Può una squadra ritenuta troppo vecchia per puntare al titolo già un anno fa ripetere il miracolo? A dispetto della scontatezza della domanda e delle prime tre partite io credo di sì.
I Dallas Mavericks hanno compiuto una vera e propria impresa la scorsa primavera, quando hanno prima umiliato con un clamoroso sweep i Lakers campioni in carica, poi battuto agevolmente i Thunder, squadra con un’età media di 5 anni più bassa, e infine vendicato la sconfitta delle Finals di 5 anni sugli Heat dei 2+1.
Un achievement frutto di una difesa solidissima, ancorata su Tyson Chandler e passata da 96 punti concessi in regular season a 92.5 nei playoff, di una panchina stratosferica grazie a Jason Terry e JJ Barea (26.4 ppg e 6.6 assist complessivi) e, serie contro Miami a parte, Stojakovic (8.9 punti nelle prime 3 serie, fra cui il bombardamento che ha raso al suolo LA in gara 4), e di ben sei rimonte nel quarto periodo, fra cui due addirittura da -15, ai danni di Oklahoma e degli Heat.
Ma soprattutto l’arma tattica letale di cui la squadra di Mark Cuban ha disposto è Dirk Nowitzki, che da anni è il giocatore migliore nell’allargare il campo in fase offensiva, fra le altre cose, poiché la sua sola presenza obbliga qualsiasi avversario a privarsi di un lungo nel pitturato per riuscire a marcarlo a 8 metri da canestro; questo, e un’impressionante serie di clutch plays (gara 2 e 4 delle Finali) e partite ai limite della perfezione (i 48 con 12-15 e 24-24 in gara 1 delle Conference Finals) hanno definitivamente spalancato all’MVP del 2007 le porte del Valhalla dei GOAT della storia NBA.
Ebbene, i Mavs si presentano ai nastri di partenza della stagione 2011-12 con un roster, e di riflesso un sistema, che hanno perso molti dei propri vecchi punti di forza.
Chandler ha salutato con destinazione New York, dopo una trade a 3 con Knicks e Wizards che ha fruttato la guardia Andy Rautins, immediatamente tagliato, e una futura seconda scelta, ovvero poco e niente, in una mossa chiaramente atta ad abbassare il monte salari; nell’immediato il risultato è stata un’impotenza abbastanza inquietante nel pitturato all’esordio contro Miami (51 rimbalzi concessi, di cui 15 offensivi, a fronte di soli 31 presi).
Un altro starter che ha preso la direzione della Big Apple (per ora di East Rutherford, in realtà), è DeShawn Stevenson, altro ottimo difensore, e hanno lasciato il Texas anche due back-up di grande valore come Barea (firmato da Minnesota) e Stojakovic, ritiratosi dopo 15 anni fra i pro, mentre Rudy Fernandez non si è nemmeno fermato, spostandosi a Denver.
Un discorso a parte merita Caron Butler. Il prodotto di UConn, arrivato per essere il secondo finalizzatore nelle idee di coach Carlisle, si è infortunato al ginocchio a metà stagione e non ha partecipato alla corsa al titolo, venendo rimpiazzato da Shawn Marion, che non lo equivale tecnicamente ma è un difensore e rimbalzista molto migliore. Quindi la sua partenza per LA, sponda Clippers, non ha dato grossi patemi al coach.
Si può dire che la sostituzione dei departed non sia andata completamente a buon fine; infatti, l’unica faccia nuova nel settore lunghi è Brandan Wright, finora uno dei più grossi disappointment degli ultimi anni; l’ala mancina non è stata finora in grado di sostenere le (alte) aspettative degli addetti ai lavori al momento della sua chiamata (n. 8) al draft del 2007, e niente fa pensare che possa esplodere proprio ai Mavs.
Fra gli esterni gli acquisti hanno invece un pedigree un po’ più rispettabile, se non altro, e si chiamano Delonte West, Vince Carter e Lamar Odom.
Il primo (un giocatore dall’arsenale infinito, fuori dal campo però) dovrebbe fare da cambio a Kidd; solo che non è un regista puro, e questo si è visto contro gli Heat e i Nuggets, dove molte delle palle perse (17 con 23 assist nella prima, 19 con 19 nella seconda) sono imputabili a una direzione non chiara dell’attacco e delle spaziature pessime, specialmente con Marion in campo. Infatti Matrix tende ad occupare l’angolo di post basso dove attacca Nowitzki in isolamento, dandogli molta meno libertà di movimento, ed il problema era emerso già a giugno, e ora senza una point guard di razza come back-up rischia di accentuarsi.
Carter è un giocatore che su un minutaggio ridotto può aumentare di parecchio la versatilità dell’attacco, con le sue doti di one-on-one e tiro da fuori, oltre alle sue sottovalutate capacità di passatore, evidenziate soprattutto da Lawrence Frank ai tempi della trade che lo portò ai Nets. Solo che nelle prime uscite ha manifestato un’incapacità tangibile di accettare il proprio declino e la condizione di role-player, insomma Vinsanity vorrebbe ancora sentirsi il centro dell’attacco, ma il primo passo non è più fulminante, e infatti Carlisle non ha passato notti insonni prima di richiamarlo in panchina molto presto a Natale (alla fine ha giocato 20 minuti per un totale di 5 punti e 3 assist).
Lamarvellous è secondo me la miglior chance di repeat per la squadra texana. Odom è un poeta del gioco, un’ala che vive di istinti, nel bene e nel male, e l’espulsione all’esordio ne è la prova. Però ha tutto ciò che ai Mavs manca in questo momento: un grande istinto a rimbalzo (8.9 in carriera, non male per uno che da anni fa stabilmente il sesto uomo), doti da point forward, e una grande intelligenza tattica, tanto da essere stato protagonista all’interno della Triple Post di Phil Jackson. Anche lui si sta ancora adattando al sistema di Carlisle, ma dubito ci possa impiegare più di qualche partita.
Di certo Cuban non ha condotto in porto tutte le trattative avviate per migliorare ulteriormente la squadra; in fondo Dallas è stata accostata a molti dei nomi caldi di questa off-season, da Deron Williams, nativo proprio di Dallas, a Chris Paul, ma soprattutto a Dwight Howard.
Superman sarebbe stato un fit perfetto per i Mavericks, l’intimidatore giusto per sostituire Chandler, ma un’arma offensiva molto più efficace per potenza e verticalità, ma la volontà del giocatore sembra quella di andare in un mercato più “caldo”, come LA o, dall’anno prossimo, Brooklyn.
Ciononostante, i Mavs hanno ancora cartucce da sparare e, con un periodo di adattamento tattico e l’acquisizione di un centro degno di questo nome possono giocarsela con tutti da metà aprile in poi, non con i favori del pronostico, se si pensa ai Thunder o agli Heat, ma neanche battuti in anticipo.
freshman di lingue a milano, a 11 anni si ammala gravemente di NBA grazie a LeBron James (fino a the Decision) e Kevin Garnett; il suo sogno è fare il giornalista sportivo
beh dell arsenale di delonte si ricorda benna l mamma di james
neanche una chance.
ma anche no