Nella storia perfetta di una stagione perfetta, a Dallas, dove un gruppo di giocatori reietti della Lega (chi considerato perdente, chi bollito, chi ormai senza chances nella Lega) ha giocato uno scherzetto storico a tutte le altre 29 franchigie, si inserisce, come l’ultimo pezzo mancante di un puzzle, quella di Rick Carlisle. Un allenatore che a inizio campionato finiva nelle cronache più per la sua incredibile somiglianza con l’attore Jim Carey, che per altro. E che ora, invece, guarda tutti dall’alto in basso, accarezzando il Larry O’Brien Trophy.

Chi meglio di un uomo che ha assaporato il grande traguardo senza mai riuscire ad agguantarlo, finendo poi ai margini ed avendo la netta sensazione che il suo treno fosse bello che passato, poteva allenare gente come Dirk Nowitzki e Jason Terry, ancora ustionati dalla sconfitta del 2006, Peja Stojakovic, resuscitato dopo la “morte” cestistica nella famosa serie contro i Lakers di parecchi anni addietro, Shawn Marion, considerato da tutti al capolinea oltre che sopravvalutato, Jason Kidd, con un’opportunità insperata di redenzione dopo le due sconfitte coi Nets, e JJ Barea, underdog dalla nascita.

In 8 mesi Carlisle è passato da questo...

Rispondere Carlisle al quesito di cui sopra oggi sarebbe troppo facile. Ma analizzando i contenuti ci si accorge di come non potesse essere altrimenti. Un allenatore che poco alla volta è uscito fuori dalla mediocrità in cui sembrava essere piombato proprio quando sembrava che il più fosse fatto. Allenatore dell’anno nel 2002 al suo secondo anno da head coach, un grande gruppo che si stava formando sotto di lui, i Pistons di Billups, Hamilton, Prince (sua scoperta) e Ben Wallace, le finali di conference contro i Nets proprio di Jason Kidd. E poi… si rompe qualcosa. Probabilmente per screzi con la proprietà, la storia si interrompe. Arriva Larry Brown e con lui due Finali e un titolo.

Rick riprende da Indianapolis. E al primo anno infila una stagione da 61 vittorie. Ma, ancora una volta, si ferma in finale di conference, proprio contro i Detroit Pistons che aveva appena lasciato. L’anno successivo ci pensa Ron Artest (ancora a Detroit) a complicargli la vita, con la famigerata rissa del Palace of Auburn Hills. Squadra decimata. Squalifiche epiche. Ma Carlisle trova un modo per portare comunque i suoi al secondo turno di playoff. Ma ormai la maledizione è cominciata. La sua storia con i Pacers termina due stagioni dopo. Ed è il turno dei Mavs.

Con loro due buone stagioni (50 e 55 vittorie) ma anche due brutte eliminazioni al secondo e al primo turno (2010 contro gli arci rivali di San Antonio). Sembra veramente che il treno sia passato per sempre. Bene. Tenete presente tutti questi elementi. Perché è il momento per un po’ di paragoni.

Guardiamo a Nowitzki. Ascesa individuale continua. Il 2006 sembra il suo anno. Gioca una Semifinale di Conference pazzesca e manda a casa gli Spurs vincendo gara 7 sul loro campo. In Finale è 2-0 contro Miami, a un niente dal 3-0. Poi… subentrano gli Heat di Wade e Shaq. Da lì in poi è lo sweep.

L’anno dopo và ancora peggio. Miglior record della Lega. Titolo di MVP. Ed eliminazione al primo turno contro i Golden State Warriors, numero 8 del tabellone. A peggiorare il tutto ci si mettono anche i problemi extra basket, con una donna che cerca di incastrarlo in una falsa relazione sentimentale. Da lì al titolo di “loser” il passo è molto breve.

Continuiamo con Shawn Marion. Per anni accumulatore di statistiche e giocate atletiche nei Suns sempre a un centesimo dal famoso euro. Via da lì non sarà più lui, tra Miami e Toronto.

Ancora. Jason Kidd. Due Finali con i Nets. Da sfavorito e nettamente sconfitto, prima contro i Lakers di Mount Shaq e poi contro gli Spurs del primo Ginobili.

Cosa dire poi di Tyson Chandler, prima scelta dei Chicago Bulls direttamente dall’High School per formare con Eddy Curry la coppia di torri del futuro. Un discreto esordio, mai il salto di qualità. Che sembra arrivare al fianco di Chris Paul a New Orleans, salvo essere scambiato improvvisamente a Oklahoma City, che però lo rimbalza letteralmente per via di problemi fisici (quanto reali non si saprà mai) che sanciscono il suo arrivo a Dallas, in un silenzio quasi assoluto.

Un po’ datata ma buona anche la storia di Peja Stojakovic. Miglior realizzatore della Lega nei primi anni del 2000. Arriva alle Finali di Conference nei Sacramento Kings contro i Lakers, con tutti ben consapevoli che il vincente di quella serie porterà a casa tranquillamente il titolo. La rimonta dei Lakers è nella storia. Come anche l’air ball di Stojakovic che avrebbe potuto cambiare tante cose. E anche qui, parte il declino che pare inarrestabile, oltre alla fama di giocatore che si squaglia nei momenti decisivi.

Insomma, senza continuare a dilungarci, risulta evidente come Carlisle avesse qualcosa a livello umano da condividere con questi giocatori. E l’unità di intenti, la forza del gruppo che i Mavs hanno sempre dimostrato nei playoffs, l’incredibile volontà nel recuperare partite sulla carta già perse ne sono una dimostrazione. Come si dice dall’altra parte dell’oceano, Carlisle ha convinto i giocatori, che a loro volta hanno “comprato il suo sistema di gioco”.

Già, perché tra le tante cose, questi playoff ci lasciano i capolavori tattici che è stato in grado di creare dalla panchina l’uomo che fu compagno di squadra di Larry Bird. Da sempre amante delle statistiche e dell’advanced scouting, tanto da portare nel suo staff il fondatore del sito 82games.com, se si analizza il lavoro di Carlisle ci si accorge come in ogni serie sia stato in grado di trovare, prima o dopo, ma mai troppo tardi, i quintetti giusti per scardinare le difese avversarie, risultato frutto di tutto questo lavoro su numeri e video tape.

Anche la propensione alle alchimie tattiche e al modificare rotazioni e quintetti (cosa non proprio usuale in NBA) ha giocato un ruolo fondamentale. Solo per rimanere alle Finals basta ricordare il cambio in gara 4, con Barea inserito in quintetto al posto di DeShawn Stevenson. Mossa che ha ribaltato la serie, mettendo contemporaneamente in ritmo entrambi.

Barea con più minuti e più libertà ha abusato di Bibby in difesa e aperto praterie per i suoi compagni, mentre Stevenson, entrando a gara in corso, ha segnato come mai aveva fatto nelle 3 partite precedenti, dando un contributo sostanzioso alla produttività della panchina texana.

E che dire di Brian Cardinal e Ian Mahinmi, buttati in campo senza alcun timore nel momento dell’infortunio di Haywood e pronti a dare il loro contributo importante nelle partite decisive della serie.

... a questo!

Non finisca poi nel dimenticatoio il lavoro difensivo del coach da Ogdensburg, New York, sapiente utilizzatore della difesa a zona che ha irretito i Miami Heat anche nella decisiva gara 6, durante il primo tempo quando sembravano voler allungare le mani sulla partita da subito, salvo bloccarsi e finire sotto di 12 lunghezze. Poi nel secondo, senza questi riscontri statistici, ma togliendo comunque ritmo a Wade e soci.

Quest’efficacia della zona ha portato a grande fiducia nei propri mezzi da parte di tutti i Mavs, con Kidd capace di reggere il confronto con James, dopo che Marion aveva fatto un lavoro egregio, e Stevenson che sudava sette camice ma rendeva difficile ogni canestro di D-Wade.

E proprio qui, in definitiva, sta il capolavoro di Rick Carlisle. Aver creato un unico sentore a livello tecnico e umano che ha portato questi Dallas Mavs a non sentirsi mai inferiori a nessuno. Mai sconfitti in nessun momento di una partita. In nessun momento di una serie, anche dopo sconfitte dolorose come quella in gara 4 a Portland, con rimonta epica dei Blazers guidati da Brandon Roy che poteva evocare pericolosi fantasmi, o dopo il tonfo casalingo di gara 3 delle Finali.

I Mavs, guidati da Nowitzki e dal coach, dentro la loro testa sono passati da essere quelli che in ogni momento potevano perdere contro chiunque, a quelli che non dovevi mai dare per morti.

La cosa di cui andrò più orgoglioso di questo titolo è la durezza che hanno mostrato i ragazzi. Posso assicurarvi che questa è la squadra mentalmente più solida in cui io sia mai stato. E ve lo dice uno che ha giocato con il miglior Larry Bird.”

Amen, Rick. Questo è soprattutto merito tuo.

15 thoughts on “Rick Carlisle e i Dallas Mavs, destini incrociati

  1. Decisivo, al pari dei sui ragazzi sul campo. Il suo capolavoro rimane la “tenuta mentale” che è riuscito a dare alla squadra, in questi playoff quando veniva inquadrato per aver chiamato un time-out, non ho mai visto del panico nei suoi occhi. E poi c’è l’aspetto tecnico, ma si sapeva che da questo pinto di vista era uno bravo bravo…

  2. Saper allenare, motivare e trovare soluzioni in corso non è cosa da poco. Nella NBA dove le gerarchie sono ferree far accettare al gruppo, per il suo bene, dei cambiamenti non è facile. Sono passate da sculacciate epiche, quella con i Blazers grida vendetta, ma quei cali spaventosi nel rendimento non hanno fatto altro che cementare ancor più un gruppo.

    Gruppo non giovane ma formato da gente con la testa sulle spalle. Non ci sono pagliacci, star bizzose ma gente che ha sempre lavorato duro. Non ricordo Kidd, Peja, Dirk, Jason, Tyson, Shawn… fare casini e rendersi colpevoli di caxxate extracestistiche o con i compagni o peggio ancora di avere un ego pazzesco. Questo alla lunga ha premiato perchè per un coach è più facile far accettare scelte dolorose se dall’altra parte c’è Nowiztki piuttosto che un gangsta.

    • Mettere Kidd fra quelli che non hanno mai avuto vicissitudini extrasportive mi sembra eccessivo: nel 2001 è stato arrestato (e condannato a seguire un corso di gestione della rabbia) per aver pestato come un tappeto la prima moglie. In quel periodo è cosa nota che avesse anche un problemuccio con l’alcol.

  3. Vero, il fatto di avere un gruppo di giocatori “malleabili” ha fatto il gioco di Carlisle, anche se i caratterini non mancavano (Terry, Stevenson…).
    Merito di Carlisle gestirli, ma anche di Cuban nel metterlo a capo di un gruppo consono alle sue caratteristiche.

  4. tutto vero. tuttavia, secondo me questo è un successo irripetibile. diciamo che la vittoria del titolo ha chiuso un ciclo. kidd ha 38 anni, marion 33, terry 34, chandler 29, nowitzki 33. barea ha fatto i miracoli ma… è un buon panchinaro, nulla di +. stevenson 30, peja 34, haywood 32. Insomma, difficile pensare che possano essere ancora protagonisti, anche contando sul ritorno a pieno ritmo di butler (29 anni) e sui miglioramenti di Rodrigue Beaubois (23 anni).
    Carlisle è comunque un grande coach, vediamo come farà a guidare la transizione dalla vecchia dallas ad una nuova e competitiva dallas.
    Un appunto: artest giocava ad indiana, non a detroit

    • quando dice” artest(ancora a detroit)” si riferisce al palazzetto dove è successa la rissa…!

  5. Grazie FD91 :-)

    Sul fatto che il ciclo dei Mavs sia chiuso sarei portato anch’io a dirlo, ma visti i Celtics che dovevano essere morti già da qualche anno e invece sono ancora lì, Steve Nash che ogni anno doveva essere al tramonto e solo quest’anno ha cominciato a declinare sul serio …
    Insomma, attendo ancora un attimo.

  6. Complimenti a Rick Carlisle

    …”se si analizza il lavoro di Carlisle ci si accorge come in ogni serie sia stato in grado di trovare, prima o dopo, ma mai troppo tardi, i quintetti giusti per scardinare le difese avversarie,”….

    gli attacchi vendono i biglietti e vincono i titoli.

    “Non finisca poi nel dimenticatoio il lavoro difensivo del coach”…

    ci mancherebbe.

  7. 8gld
    Non si può dire che Dallas non avesse difesa, ha sfruttato al massimo la zona che era perfetta per difendere gli isolamenti di LBJ e DW. Spoelstra non è stato capace di fare altrettanto. Miami difendeva più duramente ma anche in modo meno duttile, vista la versatilità dell’attacco texano.
    Secondo me è più facile prendere le misure ad un singolo che prenderle di volta in volta ad una squadra che ti può attacare in molti modi diversi. Merito, tutto, di coach Carlisle!

  8. Grande articolo, e soprattutto molto veritiero. Quest’anno i Mavericks sono stati una macchina eccezionale, e grande merito va anche a Carlisle perchè di certo non erano la squadra con più talento. Forse quella con più giocatori di qualità, ma non quella con più talento. Eppure hanno sempre mantenuto la calma, e il coach è stato bravissimo da una parte a trasmettere tranquillità e dall’altra a trovare un posto a tutti i giocatori. E’ la prima regola per un allenatore: vuoi che i tuoi giocatori si fidino di te e di quello che gli dici? Allora devi essere tu per primo a fidarti di loro. Carlisle lo ha fatto, e il risultato è sotto gli occhi di tutti.

  9. Carlisle ha usato la difesa a zona contro gli isolamenti di LBJ e Wade…

    In certi momenti sembrava la Grecia contro gli USA!!!!!!!!!!

    Ma non ditelo agli americani eh?

  10. Per carità! :-D

    Tra l’altro è in arrivo Messina in casa Lakers che spiegherà 2/3 cose sulla zona a coach Brown…

  11. @Ape

    “Secondo me è più facile prendere le misure ad un singolo che prenderle di volta in volta ad una squadra che ti può attacare in molti modi diversi. Merito, tutto, di coach Carlisle”!
    Concordo e sottoscrivo.

    Non metto in dubbio la difesa di Dallas ma l’attacco di Miami. Una Miami che ha proposto una valida difesa a un attacco monotematico.
    Una finale che premia l’attacco racchiuso dalla tua frase ad una fase difensiva costante ma un attacco “asfittico”.

  12. Ciao nik, bell’articolo, ma vorrei farti notare un’imprecisione: dopo quella famosa serie con i Lakers Stojakovic non ebbe per nulla un declino, anzi, produsse le migliori 3 stagioni in carriera seguenti a quella del 2002. Il declino iniziò l’anno da FA a Sacramento, quando fu tradato a Indiana per Artest, li iniziò la stagione con l’ernia del disco e il suo rendimento crollò.

  13. Ammetto di essere andato un pò a memoria, my bad.
    Comunque, il concetto che volevo sottolineare era come quel tiro sbagliato lo avesse segnato per il resto della sua carriera.

    Ad ogni modo, grazie per la correzione! :D

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