In queste ore di trepidante attesa per l’inizio della diciottesima gara 7 di finale della storia dell’NBA, potrebbe essere utile gettare uno sguardo indietro, ai fasti del passato della Lega, per saggiare la reale consistenza della convinzione comune che vuole che sia così difficile prevalere nell’ultima e decisiva gara della stagione, l’unica davvero “senza domani”, per la squadra che veste di scuro, quella in trasferta.
Ebbene.. il computo delle vittorie pende pericolosamente dalla parte di quelli che giocano fra le mura amiche. Niente di nuovo sul fronte occidentale. Gli ultimi a vincere una gara 7 in trasferta furono i Washington Bullets di Elvin Hayes, corsari a Seattle nella stagione 1977-78. Da allora 5 volte la finale si è decisa all’ultimo atto (4 delle quali col formato 2-3-2, introdotto nel 1985) e in ogni occasione ha avuto la meglio la squadra di casa.
L’ultima compagine invece ad aver vinto gara 7 in trasferta dopo essersi fatta raggiungere in gara 6 sul punteggio di 3-3 nella serie di finale fu quella dei Boston Celtics del 1973-74. Per giunta, proprio come gli Spurs nelle finals 2013, vinsero a Milwaukee, dopo aver perso la partita precedente al supplementare.. un doppio supplementare in quella circostanza.
Era la squadra dei coach, con ben 5 componenti (Chaney, Cowens, Nelson, Silas e Westphal) che negli anni successivi sarebbero finiti a dirigere gli allenamenti di squadre NBA ed uno (il tenace Jo Jo White) con una breve esperienza come assistente a Kansas nell’NCAA. Jo Jo, era il play di quei Celtics.
Scelto nel draft del 1969, l’anno in cui la Dinastia dei biancoverdi degli anni ’60 aveva chiuso definitivamente i battenti. Difensore indefesso, aveva nella velocità la sua caratteristica migliore.
Provvisto di leadership “a palate”, possedeva anche buone capacità di gestione del gioco, cosa che non gli fu mai riconosciuta fino in fondo. Passò alla storia per l’incredibile gara 5 di finale disputata nel 1976 contro i Suns, uno dei più avvincenti atti della storia delle NBA finals, con l’epilogo dopo 3 overtime.
Nell’anno in questione faceva da spalla all’ hall of famer John Havlicek, detto “Hondo” da un compagno di high school per la sua somiglianza con John Wayne nell’omonimo film. Figlio di Cecoslovacchi, John era troppo veloce per le ali piccole e troppo grosso per le guardie. Non si stancava mai ed era sempre in movimento.
Il prima cestista e poi senatore USA Bill Bradley disse di lui: “Marcare Havlicek è il lavoro più difficile che ci sia in una stagione. In ogni momento ha un obiettivo”.
A completare la front line, accanto a Hondo vi erano Paul Silas e Dave Cowens. Quest’ultimo costituiva la vera arma tattica di quei Celtics. Con la sua capacità di correre per tutto il campo e di colpire con la mancina da fuori area, provocò più di un grattacapo alle squadre d’elite della Lega, imperniate su giganti del calibro di Abdul-Jabbar e Chamberlain.
Rosso di capelli, con la mano destra non tirava nemmeno lo sciacquone, ma si buttava su ogni pallone ed ha concluso la carriera con quasi 3000 falli commessi. Il supporting cast biancoverde comprendeva poi i 2 Don, Nelson e Chaney, Paul Westphal, il settepiedi Hank Finkel e il texano Art Williams, non certo un protagonista nella cavalcata dei suoi.
Quella stagione cominciò con una grossa perdita per la Lega, in tutto simile a un lutto: il ritiro di Wilt “The Stilt” Chamberlain, personaggio unico nel pur variopinto panorama della National Basketball Association. Ai nastri di partenza si presentarono per l’ultimo tango giocatori del calibro di “Mr Clutch” Jerry West e Oscar Robertson, nonchè i due Knickerbockers Willis Reed e Dave DeBusschere, freschi campioni NBA del 1973.
Così alcune delle corazzate che nel recente passato avevano fatto la voce grossa – si legga Lakers e Knicks – lasciarono il passo alle altre ancora in auge, ovvero Celtics, Bulls e Pistons, ma soprattutto a quei Bucks, che erano stati designati in coro dagli esperti come veri e propri dominatori della stagione imminente.
E come potevano non esserlo? Avevano “il generoso servitore del potente” Kareem Abdul-Jabbar, uno dei più grandi interpreti della storia del gioco, un centro di 218 cm, titolare del tiro più immarcabile che si sia mai visto – il gancio cielo – e giocatore che nella sua ventennale carriera ha avuto modo di incidere il proprio nome a caratteri cubitali sotto diversi paragrafi nel libro dei record della NBA.
Tuttavia l’immenso Kareem, da quando non si chiamava più Lew Alcindor perchè aveva abbracciato l’Islam, non si era più fatto neppure un giretto alle finali. Dal 1971, anno del suo primo ed unico titolo a Milwaukee, infatti, così come non aveva più messo piede all’interno di una chiesa cristiana, anche l’accesso alla serie che nel maggio inoltrato assegnava l’anello gli era precluso.
Al suo fianco, in maglia Bucks, vi era il 35enne Oscar Robertson detto “Big O”, che, anche se aveva smesso di accanirsi con i poveri scout che a bordo campo avevano l’arduo compito di registrare le sue triple doppie, continuava ad incutere un certo timore negli avversari.
Insieme a lui, a deliziare l’esiguo numero di spettatori della Mecca Arena, c’erano anche Lucius Allen e Bob Dandridge. Il primo, che condivideva con Big O il compito di portare la palla nella metà campo offensiva, si infortunò gravemente al legamento del ginocchio, scivolando su una maglietta da allenamento sul finire della stagione regolare e fu costretto a saltare tutti i playoff.
Il secondo ebbe modo di rifarsi della bruciante sconfitta casalinga nella gara 7 di finale di quell’anno, vincendo in trasferta l’ultima gara della finale del 1978, quando, alfiere dei Bullets, riuscì finalmente ad entrare nella storia dalla parte giusta.
Per arrivare a scontrarsi nell’ultimo atto della stagione, Celtics e Bucks non incontrarono ostacoli insormontabili sul loro cammino. Milwaukee si sbarazzò 4-1 dei Lakers e 4-0 dei Bulls. Fu una cavalcata implacabile e quasi perfetta quella che portò “i cervi” al cospetto dei biancoverdi. Boston, dal canto suo, eliminò prima i Braves e dopo quel che restava degli acciaccati Knicks, campioni uscenti.
Solo nella Semifinale di Conference dovettero impiegare ben 6 partite per avere ragione dei Buffalo Braves, che oltre al capocannoniere Bob McAdoo schieravano fra le proprie fila il rookie dell’anno Ernie DiGregorio.
Ernie era un play di non più di 180 cm, considerato un maestro nell’arte del passaggio ai tempi del college a Providence. Era un giocatore come non se ne vedono più, come non se ne vedranno mai più probabilmente, in questa lega che ha definitivamente fatto dell’atletismo la sua cifra ultima.
Non che fosse così formidabile, di fatto giocò soltanto quell’anno ad alti livelli, però di lui si diceva: “se eri un appassionato di sport nel New England all’inizio degli anni ’70, Ernie DiGregorio non poteva che essere il tuo idolo.”
La Serie di Finale che ebbe inizio Domenica 28 Aprile 1974 a Milwaukee nel Wisconsin, davanti a quasi undicimila spettatori, metteva di fronte il meglio dell’Est contro il meglio dell’Ovest, ovvero le due squadre che in Regular Season avevano avuto i record migliori.
Non succedeva da ormai qualche anno che le teste di serie arrivassero fino in fondo. Il confronto fra le due compagini non si esauriva, come spesso capita, in una mera questione di canestri, rimbalzi o palle perse.
Era un vero e proprio scontro di filosofie. Da una parte i Bucks, convinti assertori della superiorità del gioco a metà campo, martellavano la palla in post basso, pensando, non a torto, che avvalendosi della stazza e della classe di Kareem avrebbero annichilito i sotto-dimensionati avversari.
Dall’altra i Celtics praticavano una pallacanestro molto più frenetica, giocata a un ritmo piuttosto elevato. Abusavano della strategia del pressing e si affidavano in attacco a una specie di “run & gun”, motivato dalle caratteristiche sopra descritte dei giocatori del roster.
E proprio attraverso il loro pressing estenuante misero più volte alle corde i Bucks, orfani di uno dei migliori ball-handler che avevano, quel Lucius Allen scivolato inopinatamente su una maglietta da allenamento. Ron “Fritz” Williams, che sostituiva Allen, ne uscì con le ossa rotte e il morale distrutto.
I Celtics presero il comando della serie, espugnando la Mecca Arena in gara 1 e da lì in poi non restituirono praticamente più il vantaggio del fattore campo agli avversari. Si fecero raggiungere sull’1-1 dopo il supplementare di gara 2. Tornarono in vantaggio per 2-1. Poi di nuovo 2-2 e infine ancora avanti 3-2.
Gara 6. Boston, Massachusetts. 10 Maggio 1974. I Celtics hanno la possibilità di chiudere i conti davanti al pubblico del Garden. Cowens è però immediatamente bloccato da problemi di falli e costretto in panchina a guardare, inerme, Jabbar & co. che volano sul +12. Un canestro alla volta, con enorme fatica Boston si rifa sotto.
Con poco più di un minuto sul cronometro della partita Havlicek realizza in mezzo a due difensori il jumper dell’86-86, punteggio che non cambierà più fino allo scadere dei 48 minuti. Nel primo overtime è ancora Havlicek a regolare il risultato finale sul tabellone, recuperando un rimbalzo lungo su un suo precedente errore e mettendo a referto il 90 pari.
Secondo supplementare. In quelli che saranno gli ultimi 5 minuti di partita è ancora Hondo il mattatore. Segna 9 degli 11 punti dell’intera squadra, compreso il 101-100 a 7 secondi dalla fine, con un arcobaleno che si libra, leggero, sopra le braccia distese di Jabbar per incontrare dolcemente le retina.
Ma i colpi di scena non sono finiti. I Bucks rientrano dal time-out. Palla al vertice basso dell’area a Kareem, che saggia il contatto col baffuto settepiedi Finkel, che a sua volta non manca di far sentire la sua presenza. 4… 3… Jabbar vira a sinistra e lascia partire il classico gancio cielo.. 2… 1… Canestro. 102-101 Bucks e tutti di nuovo a Milwaukee per gara 7.
Nell’ultimissimo atto della Serie, Domenica 12 Maggio, le due squadre si incontrano ancora, per la settima e decisiva fatica. Nelle ore che precedono la partita Red Auerbach, allenatore storico dei Celtics che tiranneggiavano a proprio piacimento negli anni ’60 e General Manager plenipotenziario in questa edizione, chiama a raccolta il Consiglio Maggiore dei biancoverdi, con Bob Cousy in testa.
In questo summit viene partorita l’idea di abbandonare la strategia della difesa a uomo in “single-man coverage” per raddoppiare e, se necessario, persino triplicare quel Jabbar, che fino a questo momento con le sue virate, i ganci e le finte ha condannato il povero Cowens ad anni di sedute dall’analista per cercare di ritrovare una parvenza di tranquillità e di fiducia nei propri mezzi. Tom Heinsohn, coach di Boston, esegue.
Il “Rosso” Dave, mostra immediatamente di gradire. Alleggerito dal carico mentale e fisico di dover contenere il proprio dirimpettaio senza aiuti, sfodera una prestazione in attacco di tutto rispetto, facendo registrare 28 punti e 14 rimbalzi. Havlicek segna soltanto 16 punti, ma tiene in costante apprensione la difesa dei “cervi”.
http://www.youtube.com/watch?v=o_cyvav5tvk
Vincono i Celtics 102-87. Lo fanno in trasferta, a Milwaukee, città in cui proprio in quegli anni era ambientata la popolare serie televisiva statunitense Happy Days, ma dove di fatto i giorni felici non erano mai stati così lontani.
La serie si chiude sul 4-3 per gli ospiti. Arriva quindi il titolo numero 12 da appendere sul soffitto del Garden, accanto all’ultimo conquistato ben 5 anni prima, quando si era ancora nel pieno dell’Era Russell.
grande amante del basket, del vino e della scrittura, segue l’NBA dal 1994, quando i suoi occhi furono accecati dal fulgido bagliore emanato dal talento irripetibile di Penny Hardaway. Nutre un’adorazione incondizionata per l’Avv. Federico Buffa e non perde occasione di leggere i pezzi mai banali di Zach Lowe.
Bellissimo articolo
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