Gli americani spesso si servono di colorite metafore per descrivere il mondo che li circonda, alcune delle quali molto colorite. La metafora più celebre però è certamente quella che descrive un’ossessione che impedisca a qualcuno di avere una piena tranquillità fino a che non sia soddisfatta, la metafora della scimmia sulla spalla.
Lebron James, ormai dal lontano 2007, in cui a soli 23 anni guidò i suoi Cleveland Cavaliers ad una finale nettamente persa contro i San Antonio Spurs, aveva una scimmia gigantesca.
Un giocatore che, a seconda del periodo, veniva definito “il prescelto” o “il re”, un giocatore che già quando era al liceo era da alcuni considerato il miglior giocatore di basket del mondo, che cammin facendo ha vinto tre volte il titolo di MVP della stagione regolare, però un giocatore che non solo non aveva mai vinto il titolo NBA, ma un addirittura spesso, dopo la cavalcata del 2007, era sempre più sparito nei momenti decisivi, fino ad arrivare alle scene quasi patetiche dello scorso anno, in cui nella finale contro i Dallas Mavericks sembrava aver timore del pallone e negli ultimi quarti delle sfide spesso manco provava a combinare nulla e si spicciava a dar via il pallone se malauguratamente qualche compagno provava a passarglielo.
Tutto ciò ovviamente era aumentato a dismisura dal profilo che Lebron aveva scelto: annunciare il cambio di squadra in mondovisione, con la famosa “The decision”, fare poi una conferenza stampa con i due compagni scelti, Wade e Bosh, dicendo che stavano andando a portare i loro talenti a South Beach per vincere non un anello, non due, non tre e così via, quindi le sbruffonate dell’anno, come le prese in giro per l’avversario più temibile, Dirk Nowitzki, sbeffeggiato anche perchè aveva giocato nonostante l’influenza ed una brutta tosse.
Verissimo che l’NBA è un mondo a metà strada fra lo spettacolo e lo sport, verissimo che lo sport professionistico tende ad esaltare oltre ogni modo gli interpreti migliori per ragioni di marketing, come pure che gli Stati Uniti di America siano il luogo in cui questo è stato portato alle estreme conseguenze e si siano create rivalità sanguinose anche dove in realtà c’era rispetto, come spesso avvenuto, ad esempio, fra Celtics e Lakers (per restare all’esempio, Bird e Magic notoriamente si stimavano tantissimo, ma questo l’abbiamo saputo solo dopo il ritiro).
James però non si è limitato a calarsi in questa realtà, come la maggior parte dei suoi colleghi, l’ha fatta sua rendendola il suo modo di essere, rendendo pubblico tutto ciò che faceva, vivendo quasi un reality show senza fine e diventando il simbolo stesso di questa esaltazione delle stelle.
Tutto ciò aveva fatto si che la scimmia sulla spalla di Lebron James aumentasse a dismisura, diventando una specie del celebre King Kong solo un poco più grande. La pressione su di lui era diventata enorme, gli sberleffi da parte di chi non lo sopportava aumentavano continuamente, i suoi sostenitori, sempre molti, diventavano sempre meno fanatici e sempre più dubbiosi. Tutto ciò avrebbe potuto schiacciare Lebron, ed in effetti probabilmente questa sarebbe stata la conseguenza con quasi tutti i giocatori. Colui che una volta era conosciuto come il prescelto invece ha saputo reagire.
“La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato.” Questo diceva Albert Einstein della crisi.
Ora, sorvolando sul fatto che potremmo essere tentati di chiedere il parere su questa frase ad un operaio di Termini Imerese o ad un imprenditore veneto, ma saremmo totalmente fuori argomento, Lebron James ha fatto sue queste parole e nel momento più buio della sua carriera, un momento in cui tutte le sue scelte erano messe in discussione e veniva paragonato più ad un grande circense che ad un giocatore di basket, in questo momento ha saputo far tesoro delle lezioni ed è cresciuto come persona prima che come giocatore.
In conferenza stampa è sembrato sempre un altro, volando basso e limitandosi a dichiarazioni di circostanza, in campo si è spremuto in tanti ruoli differenti ed ha difeso meglio che in tutta la sua carriera, mai un comportamento sopra le righe, mai una critica per un compagno, mai una presa in giro di avversari, c’era solo la vittoria finale nel suo orizzonte. E, con tutta franchezza, la differenza si è vista.
Contro Pacers e Celtics ha tenuto in piedi una squadra in difficoltà evidente, prima di ricevere l’aiuto decisivo di Wade nel primo turno e di Bosh nel penultimo ed ha chiuso in bellezza con delle prestazioni eccellenti nella finale.
Evitiamo di indicare le cifre di Lebron James nelle finali dello scorso anno, specialmente quelle ottenute nell’ultimo quarto, quest’anno invece ha flirtato per tutta la serie con la tripla doppia, realizzandola proprio nell’ultima partita, ed oltretutto, per una volta, le cifre non dicono neanche tutto delle sue prestazioni.
Quando nelle prime partite Wade faticava ad attaccare il ferro l’ha fatto lui con grande continuità, quando il compagno è entrato nella serie ha favorito le sue prestazioni, ha giocato stabilmente da lungo, e sia contro i Celtics che contro i Thunder spesso e volentieri ha giocato non solo da lungo, ma addirittura con Udonis Haslem (senza scarpe due metri scarsi ed un atletismo ormai svanito quasi del tutto) compagno di reparto.
Fino all’anno scorso lo si poteva sfottere con le stesse parole che Boscia Tanjevic riservava (con una gentile presa in giro più che con sarcasmo, va detto) al suo allievo prediletto, Dejan Bodiroga: “Ad inizio carriera poteva giocare in ogni ruolo, poi solo esterno, quindi solo ala, alla fine solo ala destra!”
Lebron invece nel momento decisivo è tornato quello splendido atleta capace di giocare in ogni ruolo del quintetto che tutti ci aspettavamo di vedere.
In difesa poi, se in precedenza aveva affrontato avversari buoni, ma ovviamente inferiori a lui, come Granger e Deng, o un Pierce in condizioni menomate, in finale si è dedicato ad una marcatura asfissiante addirittura di Kevin Durant, miglior realizzatore dell’NBA, giocatore difficilissimo da limitare, alternandosi su di lui con buoni risultati con Shane Battier.
Per carità, non si può dire che Durant sia scomparso dalla serie, anzi, è stato l’ultimo ad arrendersi, ma gli Heat nel complesso sono stati gli avversari che lo hanno infastidito di più.
Chiusa la parentesi sul giocatore una volta conosciuto come il prescelto, di cui possiamo finalmente parlare soprattutto come di un giocatore di basket straordinario e non come di un fenomeno dello spettacolo e del marketing, possiamo rapidamente passare a parlare di altro.
Un altro giocatore che era ridotto quasi alla barzelletta ed invece è stato decisivo nelle ultime due serie è Chris Bosh. Se da anni si parla nell’NBA di primo e secondo violino o, come tanto piaceva a Shaquille O’Neal, di Batman e Robin, nel fumetto creato da Pat Riley Batman e Robin erano di sicuro Lebron James e Dwyane Wade, lui al massimo poteva ambire ad essere Batgirl, e come tale veniva trattato.
Terzo incomodo nelle conferenze stampa, quando si parlava di Heat quasi ci si augurava che non facesse troppi danni e si accontentasse di essere un gregario. Lo scorso anno si chiedeva, anzi, a gran voce di scambiarlo per un play ed un centro (come se fosse facile, come se non ci fosse mezza NBA in cerca di play o di centri).
Ebbene, lui è tornato dopo un infortunio contro i Boston Celtics, che erano ad un passo dalla vittoria, va detto, ed ha ribaltato la serie, giocando molto vicino a canestro e dando profondità alla sua squadra, contro i Thunder spesso gli Heat hanno giocato con un quintetto veloce, con lui centro e James ala forte, raramente ha giocato con Haslem o Anthony, eppure si è battuto come un leone, prendendo tanti rimbalzi e sgomitando sotto i tabelloni come mai aveva fatto nella sua carriera.
Wade non doveva maturare, doveva togliersi quel sorrisetto strafottente che aveva adottato dopo la famosa conferenza stampa in cui si parlava di portare i talenti a South Beach e tornare quello degli anni precedenti. Lui ha detto più volte che non è più quello del 2006, non ha più l’atletismo per giocare in quel modo, ma quello serve oggi agli Heat da lui.
Se in alcuni momenti contro i Pacers ed i Celtics è stato addirittura dannoso, come in gara 1 contro i Thunder, occorre ammettere che è sempre riuscito a riprendersi ed oltre al famoso trentello contro i Pacers, che ha evitato alla sua squadra di rischiare una bruciante eliminazione al primo turno, contro i Thunder ha saputo essere decisivo.
Una squadra che abbia in campo questi tre giocatori e su di essi punti tutte le sue carte difficilmente può mostrare un basket fluido e bello da vedere. Magari le esigenze di spettacolo possono anche essere soddisfatte da schiacciate funamboliche, contropiede rapidissimi, zompi disumani e tiri fuori ritmo, ma i gusti dei puristi del basket difficilmente saranno mai soddisfatti da questi Heat.
Due realizzatori che vogliono palla in mano ed amano gli isolamenti, oltretutto puntando molto più sull’atletismo che sui fondamentali, un lungo che ama i tiretti dalla media, non è mai stato un gran passatore e fatica spalle a canestro, difficilmente si può miscelare queste caratteristiche e trarne qualcosa di realmente armonico.
Spoelstra non ci è riuscito e francamente chi scrive fatica a ricordare delle finali meno belle da vedere, anche andando molto indietro nel tempo, ma occorre ammettere che l’impresa era titanica. Il coach però è riuscito a far si che ognuno desse alla squadra il contributo di cui c’era bisogno e, soprattutto, ha creato un sistema difensivo che non sarà asfissiante come quello dei Celtics di qualche tempo fa, ma è comunque difficilissimo da attaccare.
Il suo compito non era quello di soddisfare i palati degli appassionati ma era quello di portare la squadra alla vittoria e ci è riuscito. In questi anni è cresciuto con la sua squadra, per poter un giorno essere considerato un grande allenatore dovrà crescere ancora, migliorare nell’abilità di correggere le partite in corso e nella capacità di creare giochi offensivi efficienti, ma intanto le sue soddisfazioni se le sta togliendo.
I comprimari sono stati molto pochi, Spoelstra ha usato la panca meno possibile, dando spazio oltre ai tre solamente a Chalmers, Battier ed Haslem, venendo ripagato alla grande, specialmente da Shane Battier, ma tutti e tre hanno saputo essere decisivi in qualche partita, tutti e tre hanno vestito al meglio gli abiti del fedele scudiero, riuscendo a volte anche a scoccare fendenti importanti.
Anthony è stato utilizzato pochissimo nelle finali, in quanto avrebbe tolto pericolosità all’attacco, mossa che poteva costare carissima contro una difesa buona ed atletica come quella dei Thunder, ma in altre occasioni ha saputo rendersi utile, e proprio nell’ultima partita, quella della vittoria, abbiamo assistito ad una ottima prestazione da parte di un giocatore che fra pochi giorni saluterà gli Heat, Mike Miller.
Miller non sempre è riuscito a rendere come ci si aspettava da lui, specialmente a causa dei tanti infortuni e dei tanti guai fisici, ma nelle poche occasioni in cui è riuscito a presentarsi in forma, come in quest’ultima partita, ha dimostrato che avrebbe potuto essere il giocatore giusto per la panca degli Heat.
Terminiamo con un ultimo ricordo. 28 anni fa in un’altra serie finale l’ex allenatore dei Los Angeles Lakers e dei Minnesota Timberwolves, Kurt Rambis, lanciato a canestro, venne steso dall’attuale allenatore degli Huston Rockets, Kevin McHale, e la cosa suscitò un vero e proprio inizio di rissa fra Lakers, la squadra in cui militava Rambis, e Celtics, la squadra di McHale.
Fra i tanti esagitati fu possibile notare alcuni giocatori mantenere la calma e cercare di separare compagni ed avversari, principalmente Bird e Magic Johnson, ed un tizio che sembrava avere il completo controllo della situazione, un signore alto ed azzimato, con capelli nerissimi pettinati all’indietro, avvolto in una giacca chiara italiana di ottimo taglio e con una improbabile cravatta ad adornargli il collo.
Quello stesso azzimato signore, 28 anni dopo, assisteva fra gli scatenati tifosi di Oklahoma City alla disfatta dei suoi Miami Heat in gara 1, come 28 anni fa impassibile e con le braccia conserte, con capelli sempre pettinati all’indietro, ormai bianchi, non più in un impeccabile completo italiano ma in maniche di camicia, ma sempre concentratissimo su quello che stava avvenendo, sempre imperturbabile e sempre con l’aria di avere il totale controllo della situazione.
Dopo aver creato, assieme a Jerry West, la squadra che ha mostrato forse il gioco più fluido e spettacolare degli ultimi 30 anni, i Lakers dello showtime, quello stesso signore ha creato la squadra con il gioco forse meno bello da vedere degli ultimi 30 anni, questi Miami Heat, ma quello che non è cambiato è il risultato finale: la vittoria.
Fino a che, da allenatore o da dirigente, questo signore azzimato lavorerà con i Miami Heat i tifosi potranno stare tranquilli, perché una bella fetta della storia dell’NBA l’ha scritta lui, Pat Riley.
Ma perchè si deve essere per forza belli per vincere ? Ma in quale libro sta scritta questa regola?
tra l’altro ricordo che in questi canali ci si ammazzava di noia durante Spurs – Pistons, con gente ( non io, a me basta vederla una finale) che sputava su Bowen, che odiava i Pistons per questioni di pelle, che odiava Ginobili perche gli puzzavano le ascelle ( uno scienziato di nome c-Webb)..insomma uno schifo riportato in cifre, calo di audience e una fetta di spettatori con le palle ammosciate che penzolavano su questo canale..
Tra l’altro il gioco dei Miami Heat doveva essere per forza questo, per forza. Tutti a farvi le seghe con lo show time, ma rischiate di fare un altro errore nel valutare le cose, dopo averlo fatto con Lbj.. ocio..
Nello showtime c’era un lungo dominante e il play piu dominante della storia, a Miami non ce traccia di questo. Al massimo puoi usare Lebron come base dello show inizale ma poi servono gli interpreti giusti.. Peccato che di jababr manco l’ombra, cosi come di gente che giocava una pallacanestro troppo distante per tempi e modi.
Ma poi perchè continuare a tirare fuori stili di gioco, campioni del passato ( forse per non tagliare quel cordone posto sulla pancia? )…Jordan ha vinto senza un lungo dominante, senza un play di ruolo e senza un basket da orgasmo nel complesso, quanto piuttoso nel singolo che valorizzava poi il gruppo e viceversa.. Un po come successo a Miami. Inutile tirare fuori stili di gioco, c’e’ chi ha la fortuna di nascere ricco senza nemmeno aver detto mamma , ce chi ha la fortuna di giocare in un determinato contesto e vincere a tappo, e ce chi la fortuna se la deve creare da solo perche tra l’altro le squadre sono 30 e non 8, non 16, non 20 o 24…ma 30 signori!
Mi sembra che a molti piace vedere quello che si vuo, vedere per poi rimangiarsi tutto dopo due secondi.
ed aggiungo una cosa, e magari più di una..
Ogni volta che Miami arriva in finale la cosa mi attizza parecchio, perchè vuoi o non vuoi sono i nomi in se che creano spettacolo. Non ce mai stata una finale con gianni e pinotto, MAI. E pazienza se 20 anni fa qualcno giocava meglio, perche ci vuole altrattanta pacienza a digerire 6 titoli giocati in modo meno spettacolare ma altrettanto efficace. Chiudo con una chiosa. La zemanlandia ( di cui sono un accanito sostenitore comunque) fa miracoli in ogni dove, però nessuno se la incul.. anzi, quasi viene tenuta a distanza dalle grandi piazze.. mentre i catenacciari si infilano scudetti, coppe con le orecchie ( barca a parte) e titoli mondiali. Questo per dire che non sempre lo spettacolo ti porta al titolo ( suns docet) cosi come non sempre il catenaccio e sintomo di forma, quando costretti si cerca un compromesso, una via di mezzo per necessita virtù, un po quello che succede a Miami. Perche sostanzialmente con due giocatori simili in tutto e per tutto, e un roster di gregari ( Bosh a parte, ma decisivo pur non essendo un giocatore che ti fa saltare sulla sedia x tecnica in post quanto piuttosto dalla media distanza) rivitalizzati sul finire perche spinti dall’ondata d’urto lebronesca, anche con Phil – Popovich – o chi volete voi, lo spettacolo resterebbe il medesimo. Spettacolo che ripeto, a me francamente è piaciuto tantissimo. Phatos a grappoli e tensione alle stelle. Giocate da fenomeni, da FENOMENI signori. Magari i vostri figli ( cosi come spero il mio ) un giorno racconteranno quanto successo ieri mattina..
uno dei tanti errori che noto in giro è quello di pretendere la perfezione assoluta da parte di lebron. Se non vince e un perdente, se non tira negli ultimi 20 sec del 4 periodo e un perdente ( poco importa se prima ne aveva messi 10 di fila per dire), se non coinvolge e un perdente, se non la squadra non gioca un bel basket si deve far notare…mica frega a qualcuno che in passato ci sono state squadre poco belle, no.
Detto questo gran parte delle critiche sono state puntualmente smentite nel corso di questi meravigliosi playoff, roba che se ci fosse in giro uno biondo col 33 stampato dietro direbbe di aver visto un apparizzione Mariana nell’ultimo mese. Adesso ci si aggrappa al gioco, ma tant’è..
Per conto mio il solo vedere Lebron e Wade ( e dall’altra Durant) e stato uno spettacolo, voglio dire sono immensamente belli ed emanano fasci di luce abbagliante. Il gioco peraltro è pure migliorato, ma dovrei scrivere un articolo per spiegarlo e mi ci vuole tempo e impegno, cosa che francamente non mi sento in dovere soprattutto di fare, visto che non serve a una cippa agli occhi degli haters..
Poi, ancora, trovatemi una squadra che giochi una pallacanetsro esaltante oggi come oggi, forse solo gli Spurs, ma Duncan si trova in vacanza da un pezzo mi pare.
Heat non belli, ma vincenti, certo, ma Heat-squadra, non più accozzaglia senza regole: difese non meno catenaccio degli Spurs di fine millennio, attacco con poche, semplici regole, ma decisamente corale nelle finals.
Solo contro Indiana si è assistito al duetto tra due solisti, ma, malgrado le difficoltà degli Heat, i Pacers non avevano abbastanza talento per sconfiggerli. Diversamente Boston: se quei vecchietti + super Rondo avessero avuto più benzinae qualche comprimario in più, oggi parleremmo degli autentici big three+1
Si, questo è anche il mio pensiero, mi pareva di averlo fatto capire scrivendo, mi scuso e ribadisco. Gli Heat lo scorso anno erano tre solisti (poi due, poi uno) con un supporting cast, quest’anno sono una squadra, basta guardarli in difesa e basta guardare come cambiano ruolo e modo di giocare a seconda degli avversari in attacco.
PS il paragone con i Lakers dello Showtime c’è non tanto perchè una delle due squadre sia il termine di paragone cui tutti devono conformarsi, ma perchè entrambe le squadre sono state costruite da Pat Riley, che le ha costruite in modo profondamente differente perchè in entrambi i casi non si è preoccupato di creare un tipo di squadra piuttosto che un altro, ma di costruire una squadra vincente, dimostrando la sua bravura sia come allenatore che come dirigente.
non dimenticherei due particolari molto importanti:
– Questa squadra gioca insieme da due anni circa, e dopo un solo anno si è visto un ulteriore step nel gioco.
– La bellezza spesso e un qualcosa di soggettivo, non a tutti piacciono le stesse identiche cose. Poi per spiegare la bellezza del gioco o di quello che i nostri occhi vedono, bisognerebbe aprire un capitolo a parte. A mio modo di vedere assistere ad un Lebron in penetrazione, con palleggio arresto e tiro, che si avventura in post con risultati eclatanti, che tira di tabella, che va in spin move, che la mette col bimani, che dunkeggia sopra il mondo, che difende come uno dei migliori defensive players della storia e che gioca da play, da guardia con tiri dall’arco annessi, da ala piccola, da ala grande e da baby centro con gancetti shaquilliani…beh, direi che la bellezza in questo caso si palesa con tutta la magnificenza della dea venere.