Capolinea, termine della corsa: chi può scenda, prima che riparta il treno. È un po’ questa l’istantanea attuale dei Boston Celtics.
La storica franchigia biancoverde, dopo aver vissuto sei anni al vertice con il ciclo dei Big 3 (seppur orfani di Ray Allen nell’ultima stagione), si trova adesso di fronte a una ricostruzione che si annuncia complicata e quantomeno dolorosa.
L’ultima, controversa stagione, iniziata con ambizioni da contender ma caratterizzata invece da gravi infortuni (crociato per Rondo e Barbosa, schiena per Sullinger) e da un rendimento altalenante e spesso sotto il par, è probabilmente stata l’ultimo atto di una finestra vincente (col fantastico titolo 2008 messo in bacheca) ma nella quale, probabilmente, gli uomini in verde hanno raccolto meno di quanto meritato.
La svolta, il segnale definitivo di un cambiamento più volte annunciato ma mai realizzato, è arrivata nella tarda serata di ieri quando l’ormai ex coach biancoverde ha ceduto all’insistente corteggiamento dei Los Angeles Clippers, che hanno convinto i Celtics a liberarlo in cambio di una prima scelta non protetta al Draft 2015.
Rivers lascia la panchina dei Celtics dopo nove stagioni vissute tra i bassissimi dell’anno pre-titolo (con la miseria di 24 vittorie) e gli altissimi di un anello vinto e di altri due sfuggiti per la malasorte abbattutasi sulla Beantown sottoforma di infortuni (Garnett nel 2009 e Perkins nel 2010).
Il suo contratto sarebbe scaduto fra tre anni, ma evidentemente l’ex giocatore da Marquette ha preferito la possibilità di allenare un Chris Paul (che a questo punto dovrebbe rinnovare il contratto convinto proprio dall’arrivo del nuovo coach) al top della carriera e di provare a vincere sulla costa Ovest, rispetto al processo di ricostruzione che lo avrebbe atteso in caso di permanenza a Boston.
Ingratitudine? Non proprio, anche perché non va dimenticato che fu proprio lui a riportare il Trifoglio ai fasti che gli competono dopo aver attraversato gli anni più bui della sua storia.
L’addio di Rivers porta con sé, come la corrente di un fiume, gli interrogativi sul futuro di Kevin Garnett e Paul Pierce: i due futuri Hall of Famer sono stati per anni i pretoriani del coach (malgrado gli screzi con Pierce quando Boston vivacchiava nei bassifondi di classifica e The Truth era ancora considerato un ottimo giocatore troppo viziato e arrogante per poter diventare un uomo franchigia) e non è un mistero che entrambi, per vari motivi, farebbero carte false per seguirlo.
KG vanta ancora due anni di contratto ma nell’accordo coi Celtics aveva inserito un’apposita clausola anti-trade per la sua volontà di continuare a giocare solo e soltanto sotto la guida di coach Rivers; Pierce, invece, chiama 15 milioni di ingaggio per la prossima stagione, dei quali solo 5 garantiti.
Boston può tagliarlo entro il 30 giugno pagandoli “solo” la parte di contratto assicurata, ma così facendo farebbe un regalo alla concorrenza; e dove potrebbe mai accasarsi il vecchio capitano, peraltro angeleno di nascita, se non ai “Velieri” del Doc?
Una permanenza di entrambi ai Celtics, nel bel mezzo di una ricostruzione e per di più sotto la guida di un altro allenatore, è scenario quasi irrealizzabile. Per Garnett dunque si tornerà a parlare dello scambio già messo in ponte qualche giorno fa, poi stoppato dalla NBA, proprio con i Clippers, con DeAndre Jordan e magari una scelta a fare da contropartita; se la trade non dovesse andare in porto allora il vecchio Re Leone potrebbe anche optare per il ritiro (a riguardo si parla di un possibile ruolo dirigenziale ai Minnesota Timberwolves, primo amore della carriera).
Ufficializzato l’addio di Rivers è già tempo di pensare al nome del sostituto; i candidati non mancano, ma si dovrà fare i conti con la particolare situazione che troverà chi si siederà sulla panchina biancoverde.
I nomi più papabili al momento sembrano quello di Brian Shaw, ex giocatore dei Celtics e con una lunga militanza da assistente prima ai Lakers e poi ai Pacers, senza trascurare la candidatura di Nate McMillan, coach di esperienza e apprezzato per il suo lavoro prima a Seattle e poi a Portland (da non perdere di vista anche Lawrence Frank, già assistente di Rivers nella stagione 2010-2011).
Resta valida anche la pista che porta a Vinny Del Negro, anche se la sua conclamata mancanza di personalità non lo rende il coach ideale per questi Celtics in “rebuilding mode”; paiono invece da escludere i nomi di Lionel Hollins e George Karl, due coach alla ribalta che difficilmente accetterebbero una periodo di transizione di almeno un paio d’anni.
Data dunque ormai per scontata la partenza, a seguito di coach Rivers, degli ultimi due veteranissimi, per Danny Ainge è tempo di guardare in casa e fare il punto della situazione. Talento e gioventù per ripartire non mancano: Rondo, Green, Bradley e Sullinger sono il nucleo dal quale i Celtics ripartiranno.
Rondo, al rientro dall’infortunio al crociato del ginocchio destro, indosserà i panni di uomo franchigia e sarà chiamato alla prova del nove che darà qualche indicazione in più su cosa vorrà fare “da grande”; Green è esploso nella seconda metà di stagione e sarà chiamato a confermare le grandi doti messe in mostra mentre Bradley, sgravato dell’arduo compito di gestione della palla, potrà tornare ad essere il mastino difensivo ammirato prima delle operazioni alle spalle.
Sullinger, il più giovane della compagnia coi suoi 21 anni, sembra aver recuperato dal problema alla schiena e dovrà essere l’arma in più sotto i tabelloni grazie al suo innato fiuto per il pallone.
Accanto a loro un manipolo di giocatori che sono in una sorta di terra di mezzo: Bass e Lee devono ancora compiere 28 anni, ma se il primo dopo una stagione incolore è emerso nei playoff come Melo-stopper (risorsa importante in ottica futura), il secondo non è mai riuscito a emergere e ha ampiamente deluso le aspettative (accompagnate dal relativo quadriennale da 21 milioni complessivi).
Anche Jason Terry ha vissuto una stagione difficile, e la sua situazione è alquanto scomoda per i Celtics, perché si tratta di un giocatore avanti con gli anni e ben pagato (triennale da 15 milioni per lui) ma con pochissimo mercato a causa del contratto e dello scarso rendimento dell’ultima annata.
Completano il roster i giovani Jordan Crawford, fuciliere impazzito dalla panchina che può far comodo per quindici minuti di anarchia, e Terrence Williams, sul cui capo pende però la spada di Damocle di una denuncia per possesso e maneggio di arma da fuoco in presenza del figlio di dieci anni.
Nota a margine per Fab Melo, centro brasiliano che deve fondamentalmente imparare i rudimenti della pallacanestro prima di calcare i 28 metri di qualsiasi parquet. A questi nomi si aggiungerà poi la scelta del prossimo draft, nel quale i Celtics avranno a disposizione la chiamata numero 16; il tutto, come detto, al netto del probabile addio del duo Pierce-Garnett.
L’obiettivo di Danny Ainge sarebbe dunque quello di accumulare il maggior numero di scelte e/o contratti in scadenza, in modo da avere spazio di manovra per puntare su giovani promettenti (occhio al Draft 2014 che promette di essere uno dei più talentuosi degli ultimi anni) o per esplorare un mercato free agent che promette di essere stellare nell’estate 2014.
Qualunque sia la linea scelta dal GM biancoverde, una cosa è sicura: a Boston non si è mai fatto “tanking”, vale a dire giocare per perdere sperando di ottenere una chiamata migliore al Draft dell’anno successivo.
Il compito di Ainge sarà di evitare che si compia questo destino, una pratica che non può essere fatta propria da una franchigia della caratura e della storia di quella del Trifoglio. Certo, la ribalta sarà preclusa per almeno un paio di stagioni, ma il roster giovane col quale verosimilmente si presenteranno i Celtics ai nastri di partenza della prossima stagione sarà senz’altro intrigante.
Gli equilibri dell’Est sono per tradizione assai volatili, e chissà che con un paio di mosse giuste i biancoverdi non possano dire la loro per un posto ai prossimi playoff; sarebbe un primo passo di grande importanza per avviare una ricostruzione che, statene certi, riporterà i biancoverdi ai fasti che competono alla Franchigia per eccellenza.
Studente in giurisprudenza, amo ogni genere di sport e il suo lato più romantico. Seguace di Federico Buffa, l’Avvocato per eccellenza, perché se non vi piacciono le finali NBA non voglio nemmeno conoscervi.
“Ricordati di osare sempre”.
Io onestamente non capisco un certo comportamento da parte di stern e della lega in generale, quando 2 anni fa stopparono la trade che avrebbe portato ai Lakers Chris Paul fui d’accordo, gli hornets non avevano un gm ecc, (anche se non sono così sicuro che quella successiva accettata coi clippers sia stata molto più vantaggiosa…) ma ora questa trade che porta doc rivers ai clippers (e che prevedeva anche l’arrivo di Garnett in cambio di Jordan) prima viene bloccata con la motivazione che i coach non possono essere scambiati, poi però il coach alla fine viene effettivamente scambiato e garnett no? non può! e perchè? in nome di questo strano “equilibrio” cui ogni tanto ci si appella?
Eddai, ragazzi, per far vincere 6 o 7 titoli a Lebbrone bisogna distruggere l’Est, che diamine. Già Indiana dà fastidio, figurarsi se salta fuori un’altra squadra decente.
Ainge comunque dalla trade Allen-Garnett non ne azzecca una. Ed è pure recidivo.
Prossimo titolo biancoverde nel 2028.