la-sp-buss-minor-sports-20130303-001Quando Jerry Buss , negli anni settanta, decise di comprare degli appartamenti come investimento, era un brillante giovane laureato di chimica fisica con tanto di Ph.D. presso Southern California con qualche esperienza, tra l’altro, nell’industria aerospaziale.

In pochi anni, complice l’esplosione del settore immobiliare nella California del sud, il dottor Buss divenne un milionario; oltre ad aver prodotto un film, possedeva una squadra di tennis, ma la sua grande passione era il basket, così quando si presentò l’occasione rilevò i Lakers, il Forum e i Los Angeles Kings (NHL) dal precedente proprietario Jack Kent Cooke.

I Lakers erano già la squadra delle star in campo e fuori, ma il bilancio era di sette apparizioni in Finale e una sola vittoria (nel 1972 contro i Knicks di Holzman, Frazier, Reed e, sì, anche di Phil Jackson). I Lakers che Buss ereditò da Cooke erano la squadra di Kareem Abdul Jabbar, Jamaal Wilkes, Norm Nixon, Adrian Dantley e Michael Cooper. Quei Lakers uscirono al secondo turno contro i Supersonics compilando un bilancio in Regular Season di 47-35.

Durante l’estate Dantley venne scambiato con Spencer Haywood, Don Ford con Butch Lee e una scelta del 1982 (che diventerà James Worthy) ma soprattutto, i Lakers disponevano della chiamata numero uno al draft, gentile omaggio dei New Orleans Jazz, che nel 1976 firmarono Gail Goodrich e compensarono i Lakers con la loro scelta del 1979. I Lakers portarono in gialloviola tale Earvin Johnson, detto Magic, e il resto è semplicemente storia. Los Angeles vinse il titolo NBA al primo tentativo, battendo Philadelphia in Finale.

Durante la gestione Buss a quel primo titolo ne seguirono altri nove, grazie ai quali Doctor Jerry, che era stato accolto con risatine di scherno e diffidenza nella comunità NBA, è divenuto il metro di paragone per ogni proprietario di squadre professionistiche americane.

Oltre a passare da una fidanzata all’altra e a giocare a poker a Las Vegas, Jerry Buss ha trasformato il volto dei Los Angeles Lakers, circondandosi delle persone giuste, strapagandole e facendole sentire parte della famiglia, da Jerry West a Gary Vitti, lo storico trainer, passando per Bill Bertka, assunto nel 1968 come scout e ancora presente dietro alla panchina di Phil Jackson negli anni di Shaq e Kobe.

In campo ha sempre voluto una squadra spettacolare, consapevole di operare nella capitale mondiale dell’intrattenimento. Le partite dei Lakers sono un happening dove i vari Denzel Washington, Cameron Diaz, Justin Bieber, Rihanna, Sylvester Stallone si mischiano a produttori, businessmen di varia estrazione e gente comune, oltre all’immancabile Jack Nicholson.

I Lakers hanno sempre avuto un occhio di riguardo per le stelle: da Magic e Kareem il testimone è passato a Shaquille O’Neal e Kobe Bryant nel 1996. Buss è stato un raro caso di proprietario/tifoso capace di affidarsi a persone competenti anziché tentare di strafare: per vent’anni ha lasciato i Lakers nelle mani sapienti di Jerry West, consentendogli di allevare Mitch Kupchack come delfino e di fare e disfare a piacimento sul mercato.

Da ormai un anno e mezzo Jerry Buss non compariva allo Staples Center e il declino delle sue condizioni di salute era cosa nota; da anni preparava la delicata successione interna dei suoi sei figli, tutti a vario titolo inseriti nella franchigia di famiglia. Attualmente Johnny Buss si occupa dello sviluppo strategico, Jim Buss è è vicepresidente in carica delle Basketball Operations, Jeannie Buss si occupa delle Business Operations ed è la rappresentante dei Lakers nel consiglio dei proprietari.

Ci sono poi Janie, la meno coinvolta, Joey e Jesse, tutti e due troppo giovani per avere un ruolo decisionale.

Negli anni Jeannie Buss è emersa, oltre che per le cronache rosa (il suo compagno è l’ex allenatore Phil Jackson) per la competenza, per i modi e per la capacità entrare nel cuore dei fans.

Suo padre le ha affidato il ruolo di rappresentanza della squadra oltre alla gestione economica della franchigia (che va a gonfissime vele), ma dal 2005 Jim Buss ,concluso il suo apprendistato da General Manager, ha assunto un ruolo operativo nella squadra.

Lo ricordavamo per una gaffe del 1998, da neoassunto: disse che valutare il talento dei prospetti non era nulla di difficile, dieci appassionati presi a caso in un bar sarebbero in grado di esprimere le stesse valutazioni degli scout NBA. Oggi è lui che si occupa di trade e di scegliere allenatori e giocatori.

Andiamo a esaminare più da vicino le scelte operative di Jim Buss.

La sua prima presa di posizione riguarda la successione a Phil Jackson dopo la debacle dei Big Four (O’Neal, Bryant, Malone e Payton) nel 2004. Jim scelse Rudy Tomjanovic: finì con Rudy T in fuga a stagione in corso con un bilancio di 24-19 e i Lakers chiusero la stagione con 10-29 sotto Frank Hamblen, complice anche un infortunio a Kobe Bryant, mancando i Playoffs per la prima volta dal 1994. L’anno successivo sulla panchina tornò Jackson e in un quinquennio i Lakers arrivarono altre tre volte in Finale NBA.

L’anno successivo Jim tornò alla ribalta scegliendo Andrew Bynum, (allora semisconosciuto High Schooler del New Jersey) per poi defilarsi e assumere il controllo al termine della stagione 2010-11, quando i Lakers, alle prese con un Bryant ridotto ai minimi termini e pieni di problemi di spogliatoio, furono eliminati senza troppi complimenti dai Mavericks, che resero amaro il ritiro di coach Phil Jackson.

In vista dell’incombente lockout i Lakers per risparmiare non rinnovarono i contratti di venti dipendenti: scout, addetti ai video, magazzinieri, Kareem Abdul Jabbar e il vice General Manager Ronnie Lester vennero allontanati senza tanti complimenti o spiegazioni. Furono Kobe e Luke Walton a convincere i compagni a versare una quota del bonus playoffs agli ex dipendenti.

I periodici locali descrissero l’operazione come una pulizia interna voluta da Jim Buss contro i dipendenti sgraditi troppo vicini alla precedente gestione (per approfondire http://www.latimes.com/sports/basketball/nba/lakers/la-sp-plaschke-20130301,0,1335030,full.column#axzz2bHqs8pDD).

Pareva scontata la nomina di Brian Shaw (prima giocatore e poi apprezzatissimo assistente di Phil Jackson) come allenatore, tuttavia Jim voleva fare piazza pulita di un sistema da lui ritenuto obsoleto e assunse Mike Brown, il coach concettualmente più lontano da Jackson e dall’Attacco Triangolo che potesse trovare.

Jim non perse tempo e provò a mettere la sua impronta sul roster, scambiando Odom e Gasol in cambio di Chris Paul: una mossa rischiosa e intrigante, che se fosse andata in porto avrebbe lasciato i Lakers con Bynum (e le sue ginocchia di cristallo) come unico big man del roster.

Fallita la trade a causa del criticatissimo intervento del Commissioner David Stern, Jim decise di scaricare ugualmente il recalcitrante Lamar Odom in cambio di spazio salariale, privando la squadra del suo vero playmaker in modo un po’ inatteso, secondo quanto scrive Ettore Messina nel suo “Basket, Uomini ed Altri Pianeti”.

La lacuna fu colmata con Ramon Sessions (e Derek Fisher venne spedito a Houston in cambio di Jordan Hill, trade che Jim Buss giustificò attribuendola alla volontà di Fisher di non fare la riserva, il quale rispose piccato: “non me l’hanno chiesto e comunque l’avrei fatto”).

In breve Odom e Fisher, due dei giocatori più importanti nello spogliatoio dei Lakers erano stati scambiati. Come andò la stagione 2011-12, è noto: grandi miglioramenti difensivi uniti a una sconcertante sterilità offensiva (soprattutto per una squadra con Gasol e Bryant), sfociati in un’eliminazione al secondo turno dei Playoffs.

Durante l’estate 2012 avvennero altre mosse: arrivò Steve Nash da Phoenix con un triennale da quasi nove milioni (a 38 anni); da Orlando arrivò Dwight Howard, oltre agli utili Earl Clark e Chris Duhon. I Lakers iniziarono la stagione 2012-13 da favoriti del pronostico; si favoleggiava di Princeton Offense (con tanto di assunzione di Eddie Jordan come assistente dedicato) salvo poi partire 1-4 e licenziare Mike Brown ai primi di novembre.

Dopo un breve walzer dei candidati, scartato Phil Jackson, la scelta cadde su Mike D’Antoni. Jim Buss definì D’Antoni più adatto ad allenare il roster dei Lakers, ritenendo il suo gioco adatto a un roster vecchio e dotato di due lunghi dominanti.

La stagione è terminata con la rottura del tendine d’achille di Kobe Bryant al termine di una stagione favolosa ma che ha probabilmente vessato con troppi minuti il suo fisico di trentaquattrenne. I playoffs, finiti al primo turno con una sonora sventola da parte degli Spurs, hanno confermato la stagione sfortunata (infortuni a pioggia) e lo scarsissimo entusiasmo di Dwight Howard per la compagine californiana, prontamente abbandonata per gli Houston Rockets.

Il centro nativo di Atlanta aveva aperto uno spiraglio alla sua permanenza nella città degli angeli subordinandola al licenziamento di D’Antoni per Phil Jackson (sempre lui!), ma la proprietà rispose confermando pubblicamente Mike D’Antoni (non volendosi evidentemente far dettare condizioni da un giocatore, ma condannandosi così a vederlo partire per altri lidi).

La famiglia Buss possiede complessivamente il 66% della franchigia, e da tempo la successione era stata programmata, tuttavia in questi ultimi tre anni, senza più Jerry Buss in controllo della situazione, sono sorti numerosi attriti tra Jeannie e Jim, emersi in modo plateale dopo la dipartita del patriarca, avvenuta il 18 febbraio.

McMenamin di ESPN sostiene che i Lakers potrebbero cercare all’esterno della famiglia una figura di raccordo, capace di prendere in mano l’aspetto cestistico della franchigia e di aiutare Kupchack e Jim Buss, ma siamo nel campo delle speculazioni.

Già durante la passata stagione Jeannie aveva smesso di presentarsi allo Staples Center in silenziosa protesta contro i metodi di gestione del fratello; ma dopo il licenziamento di Mike Brown e la figuraccia rimediata con Phil Jackson, scaricato con una telefonata notturna, non è più stato possibile nascondere che ad El Segundo non tutto è rose e fiori.

Si è vociferato di gruppi esterni interessati a prendere il controllo (Bresnahan del Los Angeles Times parlò di un sondaggio da parte di Patrick Soon-Shion nei confronti dell’Anschutz Entertainment Group, proprietario di un terzo della franchigia) ma per ora i Buss affermano di non avere la minima intenzione di lasciare i Lakers.

Allo stato dei fatti, un riassetto interno pare inevitabile. I tifosi dei Lakers hanno espresso molto chiaramente la loro preferenza per Jeannie, e, in effetti, con lei, Kupchack e Jackson i Lakers hanno vinto e convinto, in campo e fuori, costruendo un modello che avrebbe potuto proseguire con Shaw in panchina e qualche scambio per compensare l’età avanzante di Pau e Kobe, sulla falsariga dei Bulls del secondo Threepeat.

Le cose sono andate diversamente e ormai la frittata è fatta: dopo aver perso Howard e Clark i Lakers sono privi di margine di manovra; hanno potuto firmare solo delle scommesse come Wesley Johnson, Nick Young, Jordan Farmar e Chris Kaman oltre a confermare Mike D’Antoni.

Se guardiamo ai risultati, la gestione di Jim Buss è stata negativa: ha eredito una contender e nel giro di tre anni i media parlano di tanking (perdere il più possibile) per arrivare a scegliere alto al draft. Ha tagliato i ponti col gruppo vincente di Phil Jackson e dell’Attacco Triangolo (vincente in 11 degli ultimi 23 campionati) e l’ha fatto anche per motivi personali, inseguendo il gioco degli altri (i Suns di D’Antoni? Gli Spurs più recenti?) senza avere il personale adatto per farlo.

È opinione diffusissima che, anche vincendo le scommesse fatte sul mercato e con un Black Mamba in perfette condizioni, questi Lakers non potranno ambire a molto oltre la qualificazione ai playoffs e allo stesso tempo, non andranno mai così male da poter ambire a Wiggins o agli altri fenomeni.

Il piano è di buttarsi sulla prossima, ricchissima free agency, quando, con un monte salariale di 12 milioni appena, potranno offrire tutti i soldi del mondo e il parterre di Hollywood a LeBron James e rifondare sulla coppia Kobe-leBron, imitando gli Heat dei Big Three: fantasia o realtà?

Lo scopriremo tra dodici mesi, nel frattempo sarà interessante vedere all’opera questa nuova versione dei Lakers, con un occhio rivolto al box dirigenziale dello Staples Center, nel tentativo di capire quale geometria assumerà in futuro la cabina di comando del club più ricco e prestigioso del mondo.

2 thoughts on “I Lakers, la dinastia Buss e il futuro della franchigia

  1. Lebron e Kobe insieme è un bel quadretto.. ma bisogna vedere in che condizioni tornerà kobe, se il suo ego convivrà con quello di james e se verrà confermato d’Antoni.. visto come ha gestito i “big five” di questa stagione, non la vedo molto rosea…

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