Che tutto sia finito come ci si aspettava è un parere diffuso, ma non per questo obbligatoriamente corrispondente alla verità.
Le Finals appena concluse hanno visto trionfare i Miami Heat per il secondo anno consecutivo, dopo la parentesi negativa, per gli uomini di Spoelstra, della serie valevole per il titolo del 2011 contro Dallas.
James porta a casa il titolo di MVP e anche questo poteva sembrare, alla vigilia, scontato e prevedibile. Ma quanto è stata davvero in discesa o, al contrario, difficoltosa la corsa di Miami all’anello del repeat?
Gli Heat dopo la classica stagione regolare fatta di strisce di vittorie impressionanti e cadute repentine, magari contro squadre non di alta classifica, si sono presentati ai playoffs con un sonoro cappotto ai danni dei malcapitati Milwaukee Bucks.
Troppo forti per la squadra della città di Fonzie, troppo profondo il roster rispetto a quelli del Wisconsin, troppo tutto, insomma, tanto da avvalorare la tesi iniziale di quelli che appunto non vedevano particolari ostacoli alla corsa verso le Finals di Wade&c.
Il secondo turno confermava l’assunto, tanto che i pur valorosi Chicago Bulls, investiti da una serie di sfighe e infortuni impressionante, sono riusciti a strappare una sola W prima di terminare la loro stagione e iniziare a preparare le valigie per le vacanze.
Allora doveva essere proprio vero: solo ad ovest del grande fiume Mississippi gli Heat potevano trovare pane per i loro denti. Così sembrava e invece non è stato.
In finale di Conference Miami trova l’ostacolo più arduo da superare, ovvero gli Indiana Pacers. Come nella serie dei playoffs 2012, Indiana oppone al maggior talento della squadra di South Beach una fisicità che mette in crisi James e compagni.
Con un basket fatto di tanta palla dentro, per sfruttare la contemporanea presenza in campo di due lunghi davvero ben assortiti come il centro clonato dagli anni 60-70 Roy Hibbert e l’ala David West, eroi improvvisati come il newyorkese Lance Stephenson (autore di canestri impossibili così come l’azione dopo di mattoni terrificanti, ma mettendoci sempre quella faccia un po’ così di chi ha conosciuto la strada e uno spirito combattivo senza eguali) e una sagacia tattica che eleva ormai coach Vogel tra i primissimi della categoria, gli “Hoosiers” allungano una serie che se si fosse decisa a tavolino, sulla carta, non avrebbe potuto avere storia.
Spoelstra deve cominciare finalmente a lavorare, con lui tutto lo staff tecnico, perché per la prima volta in questa post-season urgono aggiustamenti, che poi spesso sono la chiave di volta che rende una squadra competitiva o meno a questi livelli.
Mentre gli Heat fanno letteralmente a spallate – e non solo – con Indiana, San Antonio si gode lo spettacolo dal divano di casa, dato che nella Western Conference, complici gli infortuni (Bryant, Westbrook) e una certa buona sorte che in molti anni dispari, a partire dal 97 quando le palline dissero Spurs, nella lotteria che vedeva Duncan come premio principale, ad oggi, le cose erano filate più lisce del previsto, anche per merito della squadra di Pop ovviamente.
Alla fine Miami rispetta il pronostico, grazie alle rotazioni riviste da Spoelstra per adattarsi allo stile dei Pacers che vedono ad esempio emergere un lottatore come Andersen, chiamato in tutta fretta solo poche settimane prima mentre era impegnato ovviamente non su un campo da basket ma nella caccia all’alce (sigh).
Pur con il favore del risultato ottenuto, che dà sempre ragione a chi si impegna e trova la strada per ottenerlo, l’atteggiamento di Miami non mi convinceva. Nei momenti chiave la palla tornava ad essere troppo ferma, LeBron regrediva al ruolo di “solista perdente” già visto a Cleveland (attenzione all’argomento che tornerà d’attualità durante la serie finale) e in generale gli Heat non sembravano una squadra con la personalità adatta ad affrontare un impegno probante come sarebbe stato quello con gli Spurs. Troppo esperti, troppo capaci di entrarti sotto pelle e squoiarti nel sonno.
Ok adattarsi al gioco degli altri, visto il roster a disposizione che permette di farlo, ma l’incapacità di imporre un proprio sistema e costringere gli avversari a trovare un rimedio mi continuava a sembrare il più grosso difetto dei campioni in carica. Poi sono arrivate le Finals…
Da San Antonio gli Heat (e non solo) hanno sicuramente preso quello che fino a poco tempo fa sarebbe stato definito come “gioco all’europea” e che solo negli ultimi tempi ha preso il nome di spread offense.
Giocare con un 4 tattico, spesso stazionato oltre l’arco dei 3 punti e aprire letteralmente il campo così che le penetrazioni con palla a centro area, magari dopo un ormai classico pick’n’roll centrale, diano il via a una serie di recuperi a cui viene costretta la difesa che nella maggior parte dei casi non riesce poi ad arrivare in tempo per il close out decisivo sul tiratore di turno, ancor più se questo si trova in uno dei due angoli. Come vuole la storia, spesso, l’allievo supera il maestro. E così è stato.
Miami nella sua metà campo cerca di imporre le proprie regole, in particolare aggredendo Parker con uno show fortissimo, spesso un autentico raddoppio, sul pick’n’roll giocato dal franco-belga. Tony in realtà nelle prime due gare giocate in Florida se ne accorge il giusto e gli Spurs completano la prima parte del loro piano, strappando una W alla American Airlines Arena e tornando a casa sul 1-1. Gara 3 non ha storia e anche grazie a un Duncan formato vintage, dopo la pulizia estiva alle ginocchia effettuata in Germania, San Antonio si ritrova avanti.
Per altro anche questa è una buona e vecchia abitudine per Pop e soci che nelle precedenti finali disputate – e vinte -non si sono mai trovati ad inseguire. Tutto finito e tifosi neroargento pronti alla parata? Figuriamoci!
Gli Heat risorgono in gara 4 e cominciano a imporre loro delle scelte che gli avversari sono costretti a ribattere. Spoelstra butta in quintetto Mike Miller e sposta con costanza e minutaggio importante James in ala forte. Popovich deve inseguire il collega perché il quintetto con Duncan e Splitter non è più utilizzabile.
Gli Spurs vinceranno comunque il quinto episodio della serie, tornando a Miami con ben due match point sulla propria racchetta e alla fine senza riuscire a chiudere a proprio favore la serie. Arriverà Ray Allen e l’overtime di gara 6, e poi l’ultimo atto con la vittoria degli Heat.
Finalmente, dicevo, Miami ha fugato gli ultimi miei dubbi. Questi non erano solo di natura tattica, come descritto poco sopra, ma anche caratteriale. Ho “temuto” di non venire smentito quando James durante la trasferta in Texas dichiarava, con poca furbizia almeno apparentemente, di sentirsi come ai tempi di Cleveland, ovvero solo contro tutti.
Siccome in quella situazione gli Spurs erano già riusciti a bloccare il numero 6 (allora 23) la convinzione che questo atteggiamento dell’MVP non potesse portare a cose buone per i suoi cresceva di ora in ora.
Invece evidentemente LeBron ha imparato/sta imparando ad essere leader anche con qualche trucchetto come quello delle dichiarazioni ad effetto per stimolare i compagni. Così almeno sembra che sia accaduto, visti i risultati delle ultime due gare delle finali.
In definitiva la corsa al titolo di Miami si è svolta in due fasi completamente diverse una dall’altra. La passeggiata iniziale con i Bucks, le gare più impegnative con Chicago, il rischio di uscire di scena con Indiana e poi la finale vinta contro San Antonio.
Sono proprio le ultime due tappe a dare ancor più valore all’anello numero 3 della franchigia capitanata da Pat Riley, e fondamentalmente credo sia un giochino abbastanza inutile stare a sindacare sulle difficoltà che gli Heat avrebbero incontrato se i Bulls fossero stati al completo, se all’ovest Lakers e OKC si fossero presentate in post season al completo, diventando delle contenders più impegnative per gli Spurs. La storia è stata scritta e ogni ulteriore discorso rimandato alla prossima stagione.
Quella di Miami sembra possa essere comunque una “dinastia a tempo determinato”. La squadra non è certamente giovane, soprattutto nei suoi uomini cardine, e già in questa post-season ha sofferto per gli acciacchi di Dwyane Wade.
In più James ha un contratto in scadenza nel 2014 e se lo spirito rimane quello del “predestinato” (quindi legato ad un destino – deciso da altri o in proprio) della famosa cover di Sports Illustrated, della “decision”, allora dopo la prossima stagione LeBron tornerà a Cleveland.
Sembra già tutto scritto, ma anche se così dovesse andare a finire c’è ancora una lunga, imperdibile stagione di basket NBA, e visto che chi tira le fila a Miami Beach di three-peat se ne intende, avendo inventato e brevettato lui lo slogan, perchè non provarci?
Ex-giocatore e poi allenatore a livello di settore giovanile in Toscana e Umbria. Scrive di basket americano dal 2005. Autore del libro “Il triangolo… sì, io lo rifarei” unico testo in italiano (con prefazione di Raffaele Imbrogno) dedicato alla Triple-post Offense di Coach Tex Winter.
@a_p_official
Non so se vinceranno l’ anello anche l’ anno prossimo, ma se Lebron deciderà di lasciare Miami, lo farà per tornare in riva al lago, sempre che Gilbert lo rivoglia.
Probabile che accada la prossima estate, faranno finta di doversi reciprocamente perdonare e poi il matrimonio si celebrerà