Rose riuscirà a battere da solo la difesa Heat nei Playoffs?

La stagione più frenetica degli ultimi tre lustri: compressa, altalenante, senza dubbio logorante, sta portando a termine il suo primo vero mese di attività. Nonostante non sia ancora tempo di veri bilanci, infortuni permettendo sembra che i valori in campo si stiano delineando con una certa vigorìa.

Ci sono squadre che obiettivamente pochi si aspettavano a grandi livelli, Philadelphia, Indiana e perché no, gli Utah Jazz, sono le prime che vengono in mente, mentre ci sono altre squadre che per diritti acquisiti sul campo l’anno scorso e per “meriti” del mercato forzatamente autunnale, si sono imposte alla ribalta della lega.

Con il bene placido di tutte le altre però, se si deve individuare una squadra leader ad oggi, sono senza dubbio i Chicago Bulls.

La squadra dell’Illinois ha ripreso il lavoro di questa stagione dove l’aveva interrotto la precedente, di fronte ai Miami Heat di Lebron James e Dwayne Wade: ha ricominciato a macinare vittorie con un ritmo insostenibile per il resto della sua division e ad oggi i soli Thunder reggono il passo dal punto di vista del bilancio. Il conto è di 17 vinte e 5 perse contro le 16 e 3 dei rivali di Oklahoma City.

Fare le classifiche di merito è però un esercizio assai pericoloso, soprattutto in uno sport che dopo la regular season mette in scena lo spettacolo, per certi versi totalmente differente dei play-off, dove un tiro, un aggiustamento, una marcatura, possono cambiare le sorti di una stagione sino a quel punto trionfante.

Per questo motivo e per dovere di cronaca è necessario motivare un’affermazione così perentoria: perché dunque, questi Chicago Bulls possono essere considerati ad oggi la miglior squadra della NBA e la prima favorita al titolo prossimo venturo?

Ebbene, con tutte le cautele del caso, in fondo 22 partite su 66 sono giusto un terzo di stagione, gli indizi che arrivano dallo United Center sono parecchi e tutti circostanziati.

Primo le statistiche: ad oggi la squadra che fu di sua Maestà Jordan, segna 96,84 punti a partita, non troppi se vogliamo, ma ne subisce soli 85,84, prima difesa della lega e secondo differenziale fra punti segnati e subito a quota + 11 (per la cronaca il migliore è quello dei 76ers con +11,84).

La squadra è imbattuta in casa, ha un record di 3 a 0 contro le rivali di conference, 8 a 1 contro le avversarie di division, è la sesta della lega per percentuale dal campo (46,4%) e tiro da 3 (38%), la terza per numero di assist 24,47.

Inoltre prende più rimbalzi di tutte ed è la quarta del lotto per stoppate.

Bastano questi numeri per sorreggere la tesi?

No, certamente no, perché i numeri non possono spiegare le cause di un gioco, semmai possono fotografarne gli effetti e per di più sono tutti correlati fra loro: è ovvio che una squadra che vince, segni più degli avversari o abbia statistiche migliori.

Per spiegare i Bulls di quest’anno allora si può dare un’occhiata a chi li guida e anche in questo caso le conferme sono presto verificate: sulla panchina per la seconda stagione, siede in modo sempre più convincente Tom Thibodeau, allenatore di razza, scienziato di una difesa che per i primi 18 anni della sua esperienza lavorativa nella NBA ha messo a disposizione di altri capo allenatori in quel di Minnesota, San Antonio, Philandelphia, New York con Jeff van Gundy in una squadra che per più di 30 volte riusci a tenere gli avversari consecutivamente sotto quota 100 punti, Houston e ovviamente a Boston dove per tre anni è stato un head coach ad interim per e con Doc Rivers, forse più comunicatore pure di lui e quindi più adatto al ruolo peraltro meritatissimo, di allenatore che ha riportato i Celtics sulla vetta del mondo.

Ma anche in questo caso non basta: un allenatore, anche un eccelso allenatore conta fino ad un certo punto, è il campo a parlare.

E in campo parla (poco) e agisce molto di più semplicemente un grandissimo giocatore, l’MVP della stagione 2010/2011, Derrick Rose.

L’ormai ex promesso dittatore della NBA, classe 1988, Rose ha lasciato gli ormeggi che legano un semplice rookie ormai da una ventina di mesi e dopo un inizio di carriera almeno guardingo, si sta prendendo ciò che sembra poter essere suo di diritto: un ruolo di superstar in una lega di superstar.

Sarà perché segna costantemente più di 20 punti a partita (meno dell’anno scorso ma gli assist sono saliti), perché ha firmato il primo contratto da stella della nuova di contratto collettivo e le sue prestazioni non ne hanno risentito se non in meglio, sarà perché il suo primo passo in entrata è stato misurato come il più veloce di sempre, sarà perché ha la capacità di pensare mentre gioca che solo i grandissimi dimostrano, sarà per tutto questo, ma i Bulls hanno finalmente trovato senza dubbio, non l’erede di Jordan, bensì il giocatore che possa fare da architrave per una costanza al vertice per svariati anni.

Ancora non basta?

Giustamente si potrebbe obiettare che la pallacanestro è ancora lo sport più di squadra che ci sia e che in ogni franchigia ci sono 1, 2 3 campioni che stanno nella stessa categoria di Rose, ma senza i medesimi risultati.

Certo, ma se guardiamo alla voce squadra ecco che arrivano le notizie per certi versi migliori.

I Bulls sembrano essere prima di tutto un collettivo e per di più un collettivo con un preciso credo cestistico che sanno applicare con costanza.

La squadra non ha fatto fatica a metabolizzare i concetti che Thibodeau ha cominciato a impartire al suo arrivo in Illinois.

I difetti ci sono, manca forse un secondo trattatore di palla vero e ci sono sin troppi giocatori che amano trovarsi la palla in mano uscendo dai blocchi, ma quello che davvero caratterizza questo gruppo è la personalità.

La personalità è un concetto che esula da numeri o contratti, si tratta non di essere per forza giocatori da trash talking o giocatori abili a giocare più o meno sotto pressione, ma si tratta di sapere sempre quel’è il proprio posto in squadra e saper dimostrare prima di tutto ad allenatori e compagni quando e come si deve parlare e quando invece giocare.

Ed i Bulls, sono una squadra di personalità. Lo si vede nel modo in cui assorbono le inevitabili serate negative e di conseguenza le inevitabili sconfitte.

Sono una squadra che sa che è con la difesa che potranno costruire le proprie fortune, sanno che ad ogni cambio mancato ad ogni rotazione sbagliata il loro gioco potrebbe incrinarsi e quindi sembrano applicarsi con vera ferocia.

Ma sono figure di personalità anche molti giocatori: lo sono con Luol Deng o Carlos Boozer, giocatori importantissimi ma anche prescindibili, come dimostra il gioco di Chicago in occasione dell’infortunio del primo e delle scelte tattiche in alcuni finali di partita per il secondo.

Lo è Joakim Noah, atleta di rara spigolosità, non fluido e forse neppure troppo dotato di talento, ma che proprio con la sua personalità e l’inesauribile applicazione ha saputo convincere prima a Florida al College e poi al suo arrivo nella lega, dove ha cercato di seguire con costanza il detto “tanti nemici, tanto onore”.

Lo sono Kyle Korver, tiratore non timido per antonomasia e Taj Gibson e lo è Rip Hamilton, proprio quel tipo di guardia che forse non era proprio necessaria i nuovi Bulls, ma che porta con se la dota di sapere come è fatta una vittoria, come si giocano i palloni decisivi nei play-off, una merce che i giovani Bulls del 2011 non conoscevano e la cui ignoranza hanno pagato in termini di intensità nella sfida contro gli Heat nella finale di Conference.

Per concludere, i Bulls di quest’anno sembrano semplicemente i fratelli maggiori di quelli che hanno registrato il miglior record della lega nel 2011, che si son giocati l’approdo in finale NBA contro il presunto Dream Team di Miami, quelli che per molti erano ancora acerbi per puntare la massimo alloro.

Questi Bulls sono la versione 2.0, non ancora e non certamente una squadra perfetta, ma in una stagione che si diceva essere compressa, nella quale conteranno le gambe e la testa che le fa muovere ancora più del solito, sono un’ottima candidata per essere la squadra che potrebbe essere la prima a crearsi una dinastia nella NBA del nuovo contratto.

5 thoughts on “Chicago Bulls: sono proprio i migliori?

  1. non sono molto daccordo sul collettivo.. per un semplice motivo… rose mi sembra un accentratore che gioca nel ruolo più importante per la squadra.. il play.. è fortissimo ma coinvolge poco i suoi giocatori.. almeno io la vedo così.

  2. A me questi Bulls ricordano i Cavs di Lebron, un giocatore onnipotente e tanti comprimari. Buoni in RS ma corti ai PO, a meno che Deng non salga ancora di colpi.

  3. Non per forza “accentratore” deve essere un difetto o meglio non lo è per i bulls. Quanti nei bulls sanno creare dal palleggio? Quanti riescono a trovarti l’uomo libero per il tiro?Quanti riescono con acrobazie, tagli, scatti,a spaccarti le difese? Il primo nome che mi viene e, penso, venga in mente alla maggior parte delle persone è il nome di Derrick Rose.Ma la domanda pricipale è: chi sa fare più cose sul parquet nel roster dei Bulls?……sempre D-Rose.Quindi penso sia normale che la palla stia più minuti nelle mani del play di Chicago. Il problema per i coach avversari è sapere che il pericolo pubblico numero uno è il play ma non potersi permettere di raddoppiarlo, per non lasciare spazio ai tiri di deng e hamilton dagli angoli……..per concludere vi faccio un ultima domanda,giuro l’ultima:se i bulls avessero un altro play meno “accentratore” tipo Kidd, Nash,Williams,Rondo,sarebbero davvero così pericolosi?

  4. è ovvio che Rose non è un problema, certo non sarebbero così forti senza di lui, ma come abbiamo visto nei po dello scorso anno nascono e muoiono con rose stesso, perchè non avevano nessun altro pericoloso: boozer è un loser, deng crea troppo poco….servirebbe un altro trattatore di palla, avessero preso jamal crawford al posto di rip parleremmo di un’altra squadra a mio avviso…

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