“Ho una vita da shogno” direbbe il Briatore di Crozza. Ma potrebbe benissimo essere la sintesi perfetta della vita di Kobe Bryant.
Qualche tempo fa, subito dopo il raggiungimento del traguardo che tutti ben sappiamo, è uscito un articolo che ricapitolava i vizi e i vezzi di un autentico campione. Auto, case, contratti pubblicitari e tanti tanti soldi. Ma lasciando perdere il lato materiale dell’esistenza del numero 24 dei Lakers, fiondiamoci direttamente su quello leggermente più pratico, professionale ecco.
Sì, perché il nostro protagonista si è ufficialmente unito alla cerchia ristretta di giocatori che hanno fatto la storia di questo sport, ma non solo per il record (Milestone, come lo chiamano oltre oceano), ma perché in questi lunghi quindici anni ha dimostrato di meritarsi tale onorificenza, lavorando sodo tanto da diventare uno dei migliori di sempre.
Eppure, quando lo si vedette in campo per la prima volta (era il 3 novembre del 1996, contro Minnesota) non sembrava potesse arrivare ai livelli di oggi.
Per questo gli Hornets decisero di non puntare su di lui e lo spedirono a Los Angeles non appena fu scelto con la tredicesima chiamata assoluta al Draft di quello stesso anno, in cambio di Vlade Divac.
Fu Jerry West a volerlo perché vide in lui quello che molti altri non riuscirono a vedere e cioè, un immenso talento. Sarà stato per il fatto che Kobe proveniva direttamente dall’high school e all’epoca non era ancora partito il boom che avrebbe portato un’ondata di liceali nella NBA, perciò non era visto di buon occhio, nonostante i precedenti di Moses Malone e Kevin Garnett l’anno prima. Era valutato come un giocatore ancora troppo acerbo e, in effetti, non avevano tutti i torti.
L’inizio di stagione non fu dei più brillanti. Nonostante facesse vedere già le sue qualità offensive, Bryant veniva spesso relegato in panchina, giocando pochi minuti, senza quasi mai toccare la doppia cifra nei punti segnati. Addirittura, il suo primo punto non avvenne nemmeno dal campo, bensì su tiro libero contro i Knicks nella seconda partita stagionale (5 novembre 1996).
Bisogna aspettare più di dieci minuti di gioco per vederlo segnare il primo canestro su azione, proprio contro la squadra che lo aveva “scartato” lo scorso giugno. Quegli Charlotte Hornets a cui rifila solo 5 punti, ma 5 punti significativi. Durante i primi due mesi le prestazioni del numero 8 seguono il percorso delle montagne russe, siglando un massimo di 21 punti in due occasioni, ma nulla più.
Il rapporto con coach Del Harris inizia ad incrinarsi sin da subito. Kobe è abituato a ben altri trattamenti. Alla Lower Merion High School era una celebrità e al ballo si presentò niente meno che con la cantante R&B, Brandy. Insomma, il suo posto in panchina a favore del ben più apprezzato Eddie Jones gli iniziava a stare un po’ stretto. Ma Bryant non fiata e va avanti per la sua strada.
Viene convocato per il Rookie Challenge all’All-Star Game di Cleveland in cui diviene anche il giocatore più giovane della storia a vincere lo Slam Dunk Contest. Questo successo lo galvanizza, tanto che inserisce una serie di buone partite tra marzo e aprile (anche 24 punti contro i Warriors) che lo portano ad essere inserito nel secondo quintetto delle matricole, chiudendo la stagione con 7.6 punti, 1.9 rimbalzi ed 1.3 assist in 71 partite giocate.
I Lakers concludono con un bilancio di 56-26, arrivando quarti nella conference, guidati soprattutto da un personaggio che entrerà in scena dopo, un certo Shaquille O’Neal, arrivato l’estate precedente dagli Orlando Magic. L’avventura playoff si concluderà al secondo turno contro i Jazz, poi finalisti, ma Kobe fa vedere anche ottime cose, come i 22 punti contro Portland e i 19 nell’unica vittoria contro Utah.
Nella sua seconda stagione, il giovane Bryant riceve molti più minuti a disposizione e molta più considerazione da coach Harris, tanto che migliora visibilmente le sue prestazioni e le sue cifre a fine campionato (da 7.6 punti a 15.4).
Il suo minutaggio aumenta quando i Lakers giocano lo small ball ed è necessario farlo uscire dalla panchina per unirsi a Van Exel e Jones in quintetto. Tale progresso gli permette di concorrere per il premio di sesto uomo dell’anno e di partecipare alla gara delle stelle (tramite voto dei fan), divenendo anche qui il giocatore più giovane a partire in quintetto nella storia della manifestazione.
Nella stagione 1998-99, quella segnata dal lockout, Kobe aumenta ancora le proprie cifre, grazie al minutaggio che tocca i 37.9 a gara e, grazie anche alla cessione di due pedine fondamentali come Van Exel e Jones, parte in quintetto in tutte e 50 le partite. Tutto questo non fa altro che abbattere i dubbi, come se ce ne fosse bisogno, del GM Jerry West riguardo l’estensione del suo contratto.
Sul piatto vengono serviti sei anni a 70 milioni di Dollari, un vero investimento che lo legherà ai purple&gold fino al 2003-04. Kobe diventa milionario, ma i Lakers non ingranano, venendo eliminati dagli Spurs, poi campioni, con un secco 4-0.
E’ dopo questa ennesima eliminazione che West prende un’altra decisione. Via Del Harris e dentro Phil Jackson, sei volte campione con i Bulls di Jordan. Sarà questa la chiave che sbloccherà tutto.
Così, dopo solo tre anni nella lega, inizia la seconda parte della carriera di Kobe, quella vincente si intende. I Lakers conquisteranno tre titoli di fila, un abitué per coach Jackson, ma una nuova e grandissima soddisfazione per gli amici-nemici Bryant e Shaq.
Nella prima stagione sotto lo Zen Master, l’allora numero 8 incrementa ancora punti e minuti arrivando, rispettivamente, a 22.5 e 38.2. Cifre da ottimo secondo violino, tanto che viene inserito nel primo quintetto difensivo e nel secondo quintetto NBA. La marcia nei playoff è decisamente trionfale.
In finale, contro i Pacers, limita molto bene il veterano Reggie Miller e chiude con 13.0 punti di media, non tantissimi, ma sufficienti per accreditarsi il merito di aver condotto i suoi al titolo, disputando degli ottimi playoff.
La stagione seguente è quella della definitiva consacrazione nel basket che conta. Segna 28.5 punti a partita in 40.9 minuti. E’ la prima bocca di fuoco della squadra e non ci sta più a vivere nell’ombra dell’uomo con la maglia numero 34.
Il segnale forte arriva nella post-season in cui infila 29.4 punti a gara e nella finale contro i Sixers è il mattatore assoluto con due prestazioni sopra i 30 in cinque partite, ma il premio di MVP va ancora a Shaq.
E’ proprio il ruolo di spalla che non gli va più a genio e da lì, forse, iniziano i problemi di compatibilità nonostante i ruoli diversi. Anche le preferenze tattiche di Jackson tendono a favorire il suo centro nelle azioni offensive e questo Kobe non riesce a mandarlo giù.
Tra “scioperi del tiro” e dichiarazioni poco confortanti alla stampa, i tifosi dei Lakers, ma non solo, cominciano a temere per il suo futuro in California. Intanto, fa in tempo a vincere un altro titolo e questa volta con uno sweep ai danni dei Nets.
Bryant diminuisce considerevolmente le proprie cifre in stagione regolare, ma nei playoff è ancora una volta inarrestabile. Terzo anello di fila e tutte le voci su un suo addio per ora rinviate. Fatto sta che il suo rapporto con O’Neal continua a deteriorarsi sempre di più e presto si arriverà al punto di “O me o lui.”
Dopo l’eliminazione nelle semifinali di conference del 2003, per mano degli Spurs, il “nuovo” GM, Mitch Kupchak, prova a mettere su una squadra per tornare a vincere subito. Dalla free agency arrivano due veterani come Payton e Malone che il titolo non l’hanno mai vinto e vogliono avere un’ultima occasione per farlo.
Quindi, lo scomodo binomio O’Neal-Bryant, si trova circondato da due futuri hall of famer, una panchina profonda e abbastanza giovane, oltre che un allenatore esperto, navigato, ma soprattutto vincente. Ecco che, però, qui occorre aprire una parentesi che va al di là della palla a spicchi.
Mentre il trambusto regnava in quel di Los Angeles, Kobe si trovava in Colorado, ad Eagle per la precisione. Fu lì che, secondo le testimonianze della vittima e alcune prove non propriamente schiaccianti, la stella dei Lakers viene accusata di aggressione sessuale nei confronti della diciannovenne impiegata dell’hotel dove alloggiava, Katelyn Faber.
Le accuse sono pesanti, tanto che tengono Bryant lontano dai campi, fisicamente e mentalmente parlando. Alcuni suoi contratti pubblicitari vengono rescissi ed il matrimonio con la bella Vanessa (sua consorte dal 2001) viene messo a rischio.
Kobe si trova ad un punto cruciale della sua vita, non solo della sua carriera. Si sente a pezzi, alle partite arriva emaciato, stanco, consapevole che rischia di perdere tutto quello che ha. A fine anno gli scade pure il contratto con la squadra che gli rimane comunque vicina in un momento del genere.
Con il nuovo assetto, i Lakers volano, ma le cifre del numero 8 crollano rispetto all’annata precedente. Gli eventi giudiziari lo tengono lontano dal campo per 17 partite, mai successo prima. Fatto sta che, i giallo-viola, chiudono con un record di 56-26, secondo solo ai Timberwolves di Garnett, nella Western Conference.
Così, iniziano i playoff e per gli uomini di Phil Jackson incomincia anche la dura rincorsa all’anello. Kobe, messe da parte le vicende extracestistiche, torna a scatenarsi sul campo.
Contro Houston, al primo round, mette due prestazioni da 30 e più punti e i Lakers passano 4-1. In semifinale tocca agli Spurs, per la rivincita dei playoff precedenti. In questa serie succede di tutto, con San Antonio che vince le prime due in cui Bryant tira malissimo. Pure in gara-3 non è eccezionale anche se i Lakers vincono lo stesso.
Ma nella quarta partita, Kobe prende la squadra sulle spalle, mette 42 punti e pareggia i conti. Il nativo di Philadelphia prosegue la sua striscia di match sopra i 20 punti e contribuisce alla rimonta giallo-viola che chiude la serie in sei partite. Stesso destino per i Timberwolves in finale di conference e questa squadra sembra proiettata verso il titolo.
Nelle Finals dovranno affrontare i Pistons, decisamente inesperti e sfavoriti, ma qualcosa si rompe. L’apparente unità di squadra mostrata finora si sgretola con la coincidenza dell’infortunio occorso a Malone. Ma anche i singoli non rispondono al meglio.
Shaquille è l’ombra di se stesso e in alcuni frangenti viene persino dominato da Ben e Rasheed Wallace. Kobe regala un exploit in gara-2 con il tiro decisivo, ma nulla più. Hamilton e Prince non lo lasciano respirare. La stanchezza ha la meglio e tutto il castello di carte crolla. Detroit sconfigge i Lakers in cinque partite. Sarà l’inizio di una nuova era dalle parti dello Staples Center.
Dopo otto anni di convivenza turbolenta, la coppia O’Neal – Bryant si separa. Non c’è notizia che regga il confronto e la trade che ha portato il centro a Miami, in cambio di Lamar Odom, Brian Grant e Caron Butler, sconvolge il mondo sportivo americano.
Successivamente, Malone decide di ritirarsi, Phil Jackson si prende un anno sabbatico, mentre Payton saluta tutti e va a Boston. I Lakers sono passati da essere una squadra da titolo a rischiare di non entrare nemmeno nei playoff, situazione che neanche i più disfattisti avrebbero mai pronosticato.
Con questa squadra e con Rudy Tomjanovich in panchina, Bryant e compagni faticano ad ingranare, tanto che l’ex coach dei Rockets rassegna le sue dimissioni, a quanto dice per motivi di salute, ma potrebbe anche darsi che si sia fatto influenzare dalle parole del suo predecessore che definisce, nel suo libro, Kobe un giocatore decisamente “uncoachable”.
La franchigia viene affidata a Frank Hamblen, mentre i tifosi chiedono il ritorno di Coach Zen. Le cose, però, non cambiano più di tanto e i Lakers chiudono con un record di 34-48, peggiorando quello precedente di ben 22 vittorie. Per quanto riguarda Kobe, fresco di rinnovo settennale del contratto (per cui ha anche rifiutato i Clippers), conclude la sua stagione con 27.6 punti di media, 6 assist e 5.9 rimbalzi. Ma per la prima volta, non farà i playoff.
La stagione 2005-06 è una sorta di crocevia per la carriera di Bryant. Nonostante le passate divergenze con Kobe, coach Phil Jackson torna a sedersi sulla panchina dei Lakers, come molti avevano già pronosticato.
Bryant approva la mossa e le prime impressioni fanno sembrare il rapporto tra i due decisamente migliorato e di stima reciproca. Ma la parola definitiva avviene sul campo, in cui il numero 8 fa vedere cose strabilianti.
Deciso e convinto di riportare i suoi in post-season, segna punti a non finire, tanto che le volte in cui va sotto i 20 punti si contano sulle dita di una mano. E’ lui il vero leader, come dimostrano i 62 punti rifilati ai Mavericks il 20 dicembre. Ma la prestazione che rimarrà nella storia di questo sport, avviene il 22 gennaio 2006.
Di fronte ad uno Staples Center gremito, Kobe ne mette 81 in 42 minuti con un 28/46 dal campo che lascia tutti di stucco. Si tratta della seconda migliore prestazione di sempre, dietro a quella dei 100 punti di Wilt Chamberlain del 1962.
http://www.youtube.com/watch?v=besLzCqcqH8
Nello stesso mese, inoltre, Kobe diventa il primo giocatore dal 1964 a segnare 45 punti o più in quattro partite consecutive. Nel mese di gennaio fa registrare una media di 43.4 punti per partita, l’ottava più alta nella storia della lega e la più alta per un giocatore che non sia lo stesso Chamberlain.
Alla fine della stagione, la stella dei giallo-viola siglerà un nuovo record di franchigia per più partite (27) sopra i 40 punti e più punti segnati in una singola stagione (2.832), cosa che gli permette di vincere il titolo di miglior marcatore della NBA, per la prima volta in dieci anni di carriera, e di finire quarto nella graduatoria per il titolo di MVP.
Grazie alla sua annata stellare, i Lakers tornano ai playoff, ma vengono subito eliminati dai Suns, in sette partite.
Come annunciato durante il 2006, Kobe decide di cambiare il suo numero dall’8 al 24 che fu il suo primo numero di quand’era al liceo, stranamente molto vicino al 23 del suo idolo per eccellenza, quel Michael Jordan a cui è stato più volte comparato per come affronta la vita sul campo e per l’immenso talento naturale che ne hanno fatto due campioni in due ere diverse.
Un ritorno al passato, ma anche un balzo nel futuro non ancora propriamente roseo per i Lakers. Difatti la stagione dei purple&gold è decisamente sottotono, ma non perdente. La squadra chiude con un 42-40 che le fa ottenere il settimo posto ad Ovest e la rivincita con i Suns al primo turno.
La stagione di Bryant, invece, è esaltante. Viene convocato per il nono All-Star Game di fila e vince anche il titolo di MVP della manifestazione, segnando 31 punti con 6 assist e 6 rimbalzi. E’ la seconda volta che viene incoronato con tale onorificenza.
Stagione che, però, viene anche macchiata da qualche episodio non propriamente sportivo, come la gomitata rifilata a Ginobili e quella a Jaric (due gare di sospensione), tra l’altro due ex giocatori della Virtus Bologna, squadra in cui Bryant avrebbe dovuto militare lo scorso anno, per via del lockout.
Il lupo perde il pelo, ma non il vizio e il 9 marzo è la volta di Kyle Korver, ma questa volta viene punito “solo” con un flagrant. Insomma, un comportamento irriverente di cui Bryant è stato più volte protagonista nel corso della sua carriera, di cui molti avversari hanno approfittato, innervosendolo o aggredendolo fisicamente e psicologicamente. Ma, da grande professionista qual è, Kobe ha sempre continuato per la sua strada, senza dare molto peso alle considerazioni altrui.
Lo dimostrano i 65 punti segnati ai Blazers che aiutano i Lakers a chiudere la loro striscia di sette partite senza successi. Performance che supera quella dei 62 dell’anno prima, ma che si avvicina solo agli 81 di cui abbiamo parlato sopra.
La partita seguente ne mette 50 contro i Timberwolves, poi ne infila 60 ai Grizzlies, diventando il secondo giocatore della franchigia a fare ciò, dopo Elgin Baylor. Ma non è finita qui, perché il giorno dopo ne mette 50 anche contro gli Hornets. Un’apoteosi per lui che, per il secondo anno di fila, vince la classifica marcatori con 31.6 punti a gara. Ma nei playoff, i Lakers vengono ancora eliminati da Phoenix, questa volta in cinque partite.
Durante l’estate qualcosa si rompe tra Kobe e la società, rea di non aver portato i Lakers ai fasti di qualche anno prima, dopo la partenza di Shaq verso Miami. Questa fase di stallo sta stretta a Bryant che chiede a gran voce il ritorno del suo primo vero mentore, Jerry West, fautore della nascita dei grandi Lakers targati Phil Jackson.
Il numero 24 è oltretutto annoiato dalle ripetute voci che lo vorrebbero come capro espiatorio per la cessione di O’Neal e come vero GM della squadra. Le sue richieste di mandare via Bynum, secondo lui un vero e proprio “brocco”, e di fare giungere in California niente meno che Jason Kidd, non vengono, però, accettate, così come quella di essere ceduto altrove.
Kupchak, pur non di non perderlo, tenta di arrivare ad un compromesso: quello di costruire una squadra da titolo nel giro di un anno. Mai promessa fu più azzeccata e nel febbraio 2008 arriva Pau Gasol dai Memphis Grizzlies, in cambio di Kwame Brown.
Lo spagnolo entra subito nei meccanismi della squadra e nelle grazie di Bryant che vede in lui la spalla ideale per tornare a puntare in alto. Intanto, il 23 dicembre 2007, Kobe diventa il giocatore più giovane della storia a raggiungere quota 20.000 punti in carriera (record che poi verrà superato da LeBron cinque anni più tardi).
Una stagione di traguardi e successi che gli vale il titolo di MVP, il primo in carriera, nonostante i numerosi infortuni che non gli impediscono di giocare tutte e 82 le partite, guidando i Lakers ad un record di 57-25, primo ad Ovest.
Nei playoff, Los Angeles fa fuori squadre come Nuggets, Jazz e Spurs, prima di arrivare in finale, dove dovrà affrontare gli acerrimi nemici di sempre, i Boston Celtics dei Big Three: Garnett, Allen e Pierce.
E’ la quinta finale in carriera di Kobe e la gioca alla grande, soprattutto nelle prime tre gare, ma quando i giallo-viola hanno più bisogno di lui, ecco che cala il suo rendimento, tanto da mettere un massimo di 25 punti nelle successive tre partite, in particolare grazie alla marcatura di un mastino difensivo come James Posey.
I Celtics vinceranno il titolo in una gara-6 che rimarrà nella storia per il distacco esorbitante tra le due squadre, mentre a Kobe rimarrà l’amaro in bocca per l’ennesima occasione sprecata. Le critiche sulla dirigenza si ripresentano durante l’off-season. Si alzano interrogativi sulla vera utilità della trade Gasol e anche sull’apporto di Bryant, che non ha dimostrato il suo vero carattere durante le Finals.
Messe da parte le critiche e le sconfitte, Kobe vince l’oro con la nazionale statunitense ai giochi di Pechino, dando il via a quello che sarà un anno trionfale. I Lakers sembrano galvanizzati dal successo della loro stella, tanto che iniziano alla grande la stagione 2008-09.
Il nativo di Philadelphia abbassa le sue cifre, ma diventa sempre più uomo squadra, come lo dimostra anche la prestazione del 2 febbraio 2009 contro i New York Knicks, in cui segna 61 punti (nuovo record del Madison Square Garden).
Durante l’All-Star Game di Los Angeles, viene eletto MVP insieme al suo ex compagno, Shaquille O’Neal, in una premiazione che puzza ancora di pace forzata, ma che ha comunque regalato un bel momento di sport. A fine stagione, Kobe raccoglie i frutti di quanto compiuto e anche i Lakers che chiudono con un record di 67-15, secondo migliore nella storia della franchigia.
Ancora una volta il numero 24 è in corsa per il titolo di miglior giocatore del campionato, ma a differenza dell’anno prima, cede il posto a LeBron James. Bryant, però, non vuole saperne di abdicare al titolo di campione della Western Conference e parte subito forte.
L.A. si sbarazza di Jazz, Rockets e Nuggets, giocandosi ancora l’opportunità per vincere il titolo. Ma questa volta non ci saranno di fronte i Celtics, bensì i giovani Orlando Magic di Dwight Howard.
L’inesperienza della squadra allenata da Stan Van Gundy permette ai Lakers di vincere il quindicesimo titolo nella storia della franchigia e a Kobe di aggiudicarsi il premio di MVP delle Finals per la prima volta in carriera. Per lui 32.4 punti, 7.4 assist e 5.6 rimbalzi nelle 5 gare conclusive, tanto da diventare il primo giocatore nella storia della franchigia a collezionare queste cifre dai tempi di Jerry West, nelle finali del 1969 e il primo in assoluto da quando Michael Jordan vinse l’ultimo titolo nel 1998.
Nella stagione 2009-10, Kobe ha l’opportunità di gioire ancora. Il 2 aprile sigla un estensione triennale di contratto a 87 milioni di Dollari complessivi e nonostante piccoli acciacchi continuino a tormentarlo, salta solo 9 partite, guidando i Lakers al primo posto ad Ovest per il terzo anno consecutivo.
Al primo turno sconfiggono i Thunder in sei partite, con Bryant che ne mette addirittura 39 in gara-2 e 32 nella decisiva gara-6. Ma è nel secondo turno che mostra tutta la sua voglia di vincere e la indole di leader assoluto. Segna 32.0 punti di media e i Jazz non possono nulla contro la sua supremazia, tanto che i Lakers chiudono la serie in quattro gare.
Nelle finali di conference, contro dei sorprendenti Suns, Kobe riesce a fare di meglio. Nella vincente gara-1 ne mette 40 con il 56.5% dal campo. In gara-2 infila una doppia-doppia per punti e assist. In gara-3 sigla 36 punti con 9 rimbalzi e 11 assist, ma i giallo-viola perdono, così come in gara-4, in cui segna 38 punti con 10 assist e 7 rimbalzi.
La serie si trova sul 2-2, ma il numero 24 tira fuori il meglio di sé nel momento più importante e delicato. In gara-5 sfiora ancora la tripla-doppia (30 punti, 11 rimbalzi e 9 assist) guidando i suoi ad un importante successo, mentre nella decisiva gara-6 ne fa registrare 37 con un imponente 12/25 dal campo.
I Lakers sono nuovamente in finale con la possibilità di vendicare la sconfitta di due anni prima contro i Celtics. Sarà una serie pazzesca, come non si vedeva da tempo. Bryant, però, non ci sta a perdere, almeno non questa volta. In gara-1 ne mette 30, in gara-2 solo 21 e difatti Los Angeles perde.
Si va a Boston e gli uomini di Phil Jackson tornano alla vittoria con Kobe che ne rifila 29 alla difesa bianco-verde. Nel quarto confronto segna 33 punti, ma non sono sufficienti e nemmeno i 38 di gara-5. Si ritorna, così, in California sul 3-2 per i Celtics e per evitare un altro tracollo c’è bisogno dell’apporto di tutti.
E’ proprio in queste due ultime partite che i Lakers iniziano a giocare seriamente di squadra, approfittando anche dell’infortunio occorso a Perkins, nella sesta partita, in cui il numero 24 sigla una prestazione da 26 punti e 11 rimbalzi.
Si va a gara-7 e anche se Kobe non gioca una grande partita (6/24 dal campo per 23 punti a cui aggiunge 15 rimbalzi), i Lakers si aggiudicano l’anello, sconfiggendo i fantasmi del passato e Bryant viene nominato MVP per il secondo anno consecutivo.
Le due annate successive non saranno così vincenti e facili. Parecchie vicissitudini si alternano in casa Lakers, su tutte l’abbandono, a quanto pare definitivo, di coach Phil Jackson.
L’era Mike Brown è già finita senza essere realmente incominciata e senza avere regalato successi e soddisfazioni. La rivoluzione estiva dei purple&gold sta servendo a ben poco, ma se c’è un giocatore che sta dimostrando sempre il suo valore, questo è proprio Kobe Bryant che il 5 dicembre 2012, ha raggiunto quota 30.000 punti, diventando anche qui il più giovane giocatore a varcare questa soglia (attendendo LeBron).
Ma ironia della sorte, la squadra con cui ha raggiunto questo invidiabile record, sono proprio quegli Hornets famosi che gli avevano preferito Vlade Divac, senza nessuna offesa per il centro slavo.
Però, ora che è entrato nell’Olimpo dei migliori marcatori di sempre (gli altri sono: Kareem Abdul-Jabbar, Karl Malone, Michael Jordan e Wilt Chamberlain), non è sicuramente sazio e vorrà vincere ancora.
I Lakers di quest’anno sono ancora un’incognita, ma i 27.1 punti che mette ad allacciata di scarpe, sono la prova che a 34 anni e con 5 anelli alle dita, si può avere ancora molta fame.
Personal trainer e grande appassionato di sport americani. Talmente tanto che ho deciso di scrivere a riguardo.
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Complimenti, bellissimo articolo.
Grazie :)