Christopher Copeland: dal Belgio ai New York Knicks

“Come on Mike! Toney deve giocare, altro che questo chink!”

Il Falco, per poco, non lo aggredisce fisicamente D’Antoni (il nostro Mike, l’allora allenatore dei Knicks).
Il Falco è David Falk, uno dei più  grandi agenti sportivi di tutti i tempi, l’agente, per intenderci, che ha rappresentato sua maestà MJ23 per tutta la sua carriera. Il Toney in questione è Toney Douglas, che con Jordan ha in comune solo l’agente e il numero di maglia.

Il chink (muso giallo) invece è l’uragano Linsanity che da Taiwan passando per Harvard ha travolto tutto il pianeta NBA, spazzando via dalla rotazione dei Knicks anche Toney, e che ha ispirato il sottoscritto ad eseguire una ricerca sugli underdogs, coloro che hanno passato l’estate a caccia degli ultimi posti tra i quindici del roster.

Con la Summer League di Orlando e Las Vegas (record quest anno per numero di franchigie presenti) alle spalle e la preseason in corso, mentre i vari LeBron, Pierce, Griffin, Nowitzki… andavano a promuovere il logo di Jerry West nei più grandi centri mondiali come Pechino, Berlino, Milano, alcuni loro colleghi o “compagni”, più o meno tali, nelle stesse situazioni giocavano partite che potevano cambiare il corso della loro carriera e vita.

Solamente un anno fa, uno di questi giocatori fu proprio il “chink”, Jeremy Lin, il quale perse, essendo tagliato da Houston proprio alla vigilia della prima palla a due della scorsa stagione, questa “once in a lifetime chance“, che però, come ha dimostrato la storia, non si rivelerà così “once“.

E allora prendiamo idealmente la U.S. Route 50, percorrendola tutta, da Boston a L.A. attraversando la Louisiana e il Texas e andiamo a cercare questi Underdog, conosciamo le loro storie, alcune a lieto fine, altri ancora senza squadra… ma la storia di Lin insegna a non perdere mai le speranze…

Waltham, Massachusetts

Una decina di miglia ad Ovest di Boston

Keep pushing Temple, keep pushing, can’t rest here!“.
In tutto il training center si sente una sola voce, quella di KG, stereo acceso senza soluzione di continuità sul parquet, che se hai un difetto te lo fa notare senza troppi problemi, ma incitare qualcuno, quello lo si fa solo se veramente meritevoli, e in questo caso il fortunato destinatario delle urla del numero 5 è Dionte “Temple” Christmas.

Nato a Philadelphia, andato al college vicino a casa, a Temple (da cui deriva il soprannome),  non venne scelto al draft del 2009 per il quale si rese eleggibile, e l’anno successivo iniziò a girovagare per il vecchio continente, giocando in Israele, Turchia e Grecia.

Grande agonista, non esattamente uno scienziato del gioco,  buon tiro perimetrale, 45% da 3 nella Summer League di Las Vegas con oltre 14 punti a partita,  (sfidato regolarmente a fine allenamento da Pierce in un three point contest), non si sa bene dove collocarlo in campo perché ha il fisico da 2-3 (ruoli in cui i Celtics abbondano) ma le guardie NBA gli vanno via coi pattini ed è troppo piccolo per difendere contro le ali.

Nonostante questo, grazie anche all’estate passata ad allenarsi con il Jet, conosciuto quando ancora si trovava a Temple grazie ad un tour promozionale della Reebok, di cui Terry era ed è testimonial, gli ultimi posti nel roster della squadra più vincente della NBA non sono più un miraggio… per cui, “keep pushing, Temple, keep pushing!

[NDR: niente da fare per Dionte, rilasciato dai Celtics il 16 ottobre. Troppi giocatori già a roster nel suo ruolo…]

 

Aalst, Belgio

Luglio 2012.
Era stato incredibile quella sera Chris, il Forum lo idolatrava, sembrava non potesse mai sbagliare, purtroppo però, non è bastato…

In città, a due mesi di distanza, non si parlava ancora d’altro… Christopher Copeland, duecentotre centimetri nati nel New Jersey ma sviluppatisi in Texas, era veramente una furia quella sera, il 16 maggio 2012.
Onnipotente.

Ogni volta che la lasciava andare da quelle mani, il Forum, lo Zaal Forum e tutta Aalst, aspettava solo il rumore del cotone… swish.
7 su 7 da due, 4 su 5 da tre, 6 rimbalzi, 7 falli subiti e 30 punti alla fine del terzo quarto con gli Okapi Aalstar (fantasiosi sti belgi), la squadra del nostro Chris sopra di 12 contro i malcapitati Mons-Hainaut.

Il trapassato prossimo all inizio della nostra storia non è un errore ma è li per un motivo ben preciso, perché quell ultimo quarto ad Aalst, non lo vuole ricordare più nessuno. N-E-S-S-U-N-O. Solo 4 punti segnati, ma non da Copeland, il che visti i primi 30 minuti sarebbe già una notizia, ma da tutti gli Aalstars, non più così tali evidentemente, mentre gli avversari passeggiano mettendone a referto 28 negli ultimi dieci minuti, chiudendo la partita con un comodo più dodici e andando alle semifinali playoff della lega belga.

Fast forward.
XL Center, Hartford, Connecticut.
13 Ottobre 2012.
New York Knicks – Boston Celtics.

A fine primo tempo tutti i ragazzi in maglia bianco-arancio hanno mosso le statistiche, almeno nella casella minuti. Tutti, o quasi. L’unico dei 12 a disposizione dei Knicks ad aver fatto compagnia agli oltre 14mila spettatori paganti è un certo Christopher Copeland, spettatore non pagante, da Colorado University, passato, dopo aver ricevuto il diploma in psicologia, anche per diverse località europee, tra le quali Aalst, in Belgio dove nella squadra locale per un paio d’anni ha furoreggiato, senza però vincere niente.

Ma coloro che sono a conoscenza di ciò che quello psicologo in maglia numero 14 appollaiato in panchina sa fare sul campo e del suo personalissimo 16 maggio, putroppo, si contano sulle dita di una mano in tutto il Connecticut e tra questi evidentemente non è compreso Mike Woodson, coach degli enigmatici Knicks.

Quando, nell’intervallo, uno degli assistenti allenatori fa notare al coach che, anche nella lega più spietata del mondo, non sarebbe carinissimo non provare un unico giocatore, allora Woodson a due minuti dalla fine del terzo quarto richiama Chandler e inserisce il nativo del New Jersey, il quale, la panchina non la vedrà più per tutta la serata, ma, anzi, ritrova la via smarrita all’inizio di quel maledetto ultimo quarto e porta i suoi, perché ormai erano diventati i suoi (21 punti in 19 minuti), prima all’ over time e poi alla vittoria condendo il tutto con una stoppata sul tiro per il pareggio allo scadere.

Nella città fatta prigioniera dalla Linsanity solo qualche mese fa, una storia così, difficilmente passa inosservata e Chris, le sue treccine, la sua laurea in psicologia e il suo numero 14 molto probabilmente un contratto lo riescono anche a strappare, perché al Madison Square Garden come allo Zaal Forum, il rumore del cotone fa impazzire sempre… swish.

[NDR: il sogno di Chris continua, al momento è nel roster a 15 di inizio stagione dei Knicks!]

 

Baton Rouge, Louisiana

“It’s good to be back at home”.
“Lets get some gumbo!”

Questi devono essere stati i primi due pensieri di Garrett Temple appena sceso dall aereo che da Torino Caselle lo riportava nella sua Louisiana. L’avventura in serie A con la Junior Casale Monferrato non è decollata (retrocessione in serie A2) ma Garrett non se l’aspettava così dura. La lontananza da casa è stata più difficile del previsto per uno che fino a 25 anni l’unica volta che si era veramente allontanato è stata per andare a Sacramento, a giocare per i Kings, si, ma per dieci giorni!

Famiglia legatissima quella di Temple. Il padre Collis, vero collante della famiglia, è stato il primo afroamericano a giocare per LSU, dove, agli inizi degli anni 70′, fu vittima di ripetuti attacchi razzisti contro i quali dovette intervenire persino la guardia nazionale americana.

La madre Soundra, specialista come ogni donna della Louisiana che si rispetti nella ricetta del gumbo, una sorta di zuppa con riso e gamberi, che manda completamente fuori di testa i 5 figli: Garrett, la sorella Colleen, i fratelli Collis III (visto anch’egli ad LSU) ed Elliot e quello adottato, Glen, che di cognome non fa Temple, ma bensì Davis e che nel suo primo anno da pro vinse l’anello di campione NBA a Boston.

Nati lo stesso anno (1986), nello stesso paese (Baton Rouge, LA), crebbero come fratelli, Garrett e Glen, giocando insieme sia alla highschool sia al college, sempre ad LSU, che nel 2006 venne portata  alle quarte finals four della sua storia proprio da Davis, miglior marcatore della squadra,  e da Temple, terzo famigliare a giocare per i Tigers e terzo per minutaggio nel roster del 2006 (nonostante fosse un freshman) davanti a giocatori come lo stesso amico-fraterno Davis e Tyrus Thomas, che nel draft seguente venne chiamato con la quarta scelta assoluta.

Alla fine del percorso accademico, Davis venne scelto al draft dai Seattle Supersonics e girato ai Celtics, mentre Garrett, l’anno seguente, non venne chiamato, e iniziò a girare tra Sacramento, Houston e San Antonio, dove giocò anche il padre Collis, Milwaukee e Charlotte.

Dotato di grande atletismo e di una buona difesa, All-Defensive Team della SEC per due anni consecutivi (in Lousiana non si dimenticano come nella semifinale regionale tenne la stella dei Duke Blue Devils, J.J. Reddick, in una delle sue serate peggiori di tutta la carriera universitaria), non brilla per continuità, soprattutto in fase offensiva.

Della sua storia NBA, corta e mischiata con un po’ di D-League, si ricordano soprattutto due highlights: chase down in maglia Spurs su The Matrix, Shaun Marion, che quando c’è da andare su, sale anche senza ascensore e i 14 punti nel solo ultimo quarto con i Bobcats contro gli Heat a garbage time oramai inoltrato che costrinsero coach Spoelstra a rimettere in campo Wade e James. Chissà che magari proprio a Miami non possa ripartire la sua carriera NBA.

Dal Monferrato a South Beach il viaggio è lungo, ma un gumbo come quello di mamma Soundra in Italia non si trova per cui comunque vada per Garrett “it’s good to be back at home!”

[NDR: è andata male al buon Garrett, ultimo tagliato dal camp degli Heat, peccato!]

 

Dallas, Texas

The first time I picked up a ball was when I was 15. At 17, on the first day of work, Erick Dumas asked me if I played basketball. I said ‘No sir’. He said, ‘You do now'”.

Erick Dumas, sergente dell’ Air Force degli U.S. e allenatore della squadra di basket dell’ aeronautica militare, cercava tra le nuove reclute qualcuno che gliela coprisse quella dannata area.

Dopo averlo visto la sera stessa sul campo da basket, il sergente Dumas aveva capito di aver trovato il suo uomo: Bernard James, colui che fino ai 15 anni non aveva ancora toccato una palla. Quella sera del 2002, Bernard controllava l’invito in area a tutti, stoppava, prendeva rimbalzi e apriva subito il contropiede, un predestinato.

L’idea di arruolarlo era stata soprattutto dei genitori perché a scuola il figlio ci andava poco e mal volentieri e l’intenzione di lasciarla gli era venuta più di una volta. In accademia il cadetto Bernard James cresceva e lavorava sodo e appena aveva un momento di pausa era il primo ad entrare sul campo da basket.

Mentre serviva il proprio paese anche oltre oceano, in Iraq, Qatar e Afghanistan, James, all All Star Game della U.S. Army del 2005, venne notato da un arbitro dell evento, il quale, di fatto, lo reclutò per Jordan Hamilton, coach di Florida State, suo futuro college. Un predestinato.

Alla fine del suo servizio militare,  dopo essere diventato sergente maggiore, James, attraverso una serie di triangolazioni, entrò a Florida State, solamente con l’intenzione di terminare gli studi per onorare i genitori, non sapendo però che dopo un solo anno avrebbe guidato la sua università, primo per rimbalzi e stoppate,  alle sweet 16 del torneo NCAA. Un predestinato.

A 26 anni, dopo il primo anno ad FSU, si accorse che, magari ,un giorno, sarebbe potuto diventare un giocatore professionista, cosa che accadde l’estate seguente, quando, dopo l’anno da senior in cui si rese eleggibile per il draft, divenne il giocatore più anziano ad essere chiamato (ventisette anni contro i venticinque di Mutombo).

This is just the beginning” ha dichiarato, subito dopo essere stato scelto dai Cavs e girato a Dallas. Bernard James è pronto per scalare altre gerarchie, per lui guadagnarsi i gradi che siano da sergente o da titolare  non è mai stato un problema. Un predestinato.

[NDR: Bernard James è a roster ed ha buone chanche di esordire presto in NBA!]

Los Angeles, California

Durante la cerimonia di apertura delle olimpiadi di Rio 2016 quando Robert Sacre si troverà insieme ai suoi compagni della nazionale canadese in mezzo allo Stadio Mário Filho, meglio conosciuto come il Maracanã, gli tornerà senza dubbio in mente quella sera a casa dei nonni del piccolo Quinton, a Ville Platte in Louisiana, quando realizzò il suo sogno di andare nella NBA. Quella sera era la sera del Draft 2012.

Dopo che venne chiamato Festus Ezeli, da Vanderbilt, con la trentesima scelta degli Warriors, l’ultima del primo giro, Quinton venne portato a letto, perché l’ora si era fatta tardi e farlo addormentare era sempre stato un’ impresa.
“Fino alle 49 è dura, dalla 50 a 59 ci giochiamo tutto, alla 60 un miracolo, ma neanche, its over!”

Questo era sostanzialmente il pensiero di Robert Sacre, padre di Quinton, centro canadese, appena uscito da Gonzaga University con il premio di difensore dell anno della WCC, non una conference impossibile ma comunque un bel riconoscimento.

Come aveva pensato lui, fino alla 49esima scelta niente, alla 51 esce un canadese ma non è il nostro, bensì Kris Joseph in direzione Boston e dopo di lui Kuzmic, Aldemir, Shengelia, Odom, Zubcic, Karaman e Hummel per arrivare alla 58esima scelta.

Sin dall’ inizio della serata, il suo obiettivo era rivolto a quella scelta, la 59, quella degli Spurs per i quali nei giorni precedenti al draft aveva svolto alcuni provini con cui gli sembrava di averli convinti. E invece niente, con la 59, che sentiva già sua, viene chiamato Marcus Denmon, mano armata della Big 12, appena uscito da Missuori.

A Ville Platte la tv non venne spenta solo perché, dopo quella delusione, le forze erano venute un attimo meno, ma della chiamata dei Lakers, l’ultima del draft, nessuno in casa era interessato, anche perché Robert, per quanto ne sapesse lui, non l’avevano mai visionato.

Ma sette minuti dopo la chiamata di San Antonio, Adam Silver, vice commissioner NBA, uscì davanti al pubblico (oramai poco) del Prudential Center di Newark e annunciò: “With the 60th pick in the 2012 NBA Draft, the Los Angeles Lakers select  Robert Sacre, from Gonzaga University”. Il miracolo.

A casa Sacre si portarono avanti coi tempi, poiché il salotto si trasformò nel Maracanã e anche se a causa delle urla di gioia il piccolo Quinton si fosse svegliato, non sarebbe stato un problema. Per dormire c’era tutto il tempo del mondo a Los Angeles.

[NDR: con ogni probabilità, Sacre ce la farà a fare il roster coi Lakers! Un lungo delle sue dimensioni per fare da sparring partner a Howard in allenamento fa sempre comodo!]

2 thoughts on “Storie di preseason: gli Underdog

  1. Articolo bellissimo! Andare a fondo nel mondo NBA è sempre interessante, se l’articolo è anche ben fatto, l’effetto è assicurato.

    Con l’infortunio di Jordan Hill, Sacre potrebbe essere anche qualcosa in più di sparring partner in allenamento. Molti compagni lo hanno elogiato per l’impegno, qualche minuto può strapparlo. Mi spiace per Christmas, che in SL si è sbattuto parecchio, ma nulla da fare, hanno preferito tenere Joseph…

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