La pausa dell’All-Star Game ci dà l’occasione di un bilancio stagionale sui rookies, avendo ormai alle spalle 3 mesi e mezzo di intensa stagione regolare. Allora senza indugi via col nostro Rookie Report…
PROMOSSI
Damian Lillard, Portland TrailBlazers: favorito per il premio di Rookie of the Year, Lillard dovrà però continuare a sviluppare il suo gioco per stare al livello dei migliori registi NBA. Sa fare un pò di tutto, dal tiro agli assists, ma non eccelle in nessun aspetto del gioco in particolare, se non per una grandissima forza mentale che l’ha aiutato a superare i limiti che hanno i rookies nell’impatto con la lega. A medio\lungo termine gli preferiamo altri giocatori, ma nessun rookie ha meritato come lui fino a questo momento della stagione, trascinando i Portland Blazers alle soglie dell’eccellenza (e nella Western Conference, è da ricordare)…
Anthony Davis, New Orleans Hornets: ci sono diverse cose che ci hanno fatto dubitare di Davis nel corso dell’anno (sopracciglione da killer a parte), come una certa tendenza ad avere problemi fisici, o qualche momento a vuoto, ma nel complesso la scelta numero 1 ha confermato le buone premesse iniziali, e dimostrato di essere all’altezza delle aspettative. Suscita qualche dubbio la tendenza a scomparire dall’attacco per diverse partite, anche se la sua produzione difensiva, stoppate incluse, compensa questi blackouts, ma per arrivare all’eccellenza dovrà migliorare anche sull’aspetto mentale.
Andre Drummond, Detroit Pistons: chiunque abbia visto Drummond è rimasto impressionato da quello che sa esprimere, agilità prodigiosa per un 2.11 di altezza, velocità nell’attraversare il campo per concludere con schiacciate potenti, e ovviamente un talento difensivo naturale in tutti i suoi aspetti. Gli stessi numeri (7 punti e 7 rimbalzi in 19 minuti) sono per una volta rivelatori di come, pur con un suo utilizzo limitato, il big-man diciannovenne ha un potenziale effettivamente ampio, tanto che i paragoni con Duncan non sono esagerati. Se riuscirà a sviluppare le sue eccellenze fino in fondo, è una domanda di cui avremo risposta nei prossimi anni.
Dion Waiters, Cleveland Cavaliers: a tratti Dion sembra veramente essere un tutt’uno col pallone, e che l’unico modo per liberarsene per lui sia tirare, anche troppo, o perderlo, come nei recenti minuti finali contro gli Spurs. Se Waiters continuerà a disciplinare il suo gioco, un duo Irving-Waiters nel futuro NBA sembra mortifero, e già in diverse partite quest’anno l’ex Syracuse è sembrata una macchina di punti: basterà trovare un equilibrio evitando altri momenti in cui tira come un ubriaco. Visto il suo atletismo, puntare più al ferro e guadagnarsi tiri liberi sarebbe un ottima ricetta nelle serate no al tiro da media\lunga distanza.
Bradley Beal, Washington Wizards: dopo il primo mese e mezzo da denuncia, causa anche mancanza di John Wall e situazione dei Wizs disastrosa oltre misura, si è adattato al gioco dei pro e ha incominciato a migliorare il tiro, ritornando progressivamente quello conosciuto con i Florida Gators. Tirare con continuità sopra il 40% da 3 potrebbe essere il passaggio successivo, in una lega dove il tiro dalla distanza è fondamentale, Beal sembra avere lunghi anni di dominio davanti nel settore.
Kyle Singler, Detroit Pistons: sia chiaro, l’ex Duke non diventerà mai un fenomeno, ma si è meritatamente guadagnato il posto da titolare come ala piccola lasciato da Tayshaun Prince, con un gioco dinamico, completo, e in grado finalmente di aiutare i Pistons ad avere una identità di squadra. Non ha un grande potenziale da raggiungere, come detto, e forse il suo meglio lo sta già dando, ma anche come backup il suo futuro nella lega è assicurato.
Alexey Shved, Minnesota Timberwolves: una sorta di Ricky Rubio reloaded, meno passatore ma più giocatore completo, almeno fino al recente slump, più dovuto alla crisi dei Wolves che al rookie wall. Nel sistema di coach Adelman si è ottimamente integrato, deve continuare a lavorare sul tiro e la gestione dell’attacco per fare il salto di qualità nell’NBA.
Pablo Prigioni, New York Knicks: l’improbabile gaucho triste ha trovato una sua nicchia nell’NBA, dovuta anche in parte alla qualità di tiratori come J.R. Smith o Steve Novak, ma è indubbio che l’argentino conosca il gioco come pochi (grazie, ha 35 anni!), e in pochi minuti a partita (14 minuti di media) sa dimostrarsi spesso utile, anche centellinando il suo tiro e non forzando mai nulla. Potrebbe giocare anche fino a 50 anni (o averli già compiuti)…
DA RIVEDERE
Michael Kidd-Gilchrist, Charlotte Bobcats: è vero che la specialità del suo gioco sarà sempre di più la difesa, visti i suoi limiti offensivi (9 punti in 25 minuti di media è pochino), ma per sviluppare al meglio le sue caratteristiche avrebbe bisogno di una squadra competitiva, non certo dei Bobcats che avevano necessità più di un giocatore alla Bradley Beal. Il suo bilancio come rookie rimane per il momento buono, ma non esaltante come a tratti a inizio stagione avremmo pensato.
Harrison Barnes, Golden State Warriors: parlando di potenziale da raggiungere, nel caso di Barnes troviamo un giocatore dalle enormi potenzialità, la cui inconsistenza nell’anno da rookie non deve troppo preoccupare. Deve solo migliorare nella conoscenza del gioco, intanto a febbraio sta tirando col 55% dal campo, prendendo ancora pochi tiri ma muovendosi bene, soprattutto quando in quintetto c’è Andrew Bogut a creargli spazio per la realizzazione. Potrebbe essere tra due anni un nuovo Paul George, in una squadra giovane come i Warriors.
John Henson, Milwaukee Bucks: nel limitato numero di minuti a partita, 12 in media, che sta giocando nell’affollato front-court dei Bucks, l’ex North Carolina ha spesso dimostrato impressionanti doti atletiche, e la sua eccellenza nelle stoppate, ma sostanzialmente sta ripetendo il percorso di Larry Sanders. Un inserimento graduale per imparare a giocare nell’NBA senza passare dalla D-League e neanche fare troppi danni in campo. Proprio un giocatore da vedere e rivedere, magari il prossimo anno.
Tyler Zeller, Cleveland Cavaliers: altro giocatore da valutare a lungo termine, Zeller rispetto al celebrato fratello Cody non diventerà mai un un giocatore di alto livello, elemento che non nega una sua durata a lungo termine come centro bianco combattivo e specializzato in marcature ruvide, tipo Jeff Foster. In verità ha un tiro molto più efficace che la maggior parte dei giocatori intorno al 2.15 di altezza, ma è inevitabile che senza un aspetto dominante nel suo gioco, dovrà abituarsi a giocare 20\25 minuti a partita ed essere un produttivo centro di riserva, per durare diversi anni nell’NBA.
Jonas Valanciunas, Toronto Raptors: è giovane, solo vent’anni, quindi per il centrone lituano i margini di miglioramento ci sono tutti, ma è indubbio che a inizio stagione si era anche parlato di un possibile Rookie of the Year, quindi un pò di delusione ci sta per una discreta ma nulla più partenza di carriera NBA. Anche se con punte di rendimento, i suoi 7 punti e 5 rimbalzi a partita in 21 minuti non sono nulla di eccezionale, anzi, per l’immediato futuro rimane la speranza che il miglioramento di Toronto, con l’arrivo di Rudy Gay, porti anche un deciso upgrade al gioco del big-man europeo.
DELUSIONI
Austin Rivers, New Orleans Hornets: qualche segno di miglioramento a febbraio per l’ex Duke, ma rimane la massima delusione tra i rookies, un pò come Jimmer Fredette l’anno scorso, difficoltà di costruirsi il tiro e medie pessime (35% dal campo, a febbraio tira col 46% ma cercando meno il tiro, 6 punti in 22 minuti di media sono pochini), giocatore da D-League, dove potrebbe imparare il gioco da pro senza fretta. L’idea di trasformarlo in un play sembrava ardita, e col tempo si è rivelata un fallimento. Nè play ne guardia pura, neanche combo-guard, difficile pensare a Rivers nel lungo periodo, il presente rimane tremendamente difficoltoso…
Thomas Robinson, Sacramento Kings: difficile non essere sorpresi di come uno tra i giocatori più solidi dell’ultimo draft, e quinta scelta assoluta, sia stato deludente fino a questo punto, e di come si sia visto poco della sua filosofia di impegno e lavoro continuo per migliorarsi, come era conosciuto a Kansas. 5 punti e 5 rimbalzi in soli 16 minuti di media evidenziano una netta difficoltà ad ambientarsi nell’NBA, e anche se i Kings non sono la squadra migliore in cui approdare ora , si pensava che il suo esempio avrebbe aiutato giocatori meno maturi come DeMarcus Cousins, ma per il momento è stato il contrario. Da qua fino a fine stagione avrà più minuti a disposizione, per il momento un no-factor sorprendente per Sacramento.
Kendall Marshall, Phoenix Suns: giocatore veramente inconsistente (2 punti e 1 assist e mezzo in 11 minuti di media!), che faceva sollevare dubbi sulla sua durabilità nell’NBA, dubbi prontamente… realizzati! Se non fosse per il cambio allenatore e la voglia del nuovo coach Lindsay Hunter (e di chi lo scelse tra i dirigenti) di vederlo all’opera, sarebbe ancora in D-League, dove il suo problema principale, il tiro, continuava a perseguitarlo (31% dal campo). Difficile avere un ruolo nell’NBA senza un tiro decente (Ricky Rubio a parte), vedremo da qua a fine anno i suoi margini di miglioramento…
Terrence Ross, Toronto Raptors: una sorta di Anthony Morrow più atletico, un pò troppo prenderlo all’ottava scelta, ma azzeccarci al draft non è proprio il mestiere di Jerry Colangelo… continua ad avere difficoltà al tiro, come il 33% da 3, che dovrebbe essere la specialità della casa, dovrà fare una grossa maturazione per essere importante nel futuro dei Raptors.
Meyers Leonard, Portland TrailBlazers: vero che il ragazzo ha vent’anni e deve crescere, indubbio però che in confronto a un Andre Drummond, scelto solo 5 posizioni prima di lui, Leonard non sembra poter diventare più di un discreto giocatore, tipo Joel Przbylla, senza quell’agilità in grado di fare veramente la differenza vicino al canestro. Anche i suoi limiti difensivi gli hanno tolto minuti ultimamente, e da 14 minuti di media è sceso a 9: non molto confortante…
DA SEGNALARE
Andrew Nicholson si sta confermando all’altezza delle nostre aspettative come sleeper, e il suo efficace tiro dalla distanza compensa limiti di atletismo e forza fisica per il centro dei Magic.
Sempre a Orlando, Moe Harkless appare ancora troppo grezzo per gli standard NBA: in un altra squadra sarebbe stato destinato alla D-League, gioca più di altri rookies (20 minuti a partita), ma con poca produttività, giustificata comunque dalla giovane età. Un altro anno a St. John’s avrebbe aiutato.
Jared Sullinger ha visto la sua stagione ai Celtics finire prima del dovuto causa infortunio, proprio nel momento quando i suoi minuti e la sua produzione stavano aumentando, ma il prossimo anno l’ex Ohio-State sarà sicuramente un elemento importante nel gioco di Boston.
John Jenkins sta confermando le sue doti di miglior tiratore puro all’ultimo draft, e il suo ruolo ad Atlanta è destinato ad aumentare, soprattutto il prossimo anno con le probabili partenze di Korver e Morrow. Non più di uno specialista dalla mattonella, ma efficace nella squadra giusta.
Segnalateci i vostri giudizi e se ci sono dei giocatori omessi per ragioni di spazio che ci volete segnalare, per il momento un saluto e appuntamento al prossimo Rookie Report…
appassionato della cultura americana, dagli sport alla letteratura al cinema della grande nazione statunitense…
per qualunque curiosita’ scrivetemi a: albix73@hotmail.it
Un piccolo appunto per questo splendido articolo. Drummond come Duncan proprio no!! Duncan da rookie ha vinto l’anello ed era il secondo violino.. Drummond non lo è nemmeno nei pessimi Pistons.. Piuttosto più simile ad Howard ma stiamo parlando di potenziale ancora parecchio lontano
Ottimo articolo concordo su tutto
P.s Duncan vinse l’anello quando era sophomore