussare alla sua porta per rimettere in sesto i cocci di una squadra allo sbando. Nei sei anni successivi Jackson ha costruito un nuovo rapporto con Kobe Bryant e con lui ha raggiunto altre tre Finali NBA, vincendone due e arrivando alla siderale quota di 11 anelli, che racconta, uno per uno, nel suo recente libro.
In NBA Jackson non è stato un giocatore di primo piano ma uno specialista difensivo, qualcosa a metà tra Tyson Chandler e Chris Andersen. Ha trascorso gran parte della carriera in una squadra particolare, dotata di molto talento e forse avanti sui tempi: certo, i media non erano invadenti come oggi, ma lo spogliatoio dei Knickerbockers era popolato da personalità ingombranti che erano capaci di “fare click” sul campo e di tradurre il talento in passione, intensità, gioco di squadra e successi.
La guida e l’ispirazione di Red Holzman e prima ancora, al college, di Bill Fitch, hanno prodotto un allenatore capace di coniugare la lavagna alla psicologia, di trasformare i solisti come Bryant e Jordan in giocatori di squadra, e di consentire ai Paxon, i Fisher, i Fox e gli Harper di essere parti autentiche di squadre campioni e non semplici portatori d’acqua.
Pat Riley fu avversario di Jackson sia sul campo che in panchina. Dobbiamo immaginarci un Riley diverso dalla versione anni ottanta che conosciamo tutti: in maglia Lakers era un mastino tutto durezza e basette. D’altronde, poteva fare diversamente uno che era stato scelto anche dai Dallas Cowboys della NFL?
La sua carriera NBA fu da comprimario, con il picco del titolo vinto da riserva a Los Angeles.
Ritiratosi, divenne telecronista e due anni più tardi passò al ruolo di assistente con coach Westhead. All’inizio della stagione 1981-82, Magic chiese al GM Jerry West di essere ceduto per incompatibilità con Westhead, che, per tutta risposta, venne licenziato.
West lo sostituì con il suo ex compagno di squadra e Riley conquistò quattro titoli NBA guidando lo squadrone dello Showtime, per poi passare ai Knicks negli anni novanta, dove battagliò perdendo quasi sempre con i Bulls di Jackson, traducendo in campo il suo stile di gioco, fatto di durezza, intimidazione e difesa.
Lasciò i Knicks in modo brusco per accasarsi a Miami, dove tante buone regular season non si sono mai tradotte nel titolo NBA tanto atteso. Era divenuto presidente della squadra quando nel 2004, dopo aver costruito un nucleo futuribile attorno a Dwayne Wade, Caron Butler e Lamar Odom, stava flirtando con l’idea di tornare ad allenare i Lakers: Jerry Buss gli confidò l’intenzione di sbarazzarsi di Shaquille O’Neal: senza farselo ripetere, Riley rimase a Miami e smantellò la squadra per portare Shaq a South Beach e, dopo aver licenziato Stan Van Gundy, prese il suo posto e vinse il suo quinto titolo da allenatore.
Parlando di grandi vecchi, c’è un nome che non si può tralasciare, quello di Jerry Sloan: maglia ritirata come giocatore a Chicago, dove lo ricordano come una guardia con cui era meglio non scherzare troppo, è diventato l’allenatore storico degli Utah Jazz, che ha guidato a due Finali proprio contro i suoi Bulls.
Sloan, da allenatore, è rimasto caratterialmente lo stesso di quando giocava, ma lo ha fatto allenando come non ci sarebbe aspettati, mettendo in campo cioè un playbook offensivo elegante, fatto di pick and roll quando ancora non era usato ed abusato. In campo c’erano Stockton e Malone, ma dietro di loro si celava Coach Sloan, uno che dopo il ritiro del magico duo, non fece una piega e continuò a portare la sua squadra ai playoffs anche se in tutti i ranking i Jazz erano regolarmente dati per morti. Quello che ha sempre stupito dello Sloan allenatore è la qualità dell’esecuzione dei Jazz.
Il talento a disposizione non era molto nemmeno negli anni in cui Utah dominava la Western Conference, ma la perfezione del meccanismo costruito da Jerry Sloan ha fatto sì che i Jazz andassero ben oltre i loro limiti strutturali, trasformando gente come Bryon Russell o Howard Eisley in giocatori decisivi.
A bilanciare questa grande meticolosità e propensione per il lavoro (che, diciamo così, trasmetteva ai suoi sottoposti) c’è il solo vero limite di coach Sloan: quell’inflessibilità (magari in linea di principio giustificabile) che lo spinse a dire che lui non sapeva come si facesse a motivare un giocatore perché i giocatori si devono motivare da sé, probabilmente lo ha condannato a non essere amatissimo dai vari Deron Williams o Andrei Kirilenko, che ebbe anche il coraggio di dirgli che lui non si divertiva giocando nei Jazz.
In questo senso, la sua esperienza da giocatore non è stata così utile, perché se da un lato Sloan ha conoscenza del gioco e leadership dalla sua parte, dall’altra è sempre stato portato a pretendere in modo categorico dai suoi giocatori il suo stesso atteggiamento, che sul campo metteva e lasciava tutto quello che aveva, sempre e comunque.
Scorrendo la lista degli allenatori che hanno vinto l’anello, scopriamo che molti tra gli allenatori pluricampioni hanno un passato da giocatori: Phil Jackson, Pat Riley, Alex Hannum, Tom Heinsohn, Red Holzman, K.C. Jones, Bill Russell, Rudy Tomjanovich, a fronte dei soli Chuck Daly, Gregg Popovic oltre che di Red Auerbach e John Kundla, per i quali dobbiamo veramente risalire ai primi vagiti della National Basketball Association.
Complessivamente gli ex giocatori sono degli allenatori perlomeno decenti, capaci se non altro di non fare grossi danni, come Vinnie Del Negro quest’anno ai Clippers: un allenatore che certo non passerà alla storia per sagacia tattica e nemmeno per carisma, ma abbastanza esperto da cavalcare l’onda di Chris Paul senza intralciarlo. Per vincere servirà altro (infatti è arrivato Doc Rivers) ma Del Negro, ex guardia di livello medio basso, ha avuto il pregio di non far danni.
Sono allenatori flessibili, che hanno giocato sotto allenatori diversi, in sistemi diversi e hanno maturato una certa esperienza ed adattabilità che, da allenatori, traducono nella capacità di allenare in base al roster e di non pretendere che sia il roster ad adeguarsi alle loro esigenze tattiche. Naturalmente ci sono delle eccezioni, ad esempio il già menzionato Mike D’antoni ha messo in panchina Gasol pur di non abiurare al suo sistema.
C’è chi come Rudy Tomjanovich, dopo una discreta carriera a 17 e 8 rimbalzi di media per i Rockets, si è trasformato in un allenatore campione NBA pur senza essere un genio tattico, in virtù del buon senso che deriva dall’aver giocato per tanti anni nella lega e dalla conoscenza del gioco: Rudy T trovò la chiave di volta per il titolo in un basket di puri isolamenti e continuò a riproporre la sua formula vincente, anche con Steve Francis e Cuttino Mobley, ottenendo, tutto sommato, risultati rispettabili, pur disponendo di personale molto diverso da quello della squadra di Olajuwon, Horry e Drexler.
Lenny Wilkens, dopo una lunga militanza NBA da giocatore si trasformò in un allenatore campione NBA con i Supersonics degli anni settanta, per poi proseguire tra Atlanta, Cleveland, Portland, Toronto e New York, con l’esperienza del vecchio marpione senza riuscir più a piazzare la zampata vincente, assestandosi su un onorevolissimo (e infatti è stato scelto tra i 10 migliori allenatori NBA di ogni epoca) 53% di vittorie in Regular Season e il 44% ai playoffs. Durare quanto è durato Wilkens, dal 1969 al 2005, è già di per sé un risultato titanico.
Se parliamo di longevità però non si può non parlare di Larry Brown: l’ex coach di Philadelphia e Detroit giocò, tra il ’67 e il ’72, nella mitica ABA, di cui fu una effimera stella.
Aveva iniziato a fare l’assistente nella sua alma mater North Carolina prima ancora di finire il college e diventare professionista e subito dopo il ritiro divenne allenatore, carica che ricoprì ininterrottamente, tra ABA, NCAA e NBA, dal 1972 al 2010, quando lasciò la panchina dei Charlotte Bobcats. Girovago di professione, inquieto come giocatore e poi come allenatore, non è mai rimasto troppo a lungo nello stesso posto, bruciando i ponti e i rapporti, eterno scontento alla ricerca della squadra perfetta. Quando la trovò, incarnata nei Pistons di Billups, dei due Wallace, di Prince e Hamilton, buttò tutto a monte flirtando con i Cavaliers, andando poi ad allenare i Knicks e i Bobcats in un quinquennio abbastanza disastroso.
Insegnante puro di pallacanestro, sembrava quasi che, costruita la squadra, si sentisse fuori posto ad allenarla. La sua capacità di prendere squadre perdenti, possibilmente con una sola star conclamata, e trasformarle in squadre credibili è leggendaria, come il suo vizio di abbandonare la nave appena all’orizzonte si profilava una nuova sfida. Rimane un grandissimo allenatore dal punto di vista tecnico, che ha chiuso la carriera con un solo titolo e due Finali più per limiti caratteriali che non per il suo valore assoluto come allenatore. Lui, come Doc Rivers, è l’unico coach ad aver battuto Phil Jackson in Finale.
Ci sono stati grandi allenatori che venivano dal parquet, ma ci sono stati anche grandi allenatori che non hanno mai giocato un minuto di pallacanestro professionistica. In generale, venire dal campo anziché dalla sala video non è garanzia, anche se, abbiamo visto, gli allenatori ex giocatori raramente fanno disastri, anzi, nella situazione giusta sono pronti a gestire lo spogliatoio senza intralciare la chimica di squadra.
Nate McMillan, Byron Scott, Scott Brooks, sono tutti allenatori molto competenti, capaci di gestire e di far rendere un gruppo. Non sono necessariamente dei geni della pallacanestro, ma nei rispettivi momenti di gloria (McMillan con i Sonics, Scott con i Nets di Jason Kidd, Brooks con i Thunder delle Finali 2012) sono sembrati dei grandi allenatori, cavalcando dei gruppi maturi piuttosto che elevando il livello di una squadra oltre l’ostacolo.
L’allenatore di maggior successo tra loro è sicuramente Rick Carlisle, professionista serio (anche troppo, dicono), gregario di lotta e scudiero di Larry Bird ai tempi dei Boston Celtics, andò con lui ad Indianapolis come assistente allenatore nel 1997.
Prese l’incarico di Head Coach a Detroit per far crescere i Pistons che Larry Brown avrebbe portato al titolo nel 2004, poi tornò ai Pacers, dove svolse un ottimo lavoro sul gruppo composto da Tinsley, O’Neal, Stephen Jackson e Artest, almeno fino alla rissa di Auburn Hills che costò di fatto la stagione ad Indiana e li costrinse a smantellare un gruppo che sembrava lanciato verso ben altri traguardi. Carlisle trovò la quadratura del cerchio con i Mavs che vinsero il titolo nel 2011, giocando un basket classico, intelligente e bilanciato, sfruttando la maturità di Nowitzki e compagni.
Insomma, difficilmente un ex giocatore si rivela un cattivo allenatore, ma Jason Kidd, rispetto a tutti gli altri (almeno in tempi recenti e quindi paragonabili) è l’unico ad aver compiuto il salto senza uno iato che consentisse di prendere, anche mentalmente, le distanze dal ruolo di giocatore. E’ vero che già ai tempi dei Mavs prendeva appunti su come Carlisle allenava la squadra, tuttavia resta da vedere se Kidd saprà gestire la transizione in modo indolore dal punto di vista psicologico, avendo oltretutto per le mani un gruppo di giocatori che non si conoscono tra loro e che lui non conosce.
Di sicuro non gli manca la leadership o l’autorevolezza per essere ascoltato. Vedremo se all’esame dei fatti Kidd e i suoi giocatori, che lo ha sempre visto come un collega sapranno dimenticare la confidenza dettata dal cameratismo e scivolare con naturalezza nei nuovi ruoli.
La stagione dei Nets (che, giova ricordarlo, hanno assunto un allenatore esordiente ma vorrebbero puntare al titolo NBA) passerà anche per queste alchimie così come quella dei Nuggets passerà anche per le mani di Brian Shaw, l’apprezzatissimo assistente di Jackson e Vogel che dopo due anni di apprendistato avrà la possibilità di mostrare di che pasta è fatto.
Se Giasone saprà forgiare un legame positivo con Deron Williams, tutti gli altri pezzi del puzzle potrebbero sistemarsi a cascata conducendo dritti dritti all’anello; è uno scenario che non ci sentiamo certo di definire probabile, specialmente in una lega in cui circolano squadre come gli Heat assetati di threepeat, i Thunder in cerca di rivincita, i Rockets del nuovo duo Howard-Harden, i rocciosi Pacers di Hibbert e Paul George e i Bulls del rientrante Rose.
Tuttavia Kidd, con coraggio, ha accettato la sfida, pur sapendola impervia, e questa è già una prima, piccola vittoria.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Articolo lunghissimo, ma ben fatto :)