Alla vigilia dei playoff del 1996, Scottie Pippen, fresco di primato da 72 vittorie con i Bulls, coniò un aforisma significativo: “The record doesn’t mean a thing without a ring”.
Tralasciando gli errori di metrica, questa frase sintetizza splendidamente il fine ultimo di ogni fuoriclasse NBA di oggi: si possono vincere tutti i premi del mondo, ma se a giugno l’unico capo gettonato è il bermuda invece di pantaloncini e canotta targati NBA Finals, quel lieve senso di fallimento finisce per coventrizzare la soddisfazione per qualsivoglia riconoscimento individuale.
Detto questo, gli All-NBA Teams, oltre ad essere una goduria impagabile per noi feticisti della statistica (o forse sono io ad essere strano), rimangono un traguardo importante, seppur collaterale, per qualunque giocatore di primo piano, e nelle stagioni recenti l’inclusione negli stessi si è spesso indissolubilmente legata ad eventuali successi primaverili.
Infatti, nella stragrande maggioranza dei casi gli “eletti” dei quintetti ideali sono quelli che poi arrivano a giocarsela almeno fino alle semifinali di Conference, soprattutto perché negli ultimi anni si sta assistendo alla progressiva scomparsa dei Marbury e dei Francis, predicatori dalla statistica scintillante in contesti perdenti, con possibili eccezioni Kyrie Irving e Kevin Love (due che non credo perderanno ancora a lungo e che devono i record perdenti più alle circostanze che a limiti personali), sia per la sopracitata tendenza a cercare prima di tutto il bersaglio grosso (O’Brien o limitrofi) sia per la sua immediata conseguenza, ovvero la formazione di alleanze Big Three style che rendono veramente esigue le chance di non arrivare almeno fra le prime otto.
Si sta quindi delineando una sorta di sillogismo Big Numbers+Big Numbers=decoroso piazzamento playoff (almeno), ragionamento che, oltre ad aver fatto saltare la mosca al naso agli owners dei piccoli mercati portando alla riscrittura del contratto collettivo, ha anche reso abbastanza monotono ogni tipo di dibattito riguardante le formazioni ideali, perché se i giocatori più produttivi sono anche i più vincenti (nella maggior parte dei casi), la rosa di candidati si riduce ad un’oligarchia spartana.
Ma vediamo dunque chi ha iscritto il proprio nome nella storia della regular season 2012/13.
FIRST TEAM
Guardia – Chris Paul, L.A. Clippers
Guardia – Kobe Bryant, L.A. Lakers
Centro – Tim Duncan, San Antonio Spurs
Ala – Kevin Durant, Oklahoma City Thunder
Ala – LeBron James, Miami Heat
SECOND TEAM
Guardia – Russell Westbrook, Oklahoma City Thunder
Guardia – Tony Parker, San Antonio Spurs
Centro – Marc Gasol, Memphis Grizzlies
Ala – Carmelo Anthony, New York Knicks
Ala – Blake Griffin, Los Angeles Lakers
THIRD TEAM
Guardia – James Harden, Houston Rockets
Guardia – Dwyane Wade, Miami Heat
Centro – Dwight Howard, Los Angeles Lakers
Ala – Paul George, Indiana Pacers
Ala – David Lee, Golden State Warriors
Proprio per i motivi di cui sopra, trovo che ci sia relativamente poco da ridire; con il criterio attuale la lista dei “grandi esclusi” è veramente risibile.
Dico “con il criterio attuale” perché forse è di fatto questa la perplessità maggiore che può sorgere in una questione puramente speculativa come questa: in un anno come questo, dove la Small Ball ha preso sempre più e più piede, ha ancora senso mantenere queste distinzioni di ruoli nella votazione dei 121 giurati?
Non sarebbe meglio passare alla più semplice dicotomia back court-frontcourt, annullando la distinzione fra ali e centri come si è già fatto per le votazioni dell’All Star Game?
La risposta immediata sarebbe un vigoroso cenno di assenso, perché fra novembre e aprile il numero di esterni meritevoli di riconoscimenti è stato palesemente superiore rispetto a quello dei lunghi; d’altro canto, la post-season ha appena redento agli occhi del mondo l’efficacia della coppia di lunghi puri, specialmente nella serie Knicks-Pacers, dove West e Hibbert si sono prodotti in belli e cattivi tempi degni dell’ultima primavera nostrana ai danni dei propri corrispettivi della Mela (anzi, del proprio corrispettivo, il malcapitato Chandler), e in misura minore in quelle giocate da Memphis, e in maniera più versatile in quelle di San Antonio.
L’affermazione delle suddette squadre oversized fa pensare che forse questo “tiro da trend” della Small Ball sia dettato dalla mancanza di pletore di big men di talento più che da effettive convinzioni tattico-filosofiche (gli Heat non fanno testo poiché chiunque sia in grado di schierare LBJ aka coltellino-svizzero-5-ruoli-in-uno costituisce perpetua eccezione, non regola), e che quindi laddove si trovino lunghi di impatto sia doveroso premiarli, a prescindere da quanto (poco) roboanti siano o possano essere i loro numeri.
Bypassando dunque l’aspetto meramente formale, vediamo, ruolo per ruolo, chi potrebbe essere stato bellamente ignorato, o viceversa posto su eccessivi piedistalli.
Guardie: qui è facile individuare chi è il paria della comitiva, lo snub sesquipedale, e cioè Steph Curry. Battere il record di triple di Allen (272 vs. 269, tirando il 45.3% dall’arco, totalmente irreale) dirigendo l’attacco Warriors per larghe fette di ogni gara (anche 6.9 assist oltre ai quasi 23 di media) sarebbe un più che discreto biglietto da visita 9 anni su 10, per non parlare delle prestazioncine da vergine dei playoff (tipo i 44 in gara 1 agli Spurs) o del season high stagionale di punti in partita singola (54), ma il fatto è che il livello attuale dei backcourt NBA (specialmente fra la point guard) è talmente alto da non far gridare allo scandalo per la sua esclusione, perché nessuno dei 6 più votati avrebbe oggettivamente meritato di rimanere fuori.
In una rosa di candidati, come si può escludere gente che ha rispettivamente:
a) messo sulla cartina i Clips, arrivando peraltro secondo negli assist e primo nei recuperi, e assunto a tempo determinato (cioè finchè rimarrà) il ruolo di GM (CP3);
b) preso i Lakers sulle spalle come Atlante, finendo nella top 5 dei realizzatori a quasi 35 anni e, non dimentichiamoci, facendo 2 su 2 dalla lunetta dopo essersi squarciato un tendine (Kobe);
c) co-pilotato i Thunder a 60 vittorie, ri-asserendo poi il proprio valore per la squadra senza nemmeno giocare da gara 3 del primo turno in poi (Westbrook);
d) condotto San Antonio alla sedicesima stagione consecutiva oltre il 60% di vittorie (e alle Finals) “costringendo” il proprio coach, notoriamente non un tipo malleabile, a reimpostare il gioco della squadra su di sé (Parker);
e) riportato i Rockets ai playoff e allo stesso tempo reso fashionable la barba da Antico Testamento mettendone oltre 25 a sera (Harden);
f) vinto, pur da secondo violino, 66 partite, di cui 27 di fila (Wade).
Forse l’unico weak link sarebbe stato proprio Flash, poiché la sua stagione è sostanzialmente durata 2 mesi, quelli della pazzesca striscia Heat e perché è indiscutibilmente un giocatore in declino, viste tutte le botte prese in una decade nella Lega, ma come gara-6 e 7 delle Finals hanno dimostrato, quando la luce si accende “Three” Wade sa ancora come essere determinante, e merita (probabilmente per l’ultima volta) il pantheon del ruolo.
Per il resto, anche la distribuzione nei 3 quintetti è assolutamente comprensibile, premesso che se uno fra Tony e Westbrook avesse soppiantato il Mamba nel Primo non ci sarebbe stato da scandalizzarsi, visto l’oggettivo disastro lacustre.
Honorable mentions per altri 3 playmakers: Rajon Rondo, strike-out per aver giocato solo 38 partite (seppur sciorinando quasi 12 dimes ad allacciata), il già citato Irving, il quale, durante l’attesa per qualche grande ritorno a Cleveland (segreto di Pulcinella dell’estate 2014), ha scaldato un po’ di cuori nella altrimenti sonnacchiosa Quicken Loans Arena, pur avendo mostrato anch’egli una certa pronità all’acciacco, e Deron Williams, brillantissimo dopo essere stato ignorato dai coach per l’All-Star Game, ma complessivamente al di sotto delle aspettative nella prima campagna brooklynese.
Ali: quanto si sono stratificate le gerarchie fra le forwards? Piste avanti LBJ MVP (e lo dico da tifoso di Cleveland..), poi Durant seguito da Melo (dai, la classifica marcatori gliel’ha fatta vincere! E anche nell’amarezza dell’eliminazione al secondo turno KD35 ha giocato molto meglio), e a seguire tutti gli altri.
Anche qui l’impressione è che le valutazioni del pannello di giornalisti siano state più o meno corrette, con forse una posizione troppo alta data a Griffin a scapito di George, se non altro per l’impatto un filino più incisivo di quest’ultimo sul rendimento dei suoi Pacers (come i suoi soli 7 punti nella ripassata di gara-7 con gli Heat non hanno mancato di mostrare, purtroppo, per difetto).
Passando agli esclusi veri e propri, una coppia potrebbe recriminare: primo, LaMarcus Aldridge; alla seconda stagione da uomo-franchigia dei Blazers, è stato con Lillard l’ultimo ad arrendersi al fatto che senza panchina e con un centro sottodimensionato difficilmente si ha cittadinanza fra le top 8 ad Ovest (sull’altra Conference mai mettere la mano sul fuoco).
La sua esclusione è pura matematica: i suoi numeri (21.1+9.1 con il 48.4% dal campo) sono comparabili (18.5+11.2+51.9%) di uno che ha vinto di più, fra l’altro con meno palloni a disposizione, cioè David Lee, e questo lo ha posto in svantaggio nel confronto.
Il secondo è Luol Deng. Un vero iron man, primo per minuti giocati con 38.7, è stato il leader spirituale dei Roseless Bulls, e ha contribuito con Noah a costruire un sorprendente quinto posto a Est. Sfortunatamente, la sorte sembra tenere a mente la propria abitudine a non mandare mai le sfighe da sole, falcidiando il roster chicagoano con gli infortuni a Noah (va detto, subito recuperato), Hinrich, Hamilton (ormai ectoplasmatico) e a Deng stesso, ricoverato per diversi giorni nel timore addirittura di una meningite, spegnendo sul nascere ogni velleità di un secondo Cinderella Upset consecutivo contro Miami (in realtà già molto poco probabile a pieno organico, figurarsi con un’infermeria da base militare).
Centri: fino alle Western Conference Finals, la scelta di Duncan nel Primo Quintetto invece di Gasol-secondo-ormai-non-più-tanto-secondo avrebbe potuto suscitare non pochi inarcamenti sopraccigliari, perché il lungo catalano si era distinto non solo come ancora imprescindibile per l’unica difesa capace di concedere meno di 90 punti a partita, ma anche come miglior centro passatore d’America (4 a partita per un pivot sono oro colante per chiunque, ma soprattutto in Tennessee, dove l’attacco tende a necessitare di molteplici oliate).
Ecco, alla fine di gara-4 potrebbe essere cambiata, propendendo vagamente verso il caraibico. TD21 è stato la fenice cestistica 2013, più magro e rapido alla soglia dei 37 anni, sempre più a suo agio nel nuovo gioco Spurs, un raro caso di leggenda capace di mantenersi su livelli eccelsi anche in tardà età (il tutto passando attraverso un divorzio).
Il suo anno è stato un successo sotto tutti i punti di vista, solo che a lui rimarrà solo quel junior sky hook sbagliato sull’88-90 in gara-7, come si è visto nella conferenza stampa post-partita, uno dei momenti credo più strazianti e commoventi di sempre per ogni fan NBA, per quanto affranto è apparso per il proprio errore uno che la storia ricorderà fra i 10-15 Grandi veri.
Sull’inclusione di Howard nel Third Team le critiche sono state invece parecchie. La domanda è: quanto può essere stata negativa l’annata di uno che, numeri alla mano, è ancora il miglior centro NBA, da miglior rimbalzista e quinto stoppatore?
La risposta può solo essere: molto, molto, molto negativa. In una sola stagione Dwight ha praticamente (e definitivamente, con ogni probabilità) frantumato la propria reputazione, sia in campo che fuori.
Tolto l’ultimo mese, la prima esperienza Lakers è stata un susseguirsi di critiche sue (neanche tanto velate) allo stile di gioco della squadra e ai compagni, rei di non servirlo abbastanza, e di critiche altrui (neanche tanto velate) ai suoi evidenti limiti tecnici, ingigantiti dalla lenta ripresa della schiena, e alla sua incapacità di essere un leader nello spogliatoio.
L’impressione è che ora nessuno voglia più puntare su di lui come pietra miliare di un’eventuale squadra da anello, e che lui fatichi ad accettare di non poter mai diventare un go-to-guy su cui costruire una franchigia, ma solo un eccellente secondo violino.
Molti avrebbero potuto fare le scarpe ad Howard per un posto nella terza squadra ideale; fra questi i principali candidati sono stati Joakym Noah e Brook Lopez, due agli antipodi, ma altrettanto brillanti nel corso dell’anno.
Il figlio di Yannick ha aggiunto a tutte le qualità già note, dal dinamismo, al piazzamento sugli scarichi interni, alla capacità di aiutare, una buona visione di gioco e pure un certo carisma trascinante, ultimo ad arrendersi anche in quel di Palm Beach.
Per il gemello buono (sebbene Robin abbia già avuto una carriera superiore alle aspettative) è stato un anno di consacrazione, soprattutto per il gran numero di palloni di cui ha potuto disporre in una squadra come Brooklyn, provvista di diverse bocche da fuoco, sintomatico di fiducia e nei proprio mezzi e da parte dei compagni; si è giocato una possibile elezione per alcuni grossi punti di domanda: una capacità a rimbalzo alla Eddy Curry e una lentezza a cui non sempre un notevole tempismo ha saputo sopperire.
freshman di lingue a milano, a 11 anni si ammala gravemente di NBA grazie a LeBron James (fino a the Decision) e Kevin Garnett; il suo sogno è fare il giornalista sportivo
Howard in classifica non si può vedere: Hibbert dov’è?
L’altro intruso è Lee. Che è veramente abile nel costruirsi buoni numeri, quanto unfit to lead the team alla vittoria. Poroso in difesa, accentratore in attacco. Curry, nella serie contro S.Antonio, è fiorito con Bogut, tra blocchi e pick and roll. Ho scritto “Bogut”, non Rasheed.
E una bella classifica degli allenatori, no?
Azzardo, basandomi solo sui playoffs.
Spoelstra Popovich e il Reverendo Jackson sugli scudi.
Coach Thibodeau, ottimo ed abbondante. Ha costruito una squadra, che segue uno spartito.
Frank Vogel, non male. Avesse avuto Granger…
Hollins, non male… anche se gli preferisco McHale (che a Minnie, per un mese e prima dell’infortunio di big Al, fece gran bene).
Da rivedere: Scott Skiles (che non rivedremo), Drew (Atlanta NON ha un gioco), Mike Woodson (uhm… in bocca al lupo al Mago) e Rivers (che, ora mi sparerete, senza Thibodeau non ha fatto ‘sto gran che).
Male, DelNegro (Clips senza uno straccio di approccio difensivo; in attacco, CP3 pensaci tu) e Scott Brooks (ok, si è rotto Russell… ma inventarsi qualcosa?).
Molto male: PJ.
Non pervenuto, D’Antoni.
Ehm… non Skyles, Jim Boylan. Giust’appunto sostituito da Drew
Hibbert: ricordati che la valutazione x i primi quintetti si fa guardando il periodo della regular season! onestamente, se non avesse fatto i PO che ha fatto (dimostrando, come giustamente dici, di appartenere al gotha dei big men contemporanei), come avresti giudicato la stagione del giamaicano? un passo indietro rispetto allo scorso anno, specialmente nei primi, smarritissimi mesi; x il resto non mi sembra di aver difeso la nomina di DH, xciò…
Lee: punto di vista condivisibile, ma, numeri gonfiati o no, i Warriors sono andati oltre le aspettative e lui ha grandemente contribuito; e comunque, tranne Deng e Aldridge, alternative on the horizon non ne ho viste.
Coach: una valutazione dei coach è stata fatta, incidentalmente proprio da me…. sono sostanzialmente d’accordo su tutti, tranne Woodson, il cui continuo linciaggio rasenta davvero il luogo comune! alla fine ha spinto una squadra attempata e con parecchie anime contrastanti oltre il proprio limite.
grazie x il commento e x la lettura!
:). Nessun intento polemico, solo voglia di scrivere di basket.
la RS di D8 non è stata eccezionale. Il dato statistico non è tutto, dato che non è in grado di dire tutto (esempio: chi si segna quanti sono i blocchi correttamente portati nel corso di una partita?). Esempio: le statistiche di Al Horford sono comparabili a quelle di D8 (+ punti, meno rimbalzi, + assists, – stoppate), al pari di quelle di DeMarcus Cousins. Quelle di Marc Gasol sono nettamente più scarse di quelle di D8 (- punti, meno rimbalzi, + assists, – stoppate) . Eppure, io tenderei a dire che MG ha fatto un campionato migliore di quello di D8.
Lee: posto che per me Al Horford è un 4… e che lo penso solo io, le statistiche di Lee sono ottime. Ma gonfiate. Guarda anche l’efficienza difensiva di GS con e senza di lui in campo. Poi, se la mettiamo sui numeri, nulla da dire. Ma continuo a pensare che se dovessi scegliere un 4, NON scegliere Lee. Se poi allarghiamo al campo ai 3, oltre a Deng ricorderei Paul Pierce (18.6 + 6.3 + 4.8; 43.6% dal campo, 38% nelle bombe) e Rudy Gay.
Allenatori: Woodson ha fatto un discreto lavoro, a mio parere. Ottimo, se valutiamo che ha spinto una squadra attempata e con parecchie anime contrastanti oltre il proprio limite. Non eccezionale, se pensiamo che Carmelo ha smazzato 2.6 assists a partita (KD 4.6, LBJ 7.3), numero pari alle palle perse. Ea chi, se non al coach, compete “educare” (cestisticamente) un proprio giocatore?
scusami tu, rileggendo la mia risposta l’ho trovata a mia volta troppo “contro-polemica” :).
su Horford sono d’accordo con te su tutta la linea, sia x la sua “papabilità” sia x il ruolo (anche se ora gli han firmato Millsap, quindi credo che gli Hawks siano + ke soddisfatti di lasciarlo in pivot, nonostante siano entrambi undersized); con Gasol II, invece, è sempre necessario valutare le cifre a parità di pace offensiva, xkè solo così si vede quanto effettivamente sposti, ma la sua stessa presenza spinge le sue squadre a rallentare, e quindi sarà sempre condannato a essere valutato in proiezione (peraltro 4 assist a sera in un gioco così lento accapponano pelli a manetta), problema che
un lungo da situazioni + dinamiche non ha (ad esempio lo stesso Howard attorniato di tiratori ai tempi di Orlando).
su Lee il giudizio credo vada sospeso, sia xkè già ai Knicks, in un contesto parecchio diverso, aveva comunque dimostrato di valere, sia xkè il lungo in un contesto di small ball trae spesso benefici numerici, e con la firma di Iggy i minutaggi dei quintetti a 4 esterni cresceranno, e xciò diverrà ancora + arduo immaginarlo in una squadra + tradizionale.
a Woodson, pur nei limiti di aggiustamenti e + in generale di dipendenza dalla superstar che si è vista da metà marzo in poi (quando Melo ha sostanzialmente ricominciato a fare ciò che ha sempre fatto, vanificando tutti i progressi di leadership mostrati in precedenza), bisogna dare atto di aver saputo transitare da uno spogliatoio come quello degli Hawks (dove JJ uomo-franchigia nn è mai stato uno troppo ingombrante e l’unica grana potenziale erano i colpi di testa di Josh Smith), a una ipotetica polveriera in quel di Manhattan, con tanti, forse troppi registi, e tanti, certamente troppi, galli nel pollaio. in sintesi penso che il coach potrà essere valutato fino in fondo solo alla cessione di Stat.