Fate conto “Major League”, comedy dell’89 di David Ward. Uno dei pezzi inclusi nella soundtrack si chiama “Pennant Fever”, ed è riprodotto nella scena in cui il coach degli Indians visiona ad uno ad uno i propri giocatori, rilevando in ciascuno qualche caratteristica peculiare, per non dire estremamente problematica.
Ora immaginate questa canzone come ideale colonna sonora di una sequenza su alcuni allenatori NBA di questa stagione, anch’essi tratteggiati-dileggiati omericamente con un (semiserio) epiteto distintivo. Cominciamo.
Didi & Gogo
Come nell’opera di Beckett, ogni tanto ci si ritrova ad aspettare un deus ex machina che forse (ormai probabilmente, dopo 70 partite) non arriverà mai; è il loro caso, anche se ovviamente i risultati conseguiti dalle rispettive squadre sono stati parecchio diversi.
Tom Thibodeau, Chicago Bulls: ha mantenuto la squadra competitiva almeno per il fattore campo al primo turno e non ha mai dato l’impressione di dipendere dal ritorno di Rose, nonostante gli spot trasmessi a frequenze elettorali, approfittando anzi dell’assenza del leader per responsabilizzare maggiormente i suoi, da Deng (primo giocatore NBA per minuti), a Noah, al nostro Belinelli, neofito del club dei clutch shooters, e per rafforzare la difesa, terza della Lega dopo quelle di Memphis e Indiana. Ah, e in estate gli avevano anche accorciato la rotazione cedendo metà panchina. Voto 8
Doug Collins, Philadelphia 76ers: al contrario del collega, ha sofferto eccessivamente l’assenza di un Bynum che, empatico verso le proprie ginocchia e verso il proprio portafogli, probabilmente fluttuerà per Philly senza giocare nemmeno un minuto in maglia Sixers (e ricevendo per questo pochissimo Amore Fraterno), e non è più riuscito a motivare la sua squadra dopo la pausa (13 sconfitte su 15).
Ha dei motivi per rallegrarsi: Holiday, i due Young, Hawes e Turner sono ancora lontani dal proprio prime; e, comunque vada, non si troverà mai ad allenare una versione dei Sixers scarsa come quella che lo scelse da giocatore. Voto 5-
I Giobbe
Qui appartengono i più vessati dalla sorte o dalla propria dirigenza, sostenuti dalla fede… o più probabilmente dalla speranza nella Lottery e nella Free-Agency.
Jacque Vaughn, Orlando Magic: diciamocelo, l’ex play ed assistente degli Spurs, alla prima esperienza, non avrebbe potuto aspettarsi altro: d’altronde la sua firma per i Magic, 28 luglio, è stata di poco successiva all’addio del GM Otis Smith e contemporanea alla trade che ha coivolto Superman, Bynum e Iguodala,portando a Disneyland… nessuno dei tre.
Viva i tagli al salary cap e viva il tanking, si era pensato, e in effetti sì, da Natale in poi la casella delle W ha vissuto un lieve periodo di magra, portando la squadra al secondo peggior record, però all’inizio la squadra aveva sorpreso molto, forse punta nell’orgoglio dai pronostici, e grande merito era stato attribuito proprio a Vaughn; detto questo, il record è troppo negativo per una sufficienza. Voto 4 ½
Rick Carlisle, Dallas Mavericks: se il karma di un anello NBA fosse vedere smantellato nel giro di un anno il proprio gruppo, chiudendo così una striscia di 12 partecipazioni consecutive alla post-season, verrebbe da chiedersi chi giocherebbe più per vincere alcunché. Va sottolineato come il mancato ritorno a casa di Deron Williams abbia sorpreso la gran parte degli addetti ai lavori, ma questo non può trattenere copiose inarcate di sopracciglio se si pensa all’operato di Cuban degli ultimi due anni; vero anche che Carlisle è apparso confuso quanto la propria dirigenza, ruotando un numero imprecisato di quintetti e non correggendo la difesa, quartultima per punti concessi. Se poi viene meno la solidità delle ginocchia teutoniche, la tavola di una stagione fallimentare si può dire apparecchiata; la sensazione è da fine di un ciclo. Voto 5
Rick Adelman, Minnesota T-Wolves: cosa può portare sulla soglia di un crollo nervoso più di un incarico nel Ground Zero di Orlando o della fine di un ciclo come in Texas? Certamente trovarsi per le mani un’ottima squadra falcidiata dagli infortuni. I primi due mesi di stagione erano stati la luna di miele di un gruppo ottimo per profondità, gioco e “internazionalità”, ma da gennaio il Vajont ha ceduto di schianto in un’ecatombe di cartilagini: Love (fratturatosi la mano addirittura due volte), Roy, Lee, Kirilenko, senza considerare l’iniziale assenza di Rubio. Visti i presupposti era difficile pensare ad un piazzamento lontano dal fondo della Western per i malcapitati T-Wolves. Nonostante tutto, nettamente il miglior basket fra squadre con un record pesantemente in rosso. Voto 5 ½
George Harrison e Ringo Starr
Potranno vincere 5 anelli o riscrivere i libri dei record, ma da South a Venice Beach si sentiranno solo frasi del tipo: “Si scrive Spoelstra, si legge Riley”, “E’ l’unico che allena senza chiamare un gioco, tanto ci pensa CP3”, “Se Paul non rinnova, fa prima a buttarsi a mare con un blocco di cemento legato a una caviglia”, “James, Wade e Bosh, comoda la vita dell’allenatore!”, “Gli hanno costruito una rotazione infinita, Crawford, Odom, Bledsoe, ci mancherebbe altro che non vincesse”, eccetera.
Erik Spoelstra, Miami Heat: oltre ad essere campione in carica, fatto di non poco conto direi, ha portato la sua squadra ad essere la prima qualificata ai playoff, prima ad Est con un abisso di vantaggio, autrice della più lunga striscia stagionale di vittorie (ancora aperta a 25 e seconda all-time), la probabile detentrice del fattore campo e prima per vittorie casalinghe. E ci sono altri fatti innegabili: i Miami Heat ora giocano molto meglio, sono nella top 10 sia in attacco che in difesa, non vivono di isolamenti come in passato, e corrono molto di più; a qualcuno andrà attribuito del merito per questo… Voto 8+
Vinny Del Negro, Los Angeles Clippers: probabilmente la prima stagione da 50 vittorie nella storia ultra-quarantennale della franchigia, probabilmente il primo titolo divisionale nella storia della franchigia, e, ciò che più conta, probabilmente il maggior scarto sui cugini gialloviola nella storia della franchigia! Per non parlare della seconda striscia vincente più lunga dell’anno (17 di fila). D’altro canto i Clippers non chiamano davvero un gioco che sia uno, neanche per sbaglio, palla a Paul, palla a Crawford. La vera sfida sarà vedere la salute di CP3 e riuscire a gestire la rotazione lunga da aprile in poi. Voto 7
I malcapitati immaginari
Si sono trovati per le mani una supposta patata bollente, e si sono dimostrati più che semplici traghettatori ad interim, disinnescando la bomba e tenendo le rispettive squadre in zona playoff.
Jim Boylan, Milwaukee Bucks: è riuscito dove Skiles non era fisicamente in grado, sciogliendo le briglie in attacco alle sue due guardie, Jennings ed Ellis, e favorendo una circolazione più fluida; già questo lo rende meritevole di una conferma. L’aver scoperto in Larry Sanders uno dei migliori intimidatori della Lega, e l’aver recuperato un Ilyasova irriconoscibile non fa che aumentare i suoi meriti; peccato per la probabile carneficina che subiranno dagli Heat al primo turno. Elastico. Voto 7
PJ Carlesimo, Brooklyn Nets: Avery Johnson non è sopravvissuto alla prima crisi sotto gli occhi dei vitriolici media della Mela, ed ha lasciato il suo vice in una polveriera. Ma, Sprewell a parte, Carlesimo can handle everything. Varando il nuovo quintetto con Evans titolare, ha abbassato il ritmo della squadra, risolvendo alcuni iniziali problemi difensivi, più gravi nei lassi di coesistenza fra Williams e Watson. E con D-Will stesso (piccato per la mancata convocazione All-Star) in crescita dopo la pausa,oltre a Lopez e JJ sempre solidi, i Nets potrebbero giocarsela con tutti ad Est, Heat esclusi. Voto 7
I giacobini
Come una volta le ribellioni delle colonie inglesi rappresentarono un role model per gli europei, oggi dei coach USA prendono esempio dal gioco di area FIBA, intensificando massivamente il numero di triple, cosa che sta portando le loro squadre a frantumare ogni tipo di record in termini di bombe, e i risultati sembrerebbero dar loro ragione.
Mike Woodson, New York Knicks: smentendo tutti I detrattori, l’ex allenatore di Atlanta è riuscito a tirare fuori il massimo da Melo, mai così altruista e concentrato, e a dare un ruolo a Stoudemire, inizialmente infortunato, riciclandolo come sesto uomo di lusso. I problemi sono: la più alta età media della Lega, e i prevedibili reumatismi scaturenti da questo, e le ginocchia delle stelle, infatti al momento Anthony, Stat e Chandler sono tutti fermi o in dubbio. Cali primaverili a parte, i migliori Knicks da eoni a questa parte, e accorgimenti come l’utilizzo consistente di 3 point guards in rotazione (Kidd, Felton e Prigioni) troveranno certamente degli emulatori. Voto 8
Kevin McHale, Houston Rockets: qui c’è il trucco. Sì, perché se a pochi giorni dalla prima palla a due non fosse arrivato il Barba, Houston avrebbe avuto più di un problema, e oggi staremmo parlando di un gruppo tanto giovane e futuribile quanto certamente pronto per le vacanze fra 4 settimane. Invece la presenza di Harden non solo ha dato concretezza immediata al progetto di Morey, ma ha anche fatto parzialmente dimenticare il clamoroso scialacquio Lin, pura mossa di marketing in mezzo a tante scelte intelligenti come Parsons e Asik. Va inoltre sottolineata la grande professionalità dell’ex Celtic nel tenere duro nonostante la morte della figlia. Voto 7+
Il back to 92
Doc Rivers, Boston Celtics: ora, Jeff Green e Rajon Rondo non sono Reggie Lewis, né tantomeno Len Bias. Però, per ragioni diverse (aneurisma dell’aorta e rottura del crociato anteriore), per il secondo anno di fila una delle nuove leve è venuta meno, e il peso di tutti gli irlandesi si è nuovamente riversato sul restante doppio terzo dei Big Three, ovvero il Capitano e KG, ancora fantastici nel loro attaccamento alla maglia.
E questo ha riportato alle ultime primavere di quell’altro leggendario trio bostoniano, stremato in un limbo di metà classifica, attorniato di giovani sfortunati e/o non sul livello dei predecessori; in effetti la posizione di classifica è grosso modo quella, e l’atteggiamento sembrerebbe esserlo. Indizio circostanziale è la persistenza di Doc nel tenere Green nel ruolo di sesto uomo, pur essendo l’ala da Georgetown palesemente il più in palla dopo l’infortunio di Rondo, come dimostrato dai 43 scritti contro gli Heat e il canestro vincente contro i Pacers. Poi magari arriverà anche l’upset al primo turno, ma la strada verso il rinnovamento dovrà prendere comunque una piega più netta, perché i mezzi ci sono, a roster integro. Voto 6+
I vinti e convinti
Gregg Popovich, San Antonio Spurs: inossidabile fin nel midollo, Pop ha già ottenuto la sedicesima stagione consecutiva da almeno 50 vittorie, riuscendo a mantenere la testa della Western anche senza Parker, fuori per altre due settimane causa caviglia sinistra. Il tutto perfezionando la transizione dei suoi Spurs da squadra difensiva, triplofoba (specialmente in contropiede, dove il rimbalzo d’attacco è arduo), a squadra da corsa, capace di avere sette uomini diversi da almeno nove punti a partita.
È un cambiamento che può ricordare, per certi versi, quello attuato dai Lakers di metà anni ’80, con Duncan novello Kareem, lungo attempato bisognoso di lunghe pause, ed il franco-belga nei panni del Magic di turno (con le dovute precauzioni, of course); se il paragone non avrà solo la stessa forma, ma anche la stessa sostanza (l’anello), è il grande quod erat demonstrandum texano delle ultime stagioni, tutte conclusesi con sconfitte ai playoff amare non meno che sorprendenti, o per l’avversario (Suns 2010, Grizzlies 2011) o per le modalità della sconfitta (Thunder 2012), dopo stagioni regolari eccellenti. PS: Kawhi Leonard è uno dei più clamorosi steals degli ultimi anni. Voto 9
George Karl, Denver Nuggets: come McHale, ha dovuto affrontare problemi ben più gravi delle trappole di una stagione NBA, un cancro alla gola ed al collo (sebbene comunque JaVale non sia un problema da poco). Eppure, più di ogni altra stagione sta riuscendo a sublimare la sua idea di “comunismo” cestistico (da vero e proprio George Karl “Marx” del gioco), tiri e minuti distribuiti omogeneamente su tutta la rotazione (in otto sopra gli otto a partita), e più di ogni altra stagione i suoi ragazzi possono puntare in alto, tanto da spingerlo ad azzardare un pronostico: “saremo i primi a vincere il titolo senza un All-Star”; forse prematuro, forse improbo, ma non del tutto campato in aria, soprattutto dopo questa striscia di (al momento) 13 successi di fila, overshadowed da quella di Miami ma comunque ragguardevole.
Bisognerà vedere se le difficoltà di inizio anno (attribuibili in gran parte ad un calendario complesso) siano state superate del tutto, ma in ogni caso, se di delusione si tratterà, sarà solo perché un lato dell’NBA è troppo democratico e uno troppo poco. Voto 9-
Scott Brooks, Oklahoma City Thunder: non è facile trovarsi da un giorno con l’altro senza uno dei tuoi tre creatori di gioco (peraltro quello con la palla più in mano negli ultimi minuti), se l’isolamento è la tua scelta principe, per non dire l’unica. Predetto da molti in precoce declino insieme alla sua squadra, Brooks ha reagito alla partenza di Harden sfruttando al meglio le risorse disponibili e iniziando a diversificare il proprio attacco.
Oltre alla crescita dei due mostri, KD e Westbrook, che non credo sia prematuro definire la miglior coppia di sempre sotto i 25, miglioratissimi soprattutto nella distribuzione di palla (+ 3.1 assist e -0.35 palle perse complessive), sono state fondamentali l’integrazione di Martin, molto meno trattatore di The Beard ma molto più efficace nel catch-and-shoot e nel gioco sui blocchi, e il maggior coinvolgimento di Ibaka. Air Congo si è costruito un gran tiro dai 4 metri, sia piazzato che dal palleggio, il che, unito alle doti atletiche, lo rende un attaccante obbligatoriamente rispettato da ogni difesa.
È quindi tangibile sotto tutti i punti di vista il lavoro del coach; gli rimane una sola matassa da sbrigliare: farsi passare gli Heatache sofferti contro LeBron & co. In caso di sopravvivenza fino a giugno avrà la possibilità di provarci. Voto 8 ½
Frank Vogel, Indiana Pacers: non bella ma efficace, Indy ha saputo assorbire e l’assenza prolungata del miglior realizzatore Granger (il cui infortunio si è ulteriormente aggravato dopo il tentato rientro) e l’involuzione offensiva di Hibbert, innestando le marce alte dopo le prime venti, stentate uscite. Vogel ha saputo impostare una difesa ferrea, fatto peraltro inusuale per una squadra dal nucleo giovane.
Un po’ meno inusuale se si pensa al miglior giocatore del roster, Paul George, uno swing man di 22 anni, non sempre continuo nelle percentuali ma efficace per versatilità ed atletismo. I Pacers non sembrerebbero essere, per quest’anno, sullo stesso piano di Miami, ma questa non è una formazione costruita per vincere da subito. Voto 9-
Lionel Hollins, Memphis Grizzlies: senza mezzi termini, il mio Coach of the Year. Con i suoi autori di una partenza lampo e sempre vicini ai vertici occidentali, ha visto la nuova (un po’ genovese) dirigenza smerciare in Canada il miglior realizzatore della squadra, Rudy Gay; eppure ha trovato le soluzioni giuste per confermarsi fra le migliori cinque, con fondate velleità di terzo posto, rinforzando ulteriormente la già miglior difesa d’oltreoceano, forte di uno dei migliori ladri di sfere in Conley ed un intimidatore ciclopico in Gasol, con le contropartite della trade, in particolare Tayshaun Prince.
L’unico momento di sbando sono state le settimane immediatamente precedenti allo scambio, che hanno evidenziato qualche saltuario difetto offensivo (qualche…) nell’attacco dal palleggio e nella circolazione; ma con due certezze in mezzo come Randolph e Gasol i mezzi per fare strada nella postseason (dove il gioco rallenta) ci sono eccome. Voto 9+
Perdere e perderemo
Tanking doveva essere, tanking è stato. Be’, in effetti non c’è molto altro da dire:
Lawrence Frank, Detroit Pistons: inzio pessimo, poi una lieve ripresa salva-faccia. È stato chiuso definitivamente ogni rapporto con la Motown di Brown e Saunders per mezzo della cessione di Prince, dall’anno prossimo si punterà sulla coppia Monroe-Drummond, inspiegabilmente sottoutilizzato, come Jerebko, decisioni opinabili che non spingono certo verso una riconferma. Voto 4
Randy Wittman, Washington Wizards: partenza sulla falsa riga dell’anno scorso, seguita da un gran miglioramento al ritorno di Wall, finalmente all’altezza del suo talento. Lui e Beal faranno onde insieme. Voto 5-
Keith Smart, Sacramento Kings: un anno diviso fra le lievi intemperanze di Cousins e le ombre striscianti del trasloco a Seattle, bene ma non benissimo. Da rivedere le valutazioni al Draft (Robinson già ceduto, Fredette o Adam Morrison 2 la vendetta bidone in panchina) e tutte le direzioni da prendere. Voto 4-
Monty Williams, New Orleans Hornets: la prossima volta che Gordon chiede di essere ceduto, meglio ascoltarlo; misteriosa la gestione dei rookie, Davis centellinato e Rivers in quintetto poi sepolto vivo in panchina (l’errore è stato metterlo in quintetto). Almeno ha dato spazio a un potenziale Most Improved come Vasquez. Voto 4
Byron Scott, Cleveland Cavs: dopo l’infortunio di Varejao ha puntato quasi esclusivamente sullo zoccolo giovane, capitanato ovviamente da Irving, con il solo intento di ingolosire qualcuno in vista della prossima estate (riferimenti casuali). Lo strano è che, nonostante ci siano stati molti apprezzamenti per i singoli, la squadra ha continuato ad incassare male; forse qualcosa non va… Voto 4 ½
Mike Dunlap, Charlotte Bobcats: stuzzicadenti da spezzare a suo favore, ha vinto più del doppio delle partite dello scorso anno. Voto 3
Sorprese
Larry Drew II, Atlanta Hawks: il fantasma di un anno 0 che infestava la Georgia, con il franchise player degli ultimo sette anni, Joe Johnson, partito alla volta di Brooklyn, e Josh Smith in odore di trade ad ogni piè sospinto, dopo esser stati, fra il 2009 e il 2011, una delle sole 3 squadre sempre almeno in semifinale di conference; invece la stagione vissuta nella capitale della Coca-Cola non può che essere definita solida, nonostante l’infortunio del microwave Lou Williams a metà campagna e le continuate voci di scambi.
Gli Hawks non fanno cose eclatanti in nessuna metà campo (quindicesimo attacco e dodicesima difesa), ma danno l’impressione di una formazione collaudata, e atto di questo va certamente dato a Drew. Che poi ad un esame del roster si vedono: due grand giocatori (Horford e Smith, finché resta), due point guard solide (Teague, molto cresciuto, e Harris), il già citato Williams, un difensore ed un tiratore di livello (Stevenson e Korver). È un contesto dove, con la star giusta, si potrebbe puntare veramente alto…. E forse addirittura far venire qualcuno alla Phillips Arena. Voto 7
Terry Stotts, Portland Trail Blazers: i complimenti vanno ai preparatory più che a lui! Perché tirare fino alla fine un quintetto supportato, si fa per dire, da una panchina indegna, non è un’impresa facile, e pazienza se per quest’anno l’unica fonte di beveraggio playoff in Oregon sarà ESPN e non il Rose Garden.
Il peccato originale di una profondità inesistente, appunto, e la mancanza di un centro vero, con buona pace di JJ Hickson, hanno precluso risultati di maggior rilievo; i nomi da cui ripartire ci sono: Aldridge (apparentemente ultimo erede della nobile stirpe delle power forwards da 20+10, insieme forse a Griffin), Lillard (Rookie dell’anno già ai nastri di partenza), e Batum, sovrappagato (46 milioni per 4 anni), ma ottimo all-around di complemento. Voto 6 ½
Mark Jackson, Golden State Warriors: il terzo assist-man di sempre sta riuscendo in un’impresa semi-titanica, portare un gioco nella Baia. Sia chiaro, non del tutto depurato dal Nellie-Ball (settima in tiri per possesso), ma certamente più assennato e bilanciato. E chissà che i tempi del “we believe”, con tanto di Jessica Alba in maglietta gialla, non possano tornare nel giro di qualche anno.
Sì, perché Golden State dispone del backcourt più futuribile (Curry e Klay Thompson) insieme a quello di Washington, backcourt con licenza di tirare da fuori as much as they can (13.8 triple tentate a partita); questo, unito alla stagione da All-Star di Lee, all’esordio promettente di Barnes, e ad una delle panchine più efficaci, guidata da Jack e Landry, ha prodotto una stagione inizialmente addirittura esagerata, rallentata nell’ultimo mese e mezzo dall’evidente intolleranza del gruppo ai ritorni sempre più singhiozzati e singhiozzanti di Bogut.
Il centro australiano-croato, caviglia cagionevole se ce n’è una, è un elemento di forte contrasto per il gioco up-tempo della squadra, e più saltuari sono i suoi rientri, più è controproducente l’effetto. Certo, se la classifica dovesse contrapporre GS a Memphis, come sta facendo, la sua presenza contro il duo Rndolph-Gasol sarebbe una panacea. Voto 7 ½
Tyrone Corbin, Utah Jazz: è strano valutare come sorpresa positiva una squadra che, numeri alla mano, sta facendo peggio dello scorso anno; è che i Jazz mi avevano stupito non poco nella passata stagione, e tutto mi sarei aspettato fuorché una quasi ripetizione dell’impresa nel 2013.
I dubbi sulla franchigia preferita tifata del 99% dei mormoni sorgono soprattutto per lo sbilanciamento del roster: nello Utah si sta assistendo ad un vero e proprio over-booking di lunghi, Jefferson, Millsap, Favors e Kanter, tutti ottimi giocatori, tutti un po’ sacrificati per la concorrenza, specialmente il terzo, uno dei migliori talenti giovani a mio avviso, e ancora limitato nel minutaggio dopo le performance pirotecniche contro gli Spurs della scorsa primavera. Insomma, complimenti per non essere implosi del tutto; poi non si sa mai che i Lakers decidano di suicidarsi per la cinquantatreesima volta in stagione. Voto 6 ½
Le invincibili armade
Come Filippo di Spagna imparò a sue spese nel 1588 quando si era convinto di poter riconvertire a forza gli inglesi, è sempre meglio tenere un profilo basso, perché come diceva il conte Dooku ad Anakin: “a doppia superbia doppia caduta” (salvo poi farsi decapitare due minuti dopo, avvalorando la propria tesi); ecco, le dirigenze di queste squadre avrebbero fatto meglio ad abbassare le aspettative:
Dwane Casey, Toronto Raptors: ad inizio stagione mi è capitato di leggere: “se i Raptors non vanno ai playoff con questa squadra…”. Non ci vanno, e la cosa non mi pare, francamente, uno scandalo. Forse se fosse arrivato il vero canadese, Steve Nash, la marea sarebbe potuta cambiare, ma non essendo avvenuto ciò, il livello non si è particolarmente alzato.
D’altronde, né Kyle Lowry né Landry Fields possono cambiare volto ad una franchigia, e purtroppo nemmeno un Bargnani in salute può, figuriamoci poi se non lo è. Certo la trade Gay potrebbe aver aperto nuovi spiragli, sebbene la convivenza con DeRozan possa essere più complicata di quanto si immagini. L’avvicendamento di Casey sembra una soluzione probabile. Voto 4
Alvin Gentry/Lindsey Hunter, Phoenix Suns: quando vengono pareggiate le offerte al restricted free agent su cui si era puntato è sempre un brutto presagio. Infatti, la stagione dei Suns è finita prima di iniziare nel momento in cui gli Hornets hanno deciso di trattenere Eric Gordon in Louisiana, trasformando entrambe le franchigie nei 2 piccioni presi nella fava di una stagione da dimenticare.
Non è stato l’unico problema: uno può essere la presenza un po’, come dire, deteriorante, di Michael Beasley (uno già sospeso al rookie camp per possesso di marijuana, ricordiamo), e soprattutto, direi, la mancata esplosione di Goran Dragic, prospettato in una breakthrough season nei sondaggi di ottobre, e molto sotto le attese. In poche parole non è l’anno di Hunter, catapultato su una nave alla deriva ed esautorato di tutti i poteri dall’Unione Giocatori. Voto 3
E infine una prece per gli:
“Stai al nostro roster come Reagan alle democrazie centroamericane, ma a parte questo credo che te la caverai da noi”
Mike Brown e Mike D’Antoni, Los Angeles Lakers: Jim Buss ha delle visioni sconosciute al resto del genere umano. O è così o ha veramente deciso di fare la squadra come l’album delle figurine affidandola poi a due coach evidentemente inadatti al ruolo. E non solo: ha anche deciso di operare il cambio in panca dopo sole 5 partite (1-4). Sarà stata sbagliata solo la tempistica?
No, quella è quasi il meno, considerato l’unanime sostegno dell’universo Lakers al governo PJ parte terza, sostegno prontamente ignorato dal rampollo in favore di D’Antoni, con Kobe costretto a mugugnare “avevo detto Jackson, ma quando ho saputo della disponibilità di Mike, sono stato felice come una Pasqua!” (sì…).
E per il nostro Mike non deve essere stato facile, fallito l’esperimento small ball (con World Peace ala forte e Gasol dalla panchina), trovarsi sulla panchina più spinosa e chiacchierata del globo a predicare una pallacanestro in cui non crede, penalizzato dai vari acciacchi del Mamba, di Pau (fermo ormai da 2 mesi), di Howard e di Nash.
Considerate le attenuanti, le sue responsabilità non possono essere comunque tralasciate: le saltuarie denaftalinizzazioni di Jamison e l’eslclusione di Gasol (non un incentivo ad accelerare i tempi di recupero) denunciano il peggior difetto di un coach, cioè la totale incapacità di adattare gli schemi agli uomini. E non dimentichiamo il fatto che con gran probabilità assisterà all’eliminazione prematura di una squadra costruita per dominare. Voto 4
freshman di lingue a milano, a 11 anni si ammala gravemente di NBA grazie a LeBron James (fino a the Decision) e Kevin Garnett; il suo sogno è fare il giornalista sportivo
non avrei messo i voti personalmente, perchè penalizzano troppo gli allenatori di squadre come Nola, Orlando e Charlotte, comunque buon articolo…
Bell’articolo, secondo me alcuni allenatori sono parzialmente se non totalmente giustificati dalle mosse della dirigenza che gli dà in mano giocatori scadenti e scontenti e gli obbligano a tankare (Vaughn su tutti) e quindi tanto di più non potevano tirare fuori.
Considerazione personale: Frank fa’ giocare i “bidonacci” albatros come Bynum e Villanueva per poterli scambiare e non dover pagare buyout a destra e a manca. Così salvaguarda il fisico e inserisce gradualmente i giocatori del futuro su cui rifondare: Drummond, Stuckey, Jerebko; credo che il prossimo anno ci sarà molto più spazio per loro.