Sam Presti genio infallibile? Andiamoci piano...

Sam Presti genio infallibile? Andiamoci piano…

Nati sulle ceneri dei Seattle Sonics e venuti alla luce da una costola dei San Antonio Spurs: sono gli Oklahoma City Thunder, che nelle ultime stagioni hanno rivoluzionato la geografia cestistica della Western Conference portando una ventata di aria fresca nella corsa all’anello.

Fino alle Finals dello scorso anno, i Thunder sono stati la “fidanzata d’america” in versione NBA: impossibile non provare simpatia per una squadra costruita mattone su mattone grazie a scelte illuminate al draft e poggiata su un trio di giovani fenomeni dalla faccia pulita come Durant, Westbrook e Harden.

Ma una sera di Ottobre, a pochi giorni dalla prima palla a due della stagione, la cessione del Barba ha aperto una nuova era per la giovanissima franchigia: i Thunder sono diventati grandi in un colpo solo, una tappa ancora più importante della propedeutica batosta subita ad opera di Miami nelle scorse Finali.

Una stagione regolare dopo, possiamo tracciare un quadro del tanto pubblicizzato modello Thunder: una filosofia senz’altro affascinante e vincente (anche se manca ancora la consacrazione di un titolo), ma che nasconde al suo interno alcune grandi contraddizioni.

È conclamato come Sam Presti, General Manager della franchigia e in passato allievo di R.C. Buford nel management dei San Antonio Spurs, ispiri ogni sua scelta a quella “educazione texana” che lo ha forgiato all’ombra dell’Alamo: il collettivo prima di tutto, il bene comune che prevale sull’ego delle superstar.

Il concetto è stato ben chiaro fin dal primo giorno del suo incarico: arrivato giovanissimo (a poco più di trent’anni) a ricoprire il ruolo di GM nell’ultima stagione della franchigia in quel di Seattle, la sua prima mossa fu quella di scambiare un futuro Hall of Famer come Ray Allen in cambio di una scelta al draft con la quale scelse Jeff Green, giovane ala uscita da Georgetown.

In quel draft i Sonics si erano aggiudicati anche Kevin Durant, ponendo le basi del futuro della franchigia che sarebbero state completate nei due anni successivi, con le chiamate di Russell Westbrook e James Harden.

Presti però, una volta assemblato il giocattolo, decide di modificarlo in breve tempo: nel febbraio 2011 (quindi dopo appena una stagione e mezzo giocata assieme dai quattro giocatori citati), cede Jeff Green ai Boston Celtics, in cambio di Kendrick Perkins, che nei piani della dirigenza di OKC dovrebbe diventare l’àncora difensiva che manca alla squadra.

Nell’immediato il GM degli azzurro-arancio ne esce trionfatore: Perkins sembra essere proprio il pezzo mancante del puzzle, mentre l’impatto di Green ai Celtics è tutt’altro che buono, e Jeff si vede addirittura costretto a saltare tutta la stagione successiva per un grave problema cardiaco (aneurisma all’aorta) che necessita di essere corretto chirurgicamente.

Saliamo sulla macchina del tempo e andiamo avanti veloce, arrivando al presente: Jeff Green non solo è tornato in campo dopo il delicato intervento, ma sta esplodendo come un giocatore totale, vero e proprio uomo in più dei Celtics che grazie alle sue grandi prestazioni sono riusciti a sopperire all’infortunio che li ha privati di Rondo. Sulla sponda di Oklahoma, invece, Perk sembra essere diventato quasi un peso, tanto da essere in odore di taglio per la prossima estate.

Ma il capitolo cessioni eccellenti non è certo finito qua, perché durante la passata stagione si sono accesi i primi dibattiti sull’argomento stipendi: dopo i nuovi accordi sottoscritti da Durant e Westbrook (confermatissimi allo scadere dei rispettivi contratti da matricole), appariva chiaro che le regole del nuovo contratto collettivo avrebbero permesso solo un’altra firma eccellente.

E qui nasce un dilemma amletico: chi firmare prima tra Harden, rivelazione dell’anno e vero e proprio “titolare dalla panchina”, e Serge Ibaka, lungo ispano-congolese diventato un elemento molto importante del quintetto titolare?

La scelta cade proprio sul lungo nativo di Brazaville: merce troppo rara un giocatore di quella stazza e di quella versatilità nella NBA di oggi, pensa il management di OKC. Il discorso Harden viene rimandato all’estate, nella quale il giocatore, diventato ormai personaggio planetario grazie al grande talento e alla lunga barba, vince l’oro alle Olimpiadi di Londra da protagonista con Team USA.

I Thunder, adesso, non possono più offrirgli il contratto al massimo salariale che pretende; e, dopo un’offerta rispedita al mittente, lo impacchettano in fretta e furia al miglior offerente, gli Houston Rockets. In cambio Oklahoma acquista un ottimo giocatore come Kevin Martin, un giovane come Jeremy Lamb e una scelta al prossimo draft; ma soprattutto, perde quella verginità sportiva che la aveva accompagnata fin lì, trovandosi di colpo proiettata nella dura vita dei “grandi”.

Guardando la classifica della Western Conference, lo scisma del Barba non sembra aver modificato più di tanto le cose: gli uomini di coach Brooks sono sempre ai vertici, a solo mezza partita di svantaggio dai (manco a dirlo) San Antonio Spurs. Ma se analizziamo al microscopio il rendimento della franchigia, ci accorgiamo che i cambiamenti ci sono stati, eccome: e non è detto che siano in positivo.

Il gioco della squadra è ancor più imperniato sul duo Durant-Westbrook, cavalcando gli isolamenti del Divino e le giocate elettriche e anarchiche della Dinamite col numero 0. L’assenza di Harden, che portava un “diversivo” dalla panchina col Barba a mettere ordine e a impostare i pick&roll col fido Collison, rende ancor più marcato questo limite tattico di Oklahoma; l’esatto contrario della filosofia del “tutti per uno, uno per tutti” di quegli Spurs che, almeno sulla carta, sono il modello da seguire.

Il tutto in un’era di ormai dilagante concezione di un basket “small-ball” con quintetti piccoli e veloci, in cui la scelta di privarsi di un talento cristallino come Harden (che non a caso sta guidando i Rockets ai playoff con cifre da assoluto fuoriclasse) per puntare su un lungo, seppur bravo e futuribile come Ibaka, appare ancor più anacronistica.

Senza contare il fatto che la cessione ha costretto coach Brooks a cercare un assetto totalmente diverso per la second unit: al posto del Barba e dei suoi giochi a due è arrivato Martin, che deve essere armato sul perimetro con spaziature e passatori di livello.

Ma l’aspetto in cui la squadra sembra più carente, e qui emergono i demeriti dell’allenatore, è l’approccio globale alla partita: non che i Thunder siano una squadra pigra e presuntuosa, tutt’altro. Il loro difetto più grande è quello di prendere di petto ogni situazione della partita, non conoscendo altro verbo al di fuori di assalti all’arma bianca e di corse a mille all’ora.

L’esempio lampante è venuto proprio dalla recente vittoria contro (si, sono sempre loro) gli Spurs: Oklahoma ha impostato la gara su ritmi vertiginosi, insostenibili per gli uomini di Popovich; ma una volta costruito un margine di ben 20 punti di vantaggio (cifra toccata per ben due volte in momenti diversi della gara), la squadra non ha saputo prendere il controllo del match, continuando imperterrita a cavalcare un “run&gun” che una volta sbloccatosi l’attacco ospite e una volta prese le misure da parte della difesa dei bianconeri ha permesso agli avversari (privi, tra l’altro di Ginobili e di Parker per buona parte del match) di rientrare in partita.

Sembra essere proprio questo il grande limite di un gruppo dal talento enorme, ma che a volte perde la bussola per la sua troppa esuberanza.

Dopo un percorso di crescita graduale e la sconfitta al primo ingesso nelle Finals dello scorso anno, è rimasto solo un gradino da salire: l’ultimo, quello più impervio, che separa i grandi giocatori dai campioni.

Ma la corsa all’anello sembra assai difficile anche quest’anno, forse più che in quello passato: l’era Thunder a tinte Spurs sembra essere finita, ed è arrivato il momento in cui a Oklahoma dovranno dimostrare di saper camminare con le proprie gambe.

Riusciranno coach Brooks, il Divino Durant e Dinamite Westbrook a superare la prova? Il loro GM aspetta e ci spera: il tempo ci dirà se i suoi faranno l’impresa, e se magari sarà lui a riscrivere le regole del gioco dettando la filosofia di Presti, senza più prendere in prestito quella dei suoi maestri.

One thought on “I Thunder e le contraddizioni di Presti

  1. Presti ha il tocco magico quando si tratta di DRAFT: se in tre anni selezioni Jeff Green (il suo valore lo vediamo adesso a Boston), Durant (forse ha avuto la fortuna della n2 e non il dubbio con Oden che la n1 portava con sè) ma con Westbrook e Harden ha fatto due capolavori, con Ibaka un altro gran colpo.

    La squadra è giovane e futuribile, potenzialmente tra 4-5 anni potrebbero essere ancora quelli, il tempo ci dirà se vincenti o no. Sulla scambio che ha portato Hraden ai Rockets io resto dell’idea che la scelta non fosse tra lui e Ibaka, giocatore dal ruolo diverso, ma tra lui e Westbrook.

    Harden, Durant e Westbrook troppo forti per poterseli permettere assieme. Presti e staff tecnico hanno stimato Westbrook potenzialmente più decisivo del barba e hanno deciso di sacrificare il secondo.

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