Curiosa a volte la vita.
Nella stagione che dai posteri verrà ricordata come quella del tracollo dei Lakers nell’ultima stagione del più vincente coach della storia della NBA, con un 4-0 subito da Cuban e dai suoi Mavericks che pur vecchio ormai di qualche giorno ancora non fa dormire i tifosi di L.A., Lamar Odom riceve il suo riconoscimento individuale con il “Kia Sixth Man of the Year Award”. Primo lacustre nella storia ad essere insignito di questo premio.
Un plebiscito da parte dei votanti, che ha visto trionfare l’ala dei Lakers con 513 punti (il massimo era 585, e per ben 96 votanti su 117 era il primo nome indicato per il premio) davanti a uno dei suoi giustizieri dei playoff, Jason Terry che per la seconda volta di fila dopo aver vinto il premio nel 2009 si accomoda sulla piazza d’onore (l’anno scorso fu sopravanzato da Jamal Crawford, che quest’anno ha patito un notevole calo sia di percentuali dal campo che di punti, da 18 a 14), rivalendosi appunto nel 4-0 della postseason in cui nella quarta e ultima gara ha piazzato un irreale 9/10 da tre punti.
14.4 punti, 8.7 rimbalzi, 3 assist, 53% dal campo e 38% dalla lunga: queste le cifre che hanno portato i votanti a nominarlo migliore sesto uomo della stagione.
Presente in tutte le 82 partite, 47 volte si è alzato dal pino, mentre le altre 35 è stato uno starter, molte delle quali ad inizio stagione causa convalescenza di Bynum dopo l’operazione. Tutto questo dopo un’estate in cui ha guidato un giovane Team USA, con cui aveva vinto il bronzo ad Atene 2004, alla conquista della medaglia d’oro ai Mondiali in Turchia a settembre, facendo da vero ago della bilancia della squadra e sfoderando ottime prestazioni (soprattutto nei momenti clutch e in fase difensiva) contro le compagini europee che attentavano al titolo iridato, convinti che quella degli americani non fosse la miglior formazione possibile e che c’erano i margini per giocarsela.
Anche se non a livello puramente statistico si può senz’altro dire che questa sia la sua miglior stagione da quando approdò ai Lakers nell’affare Shaq nell’estate del 2004.
Di sicuro il difetto fattogli più spesso notare, la continuità, quest’anno c’è stata e spesso è stato il vero grattacapo delle avversarie dei Lakers trovare le risposte a un Odom che usciva dalla panchina.
Pochi giocatori in NBA, presente e passata, hanno le capacità fisiche e tecniche per coprire tutti e 5 i ruoli del quintetto, e Lamar è uno di questi. Non a caso il suo paragone dopo i tre anni al college a Rhode Island era, anche se irriverentemente, nientemeno che Magic Johnson: del resto dove mai si era visto un 2.08 per 105kg con quelle capacità di ball-handling, quella velocità e quella visione di gioco?
Dopo 12 anni di carriera NBA ovviamente non possiamo metterlo sullo stesso piano di Magic, ma più che per il talento e la capacità di stare in campo questo è dato da una fragilità mentale che spesso ha mandato Lamar in confusione durante la sua carriera, impedendogli di trovare appunto quella grande continuità e quel risalto proprio dei veri campioni.
Non a caso dopo anni di buone statistiche ma risultati mediocri ai Clippers (che lo draftarono), una discreta stagione a Miami (che lo firmò per 65 milioni in 6 anni salvo usarlo come pacchetto per Shaq con Butler e Grant) e i primi anni a combattere nel deserto insieme a Kobe con compagni di squadra del calibro di Kwame Brown e Smush Parker, è stato con l’arrivo di Gasol ai Lakers che Odom ha fatto il definitivo salto di qualità.
Un terzo violino (forse anche quarto considerando Bynum) vero e proprio, senza troppi occhi addosso o esagerate aspettative, ma consapevole della tremenda importanza all’interno dello scacchiere dei Lakers.
Phil Jackson l’ha spostato in panchina per fargli guidare la second unit in un primo momento, e per inserirlo al posto di Bynum negli ultimi e decisivi momenti delle partite. Difficile ricordare una partita tirata e importante di L.A. senza il nativo di New York in campo al posto del Bambinone…
E molto spesso il suo apporto è stato decisivo alla fine delle sorti della sua squadra: se Odom girava difficile vedere i suoi sconfitti al 48’, se era in giornata no si apriva ogni tipo di possibilità per l’avversario di turno.
Come dichiarò in seguito non fu facile per lui accettare la situazione dopo 9 anni passati in quintetto: “A causa del mio spirito competitivo, in un primo tempo feci fatica ad accettarlo. Mi ricordo quando Phil mi spiegò ciò che voleva da me: tornando in spogliatoio vidi Pau, Kobe, Fisher e Bynum e all’improvviso capii, la nostra squadra sarebbe diventata molto più profonda in questo modo”.
Lo stesso Jackson saputo del premio ha dichiarato: “E’ un riconoscimento meritato per un giocatore che ha vestito un ruolo davvero importante per noi negli ultimi due anni”, mentre anche Kobe faceva le congratulazioni al suo compagno di squadra: “Sono molto contento per lui. Il premio è estremamente meritato”.
Ora dopo l’eliminazione da parte dei Mavs l’estate sarà dedicata probabilmente al reality di cui è protagonista, “Khloe & Lamar”, insieme alla moglie, una delle prezzemoline sorelle Kardashian che vanno tanto nei programmi di gossip e negli stessi reality al di là dell’oceano. Sperando trovi anche il tempo di prepararsi alla prossima stagione, in cui i suoi saranno chiamati al riscatto per di più senza Jackson in panchina.
Peraltro si vede confermata la maledizione sul premio.
Da quando fu assegnato il primo nel 1983 solo quattro giocatori hanno poi vinto il titolo, e tre di questi nei primi quattro anni di esistenza del Sixth Man Award… L’altro fu Toni Kukoc nel 1996.
Il riconoscimento è meritatissimo, e come hai detto te al di là delle cifre è stata la sua migliore regular season della carriera…magari non ha giocato nettamente meglio rispetto alle altre, ma un po’ meglio sicuramente sì. Addirittura il tiro da 3 gli entrava con continuità! Complimenti a Lamar, giocatore fantastico…
…premio meritato…peccato che nei playoff sia naufragato insieme al resto dei gialloviola…