Che sia ritornata la febbre dell’oro dalle parti della Bay Area?
Dare una risposta ad una domanda del genere è quantomeno prematuro. Per il momento possiamo limitarci a constatare come ad est del Bay Bridge stiano facendo davvero sul serio, parlando strettamente di basket.
Erano anni infatti che i Golden State Warriors non si ritrovavano al centro dei pensieri di alcuni fra i più quotati free agent dell’NBA. Dwight Howard, che in un primo momento si era dichiarato piacevolmente colpito dal progetto, ha poi deciso di virare verso sud-est, direzione Texas.
Andre Iguodala invece, altro pezzo pregiato del mercato in corso, ha scelto di porre le basi della parte finale della propria carriera precisamente a Oakland, la città che ha fatto da sfondo ai primi palleggi di gente del calibro di Gary Payton e Jason Kidd.
D’altronde l’ex guardia-ala dei Nuggets aveva avuto modo di vederli da vicino i ragazzi terribili di Coach Jackson non più di 2-3 mesi or sono, quando le velleità di grandezza di Denver, fin lì lanciatissima, avevano finito per schiantarsi contro la pioggia di canestri messa in scena da Curry e compagni.
Anche se sono stati poi eliminati al turno successivo dai più rodati Spurs, i Warriors versione 2013 hanno superato ogni più rosea aspettativa. Da queste parti non sono abituati ad ammirare lunghe cavalcate nei playoff. Dal 1977 infatti soltanto in 7 occasioni si è continuato a giocare oltre la metà di Aprile e, nel migliore dei casi non si è andati oltre l’ostacolo delle Semifinali di Conference.
Sono lontani i tempi in cui Rick Barry conquistava l’anello a suon di tiri liberi effettuati a due mani, facendo partire la palla dal basso. L’ultima post-season Golden State l’aveva giocata nel 2007. Erano i tempi del “We Believe”, della Oracle tutta rivestita di giallo e del Barone, capintesta di un gruppo di scalmanati come Stephen Jackson, Al Harrington, Jason Richardson, Monta Ellis e via di seguito.
In quell’occasione fecero registrare uno dei più grossi upset della storia recente del gioco, eliminando la numero uno del tabellone, quella favoritissima Dallas che aveva fatto man bassa di doppievù nella Regular Season. Come dire.. vanno di rado ai playoffs ma quando ci vanno tendono a farsi notare.
Prima di allora invece l’ultima partecipazione al Primo Round della Western Conference risaliva addirittura all’anno di grazia 1994, quando un infortunato Tim Hardaway seguiva da bordo campo le accelerate di Sprewell, le evoluzioni sotto canestro di Webber e le triple di Mullin. Il tutto sotto la sapiente supervisione di Coach Nelson.
A Golden State infatti, nonostante la moltitudine di anni di magra, non si può dire che non siano passate personalità di spicco di questo sport, che hanno recitato un ruolo di primissimo piano nella lega.
Oggi il posto dei Guerrieri del passato nel cuore dei tifosi, sempre calorosissimi, della Oracle Arena è stato finalmente occupato da un nuovo nucleo di giovani giocatori emergenti che minacciano di fare della squadra della Baia una seria contendente per il titolo negli anni a venire. Il record di 47-35 e il secondo posto nella Pacific Division, conquistati lo scorso anno, sono lì a testimoniare gli eccellenti passi in avanti compiuti nel processo di crescita da parte di una squadra che ha tutta l’ambizione, un giorno, di sedersi al tavolo delle migliori.
Ma è soprattutto nei playoff che si è potuto annusare il reale potenziale dei Californiani. I due attori principali, anche se non unici protagonisti, delle serie contro Denver e San Antonio sono risultati indubbiamente Stephen Curry e Klay Thompson, gli “Splash Brothers”, come li hanno ribattezzati. Hanno perforato la retina a ripetizione e spesso da distanza siderale, mostrando di aver raggiunto la loro maturità tecnica anche prima del previsto – insieme fanno 6 anni di esperienza nei pro.
Il play da Davidson in particolare è sembrato definitivamente assurto allo status di superstar della lega. Uno dei migliori 5 della pista per capacità di incidere sull’esito di una partita. Per lunghi tratti ha fatto registrare le migliori prestazioni dell’intera post-season. Non fosse per i fastidi alle caviglie che lo hanno frenato, costringendolo ad aprire il gas a intermittenza, staremmo celebrando ancora di più i suoi fasti.
E’ pur vero che in questa stagione ha avuto maggiore continuità. Dopo le impalpabili 26 partite di quella passata, è riuscito a scendere in campo in ben 78 gare, con una media di 38.2 minuti giocati. Minuti che sono diventati 41.4 quando la posta in gioco si è alzata ulteriormente.
Ha fatto registrare i career high in punti e assist. Ha battuto il record di Allen di triple totali segnate in una stagione. Ma, quel che più conta, ha mostrato momenti di assoluto strapotere cestistico, dando l’impressione che l’esito delle sue conclusioni fosse in realtà del tutto indipendente dagli adeguamenti e dalla bravura della difesa.
Vedendogli passare la palla a una mano senza interrompere il palleggio è sembrata netta la sensazione di trovarsi di fronte alla reincarnazione del grande “Pistol Pete” Maravich. Pareva di essere tornati ai tempi del college, quando l’eccentrico allenatore di Loyola Jimmy Patsos si vide costretto a raddoppiare dal primo all’ultimo minuto l’incontenibile Steph, permettendo ai suoi compagni di vincere agevolmente di 30 punti una partita giocata stabilmente in 4 contro 3.
A testimonianza della grandezza di Curry, queste furono le parole del coach responsabile di tale pensata: “Qualcun altro può dire di averlo tenuto senza segnare in una partita? Ho fatto la storia. Fra un po’ di tempo di questa sera ci ricorderemo che abbiamo perso di 30 o che lui ha fatto 0 punti?” Quando ci si ritrova di fronte all’ira di Steph si può arrivare a pensare questo ed altro..
Il suo gemello, Klay Thompson, non è certo da meno quanto a pericolosità sul perimetro. Ha in dote una tecnica di tiro sopraffina; la pulizia del suo gioco fa letteralmente impressione. Si muove sui blocchi che sembra un novello Reggie Miller. Riceve palla e lascia partire il tiro con una velocità e da un’altezza tali che appare difficile anche solo provare a contestarglielo.Ha fisico per battagliare con i pari ruolo senza indietreggiare di un millimetro ed è ottimo difensore, che di questi tempi è arte sempre più rara.
Se i pick & roll con Curry come palleggiatore e le uscite dagli screen di Thompson possono essere considerati le opzioni numero 1 e 2 dell’attacco, Golden State non è certo una squadra sbilanciata sugli esterni. In mezzo all’area può vantare una coppia di lunghi di tutto rispetto. Andrew Bogut non si è più rivisto ai livelli di Milwaukee, complice la sua conclamata propensione agli infortuni.
Solo nelle due serie di Playoff ha fatto vedere qualcosina del suo repertorio. Difesa solida, determinazione a rimbalzo e prontezza di mani nel convertire i palloni toccati in canestri nel pitturato. Rappresenta il completamento ideale del quintetto con 4 piccoli che ha impensierito e non poco Nuggets e Spurs. Ma su questo torneremo.
Il suo compagno di banco, David Lee, è piuttosto conosciuto. Reduce quest’anno dal secondo viaggio all’All-Star Game – primo Warriors dai tempi di Spree.. ok, dovevano chiamare anche Curry ma non l’hanno fatto – non ha bisogno di troppe presentazioni. Vittima di un infortunio in gara 1 contro Denver, la sua presenza sul parquet è stata, come minimo, condizionata nelle restanti apparizioni.
Quando Bogut mostrava il meglio di sè, lui non era in campo a pestargli eventualmente i piedi. Anche se si tratta di un giocatore capace di produrre una stagione (quasi due) da 20+10, non è un mistero che il management giallo-blu abbia tentato di spedire i sui numeri a un indirizzo nuovo. Serpeggia infatti da un po’ di tempo negli uffici delle squadre NBA la convinzione di trovarsi di fronte a un giocatore buono ma non buonissimo.
A dispetto delle statistiche (9.8 rimbalzi a partita in carriera), fanno capolino sempre con maggiore insistenza le perplessità circa la sua reale efficacia nel catturare i palloni sputati dal ferro: non è sempre il primo ad arrivare su quei rimbalzi che finiscano in zone del campo che non si trovano propriamente nelle sue immediate vicinanze. Non a caso nella stagione 2011-12, quando custodiva le chiavi dell’area dei suoi, Golden State è risultata la peggiore squadra in assoluto a rimbalzo difensivo.
Detto questo, non possiamo negare l’affidabilità del suo jump shot, anche da distanza ragguardevole, e le mani educate – non solo la mancina – con cui tratta la palla nelle varie situazioni di gioco. Magari Joe Lacob, il proprietario, ha provato a liberarsene anche soltanto per la pesantezza del contratto di cui è titolare. In più è fervido credente e questo, alla corte del reverendo Jackson, conta eccome.
Insieme a Curry e alle rispettive mogli infatti occasionalmente si reca in chiesa a sentire i sermoni dell’allenatore. E proprio Mark Jackson avrà i suoi grattacapi nel cercare di gestire al meglio la crescita tecnica di Harrison Barnes, vera e propria rivelazione dell’annata dei Guerrieri.
L’ala da North Carolina, che ha da poco raggiunto l’età che gli permette di comprarsi un Sex on the Beach al Ruby Skye di San Francisco, è sbocciata nel tardo Aprile in tutto il suo splendore. Forse perchè battezzato da Spurs e Nuggets, ha mostrato un curioso miscuglio di tiri da fuori – sia 3 punti che mid-range – e schiacciate al ferro.
Che fosse un diamante pregiato lo si poteva supporre. Quello che però ha destato più clamore è la freddezza mostrata nei momenti chiave dei suoi primissimi Playoff NBA. Non si è mai tirato indietro, accettando ogni sorta di responsabilità, anche quando era reduce dall’aver accumulato una lunga pila di erroracci in serie.
Pensare che in regular season ci si lamentava dell’assenza di aggressività con cui affrontava le partite. Probabilmente tale risultanza era dovuta al fatto che nel sistema di Jackson il suo numero veniva dopo quelli degli elefanti, dei trapezisti, delle colombe e persino della donna barbuta.
Nei playoff, vista la costante minaccia costituita dal duo di cui sopra, ha goduto di maggiore libertà e i suoi tiri spot-up e i giochi per lui in isolamento sono decisamente aumentati. Effetti indesiderati (per gli avversari): è in grado di applicarsi anche nella marcatura sull’uomo, un po’ meno lontano dalla palla.
Dopo aver analizzato il nocciolo duro della squadra, che resta pressochè intatto in questa nuova edizione rispetto alla precedente – anche se con la non insignificante aggiunta di un anno in più di esperienza su spalle tendenzialmente ancora giovani – veniamo al mercato dei Warriors.
La campagna acquisizioni-cessioni messa in atto dal GM Bob Myers in questo inizio Luglio, rischia seriamente di aver ulteriormente rinforzato il roster. Con l’avvicinarsi dell’apertura della sessione di mercato estiva infatti alla voce “questioni spinose” si leggevano principalmente i rinnovi di Jarrett Jack e Carl Landry.
Entrambi free agent, sembravano avere la ferma intenzione di sondare le possibilità che tale condizione offriva loro. Niente di male, nessuno dei due era nello starting lineup. Peccato che andando a vedere nel dettaglio il referto statistico emerge che la coppia, nelle 12 gare di playoff disputate, ha contribuito al fatturato dei Warriors per 29 punti, quasi 10 rimbalzi e 6 assist. E in stagione regolare si era di poco al di sotto di tali cifre.
L’addio di Jack era nell’aria. Le frizioni con la dirigenza erano iniziate già alcuni mesi fa, quando si era iniziato a parlare della situazione e il giocatore sembrava aver presto chiuso la porta alle proposte di rinnovo del contratto. Reduce da una delle stagioni più produttive in carriera, dalla sua personalissima prospettiva, non poteva non passare alla cassa per riscuotere tutto il credito acquisito. E così ha fatto.
Si è accasato ai Cavs per 25 milioni abbondanti in 4 anni. Carl Landry invece dal canto suo avrebbe tanto desiderato allungare la permanenza in maglia Warriors ma, a fronte dell’opzione da 4 milioni che gli offriva Golden State, i 26 milioni in 4 anni dei Kings costituivano un’opportunità pressochè irrinunciabile.
Via Jack e Landry, sono venute a mancare due pedine fondamentali del successo recente della franchigia. Jarrett Jack, play coriaceo e con buone capacità realizzative, garantiva ai suoi minuti di qualità come cambio di Curry, sempre a rischio per via della fragilità delle caviglie. Spesso veniva utilizzato però anche al suo fianco.
Capace di produrre molti punti in pochi minuti, soprattutto con penetrazioni brucianti in mezzo all’area, era stato promosso in quintetto nello small-ball adottato da Jackson durante i playoff per ovviare all’infortunio di Lee.
Landry, lungo sottodimensionato, era anch’egli in grado di fornire il suo apporto dalla panchina con un’ingente produzione di canestri in un tempo relativamente limitato, attraverso un mix di tiri in sospensione dalla media e conclusioni nel traffico, partendo sulla linea di fondo o girando in palleggio verso il centro.
In entrambi i casi si trattava comunque di alternative vincenti, in grado di sorprendere gli avversari, scombinandone il piano partita. E adesso?
Adesso il vuoto lasciato da queste pesanti perdite potrebbe essere colmato dalla vera grande novità dei Golden State Warriors 2013-14: Andre Iguodala. Con questo ingaggio Bob Myers spera di aver fatto jackpot. Non per niente nella conferenza stampa di presentazione ha parlato di “transformative moment” per la franchigia. Ma il toto-Iguodala è già cominciato.
In molti infatti si sono iscritti fin da ora al partito del “Warriors subito da titolo” o, viceversa, a quello del “hanno intasato il reparto guardie-ali”. Quel che si può dire oggi, in attesa che il campo faccia da giudice, è che con Iguo Golden State si è assicurata un giocatore funzionale al progetto.
In primis il suo arrivo era stato invocato a gran voce da Coach Jackson per le sue indiscutibili capacità difensive. Sì perchè, dal primo giorno in cui ha messo piede nello spogliatoio della Oracle, a Mark preme molto predicare difesa oltre che i principi della bibbia.
Quando si avvicina giugno infatti e cominciano ad aumentare i Wade e gli Westbrook di turno in cui poter incorrere, disporre di uno stopper del genere non può che essere un valore aggiunto. Tralasciando le sue caratteristiche di giocatore altruista e di atleta straripante, che sono sotto gli occhi di tutti da 9 anni, ciò che ha mandato in brodo di giuggiole Myers e compagni è stata la possibilità di aggiungere allo spogliatoio un’altra voce intelligente, all’interno di in un coro di giocatori semplici e senza fronzoli per la testa.
Che poi sia anche l’unico insieme a Bryant, James, Westbrook e Rondo ad aver chiuso la stagione appena conclusa con almeno 13+5+5 di media è tutt’altro che secondario. Il numero 9 è un giocatore poliedrico sul parquet, capace di offrire il suo contributo in molteplici aspetti del gioco, non ultima la gestione della palla.
Giocando da point forward infatti è possibile che supplisca alle capacità di playmaking venute meno con la sottrazione di Jack dall’equazione vincente dei Warriors. Inoltre con l’ex Nuggets aumenta decisamente il numero delle combinazioni possibili in fatto di quintetti che di volta in volta Mark Jackson può permettersi di mandare in campo. In special modo il Coach si mette in faretra un’altra formidabile freccia per giocare quel sorprendente small-ball che tante soddisfazioni gli ha procurato nell’ultima post-season.
Ipotizzare, ovviamente per tratti circoscritti di gara, un quintetto con Curry (6-3), Iguodala (6-6), Thompson (6-7), Barnes (6-8) e Bogut è tutto fuorchè irrealistico e di fronte a tanti centimetri così ben distribuiti sul perimetro diventa un problema degli avversari quello di compiere i dovuti aggiustamenti.
Le operazioni effettuate da Myers però non si sono certo fermate all’acquisto del nativo dell’Illinois. Innanzitutto giova ricordare l’autentico capolavoro di mercato che egli è stato in grado di finalizzare per liberare spazio nel salary cap favorendo l’innesto del suddetto Iguodala.
Con buona complicità dei Jazz, tutt’altro che avari con i Warriors, il GM ha spedito i 24 sanguinosi milioni di contratto dei quasi inutilizzati Biedrins, Jefferson e Rush sulle montagne dello Utah, con l’aggiunta, in fin dei conti più che accettabile, di una sovratassa costituita da 2 prime scelte (2014, 2017 – che si presume non saranno molto alte) e 2 seconde scelte non specificate. Inoltre ha finora condotto una minuziosa opera di rifinitura del roster.
La panchina dei Warriors, le cui quotazioni dopo gli addi illustri di cui abbiamo parlato erano date in caduta libera, ne esce completamente rivestita a nuovo. Per quanto riguarda il cambio di Curry – più che di cambio si dovrebbe parlare di polizza assicurativa per le sue caviglie – è arrivato in California a un prezzo ragionevole l’ottimo Toney Douglas (7.5 punti e 2.1 assist in 13.5 minuti d’impiego fra Houston e Sacramento).
Il play ex-Knicks è un tiratore affidabile ma soprattutto un difensore perimetrale migliore di Jack, grazie alla sua abilità di indurre gli avversari in palle perse. Dopo di lui, se dimostreranno di esserne all’altezza, si alzeranno dalla panchina per ricoprire i minuti che avanzano negli spot di 1 e 2 il rookie serbo Nemanja Nedovic, che nell’ultima Eurolega ha messo a referto quasi 10 punti di media a partita con la casacca del Lietuvos Rytas, la guardia Kent Bazemore, salito alle cronache fino ad oggi esclusivamente per le esuberanti celebrazioni dei canestri dei compagni sulla panchina dei Warriors, e Scott Machado, oggetto misterioso che guidava il gioco ai Rockets lo scorso anno quando anche i venditori di Hamburger del Toyota Center sfrecciavano sulla highway, diretti verso casa.
Nel settore delle ali le cose si fanno più interessanti. Con l’arrivo di Iguodala, uno fra Thompson e Barnes, presumibilmente il secondo, partirà come sesto uomo. E che sesto uomo! Oltre al sophomore declassato, la seconda unità dei Warriors può annoverare fra i suoi membri il confermatissimo Green e una delle acquisizioni più importanti (soprattutto in ottica sostituzione di Landry) dell’estate di mercato, quel Marreese Speights, col nome così difficile da pronunciare ma dal rendimento abbastanza garantito.
Draymond Green, 35esima scelta al draft 2012, si presenta alla summer league con ben 7 chili in meno. E’ un elemento in grado di contribuire con difesa, gioco aggressivo e tanta energia, che non manca mai di portare sul parquet. Possiede un elevato QI cestistico, è versatile, potendosi accoppiare nella metà campo dietro indistintamente con le guardie e le ali forti avversarie. In genere tende a fare ciò che serve alla squadra, come ha ampiamente dimostrato in gara 4 e 6 con Denver.
Speights invece non è quel serbatoio di punti pronto ad esplodere in un brevissimo lasso di tempo che era Landry, però è un rimbalzista difensivo e uno stoppatore migliore poichè più alto del suo predecessore e dotato di una maggiore apertura alare. Anche se denuncia una più pronunciata tendenza a compiere falli, può giocare da Centro, garantendo al coach una possibilità di scelta più ampia.
Soprattutto adesso che il centro di riserva designato, Festus Ezeli, è fuori fino a dicembre, nella migliore delle ipotesi, per un’operazione al ginocchio. Per sopperire a questa assenza ci si è tutelati con l’ingaggio del veterano NBA Jermaine O’Neal, rigenerato – si fa per dire – nell’ultima stagione al sole di Phoenix, dopo 2 anni orribili ai Celtics che ne avevano praticamente sancito la fine come giocatore.
Come è facile intuire quindi, ci sono tutte le carte in regola per stupire il pubblico della Baia e compiere un ulteriore passettino nella direzione dell’Olimpo NBA. Il pericolo è quello che accomuna tutte le squadre giovani dopo i primi 3-4 anni sulle ali dell’entusiasmo, quando ci si ritrova sulla fatidica soglia della conclusione del contratto da rookie di alcuni dei giocatori chiave: non è semplice, ora che si sono palesate, tenere insieme tutte queste luminosissime stelle.
Ci penserà Mark Jackson, allenatore-pastore dei nuovi Guerrieri, che parla di fatto ad un gregge piuttosto che a uno spogliatoio di giocatori professionisti. “State giocando così bene che vorrei giocare anch’io questa partita con voi” disse una volta.
Questo è l’atteggiamento giusto, quando il materiale umano che si ha fra le mani è pura argilla, ancora compiutamente da modellare. Sarebbe lo stesso se avesse alle sue dipendenze giocatori affermati o superstar acclamate da tifosi di ogni dove? Di sicuro, se continua così, presto lo sapremo perchè avrà più di un’occasione di allenare squadre di campioni.
Così come è sicuro che quando verrà il nuovo aprile e le magliette degli spettatori della Oracle Arena si coloreranno nuovamente di giallo sarà un’impresa per tutti arrestare la corsa della banda della Baia.
grande amante del basket, del vino e della scrittura, segue l’NBA dal 1994, quando i suoi occhi furono accecati dal fulgido bagliore emanato dal talento irripetibile di Penny Hardaway. Nutre un’adorazione incondizionata per l’Avv. Federico Buffa e non perde occasione di leggere i pezzi mai banali di Zach Lowe.
Bellissimo articolo, complimenti.
C’è da dire che Bob Myers si è già candidato al premio di executive dell’anno, mettendo a segno mosse di tutto rispetto e sopperendo alle cessioni di due giocatori chiave della rotazione. Douglas e Speights non sono di certo ai livelli di Jack e Landry, almeno come nomea, ma possono dire la loro e Mark Jackson saprà come istruirli.
…”Inoltre con l’ex Nuggets aumenta decisamente il numero delle combinazioni possibili in fatto di quintetti che di volta in volta Mark Jackson può permettersi di mandare in campo”…
-Come 6° si alterneranno Thompson e Barnes quando, ad oggi, giocheranno con Lee e Bogut.
-Ci sono stati rumors tra Lee e Aldridge. La strada non era o non è male anche se, tolto il discorso soldi o rimbalzi, Lee ha sostenuto una r.s. senza Bogut non male.
-Con l’arrivo di Iguodala la partenza di Jack ci può stare. Su Landry mi aspettavo un rinnovo ma l’offerta Sacramento ha fatto il suo effetto. In questo mi aspetto da Speights presenza e energia. Se riesce a star lontano dagli infortuni qualche buon minuto O’Neal lo può dare.
-Draymond Green è da tener d’occhio e saprà ritagliarsi i suoi minuti.
La stagione che sta per iniziare e la prossima saranno il vero banco di prova per questi Warriors.
Quest’anno, con l’innesto di Iguodala, a livello di classifica e p.o.
Il prossimo per i rinnovi e il salary che aiuta.
Hanno le carte in regola per fare un bel salto in avanti.
Complimenti per l’articolo.