Lo devo ammettere, quando ho letto il nome di Jrue Holiday tra i convocati all’All-Star Game ho strabuzzato gli occhi e poi ho esclamato un inesorabile: “What?!” per non aggiungere altro. Dopodiché, pensandoci bene, non è che la cosa fosse così sorprendente.
Jrue, che nome strano si pensa la prima volta che lo si legge. Chissà cosa dev’essere passato per la testa dei suoi genitori un caloroso giorno di giugno di quasi ventitre anni fa. E dire che il secondo nome è Randall, assai più comune rispetto al primo, ma lo sarebbe stato troppo per un ragazzo speciale.
Cresciuto in un sobborgo di Los Angeles, Jrue è sempre rimasto fedele alla sua città. Tifoso dei Lakers, grande appassionato dei Bruins di UCLA, tanto da commettere qualche capatina al Pauley Pavilion all’insaputa del padre Justin, ex giocatore dei Washington Huskies. Sarà proprio l’alma mater del padre a contattarlo una volta completati i suoi quattro anni da liceale alla Campbell Hall School di Studio City.
Secondo Rivals.com è il secondo miglior prospetto della nazione, mentre Scout.com gli conferisce la quarta piazza. Il suo incommensurabile talento, però, non viene più di tanto pubblicizzato e zitto zitto, quatto quatto, Jrue va a prendersi quel posto che gli spetta. Viene nominato Gatorade Player of the Year nel suo anno da senior, grazie ai 25.9 punti di media conditi da 11.2 rimbalzi (!), 6.9 assist e 4.9 rubate, conducendo la Campbell Hall al titolo statale della Division IV.
L’Università di Washington è lieta di accoglierlo e il padre è orgoglioso del suo ragazzo, tanto da andare a scrutare le sue gesta al McDonald’s All-American e al Jordan Brand Classic. Ma Jrue è pronto a far uscire dal cilindro un coniglio bello grosso.
UCLA lo ha contattato e lo vuole tra le sue fila per sostituire il partente Russell Westbrook che sta per approdare in NBA. Il diciottenne è galvanizzato all’idea di giocare con la maglia dei Bruins, perciò declina il gentile invito di Washington e decide di rimanere a “casa”. Il padre non la prende nel migliore dei modi, ma capisce in fretta che la carriera è quella del figlio, non la sua e che UCLA è comunque una grande università.
Fin da subito, però, c’è da sistemare il suo ruolo effettivo. Coach Howland non vorrebbe farlo partire dalla panchina per dare la priorità a Darren Collison, perciò decide di schierarli insieme. Jrue parte quindi da shooting guard viste anche le sue grandi abilità al tiro e nel gioco d’attacco, ma con il senno di poi, c’è la sensazione che abbia troppo sofferto in questo ruolo, anche per la sua statura e il fisico esile. 8.5 punti, 3.7 assist e 3.8 rimbalzi non sono un grande trampolino di lancio per lui, mentre l’opzione NBA si fa sempre più viva nella sua testa.
C’è chi gli consiglia di rimanere un altro anno per avere un ruolo da protagonista (vista la partenza di Collison verso il piano superiore), ma come dimostrato nel recente passato, Jrue decide di saltare l’ostacolo e di dichiararsi per il Draft 2009. Le sue quotazioni scendono inevitabilmente grazie alle prestazioni non confortanti avute durante l’anno. Sono i Philadelphia 76ers a prendersi questo rischio e a chiamarlo con la numero 17, al primo giro.
L’occasione per farsi vedere arriva subito per via dell’infortunio occorso a Louis Williams, fino ad allora point guard titolare della squadra. Jrue ricambia il colpo di “fortuna” con 8.0 punti di media e 3.8 assist in 73 gare giocate. Cifre che non gli permettono di essere inserito in nessun miglior quintetto delle matricole, ma l’anno dopo va vicinissimo a vincere il premio di giocatore più progredito, se non fosse per un certo Kevin Love.
Raddoppia quasi tutte le sue cifre, ma soprattutto gioca tutte e 82 le partite, segno di una poca propensione all’infortunio. Louis Williams è ormai avvisato, Holiday si sta facendo particolarmente spazio e ha l’appoggio di coach Doug Collins.
La prova definitiva della sua ascesa la si ha nei playoff 2011 in cui, contro Miami, ridicolizza più volte il povero Chalmers, per non parlare del buzzer beater in faccia a Wade. I suoi 14.2 punti e 5.6 assist non saranno sufficienti a sbaragliare la corazzata Heat, ma in quelle cinque partite Jrue ha fatto scoprire al mondo cestistico di che pasta è fatto.
Nell’anno del lockout salta una sola partita e non riesce ad innalzare il suo livello di gioco rispetto a quello precedente. I minuti diminuiscono e per un attimo viene messo in discussione il suo ruolo all’interno della squadra, tanto che si pensa anche ad una possibile cessione. Ma Holiday è determinato a rimanere e nei playoff ricomincia a seminare il panico.
Contro dei Bulls privi di D-Rose, fa quello che vuole. Il suo minimo di punti è di 14 nella decisiva gara-6, ma è capace di metterne pure 26 in gara-2 o di avvicinarsi alla tripla-doppia come in gara-4. Contro Rondo, al secondo turno, la storia è leggermente diversa. Jrue ci prova, ma cade sotto i colpi asfissianti della difesa dei Celtics, anche se tiene cifre di tutto rispetto.
L’eliminazione finale è anche un segno di cambiamento. Qualcosa frulla nella testa del ragazzo e non solo. Phila, in estate, manda via due pezzi da 90 come Lou Williams e Andre Iguodala, prendendo Andrew Bynum dai Lakers. E’ la chiave di svolta nella carriera del nostro protagonista.
Doug Collins gli affida completamente le chiavi della squadra con l’obiettivo di raggiungere quei playoff che l’infortunio occorso proprio al neo acquisto hanno complicato e non poco. Per questo, il 31 ottobre, firma un prolungamento di contratto che partirà dalla stagione 2013-2014 e che protrarrà la sua permanenza in Pennsylvania di almeno quattro anni.
Senza nemmeno essersene accorto è diventato l’uomo franchigia e la convocazione di cui abbiamo parlato sopra è solo una targa di merito per tutto quello che sta facendo. I 19.4 punti e 8.9 assist che sta tenendo in questa stagione non li aveva nessuno in quel della “Città dell’Amore Fraterno” dai tempi di Allen Iverson.
Certo, AI era un attaccante migliore e a volte se ne fregava (giustamente) degli schemi o del passare la palla, per poter andare a cercare la conclusione solitaria. Il tiro da oltre l’arco fatica ancora a crescere, ma la percentuale è stabile intorno al 35/40%, mentre dal campo si avvicina molto al 50%.
Tralasciando questi fattori, Holiday ha messo su un bagaglio tecnico davvero eccezionale, e può ancora ampliarlo. Il suo crossover è già letale, tanto da essere diventato un perfetto “ankle breaker”. Il suo palleggio arresto e tiro è decisamente migliorato, anche se il più delle volte preferisce penetrare la difesa avversaria e concludere con un più comodo layup o lob che sia.
Se poi la difesa avversaria si chiude a riccio, no problem. Jrue ha sviluppato un interessante visione di gioco che gli permette di scaricare sugli uomini liberi quando viene raddoppiato o quando l’isolamento riesce male. Tutto questo pur non disponendo, intorno a sé, di un arsenale adatto al caso. Non osiamo immaginare cosa succederà non appena rientrerà Bynum (sempre se mai lo farà con questa casacca), con la possibilità per coach Collins di instaurare un perfetto gioco in pick’n’roll che permetta all’ex UCLA di incrementare i suoi assist oltre che le conclusioni dalla distanza. Ma, detto questo, in cosa deve ancora migliorare?
Se per l’attacco abbiamo parlato del tiro, per la difesa il discorso è totale. Come molti suoi colleghi di ruolo, Holiday fatica ancora troppo a marcare l’avversario. La tenacia e la consapevolezza nei suoi mezzi non gli mancano, ma deve imparare a leggere pure il gioco offensivo avversario. Lo abbiamo visto molte volte intercettare palloni vaganti o inserirsi perfettamente sulle vie di passaggio, ma se questo gioco lo facesse sempre sarebbe uno dei migliori difensori della lega.
Le carte in regola per diventare un top player ci sono tutte e l’età è sicuramente dalla sua parte. Per questo, d’ora in poi, dovremo avere un occhio di riguardo anche per il numero 11 in maglia Sixers e non solo in quella notte del 17 febbraio 2013.
Personal trainer e grande appassionato di sport americani. Talmente tanto che ho deciso di scrivere a riguardo.
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