Con questo mini-articolo iniziamo una rubrica in cui, senza addentrarci nell’analisi a 360 gradi di una serie specifica (già ampiamente coperta dagli articoli dedicati a ciascuna di esse), cercheremo di sottolineare alcuni spunti tattici che emergono qua e là in questi playoffs: non un pasto completo, ma uno stuzzichino da sgranocchiare tra una partita e l’altra.
RICK CARLISLE E IL SUO QUINTETTO “SPERIMENTALE”
Nell’analizzare la vittoria di Dallas in gara 1, molti commentatori hanno sottolineato i motivi per cui il risultato finale sarebbe “bugiardo” e difficlmente ripetibile: il 6/10 da tre di Jason Kidd, il rendimento al tiro da fuori dei Mavs in generale (considerando solo i tiri da due e i liberi, il risultato finale sarebbe stato 75-59 in favore dei Blazers), i tanti fischi arbitrali a favore di Nowitzki nel quarto periodo.
In realtà il pallino tattico della gara è stato quasi sempre in mano ai Mavs, che hanno confermato di non essere affatto spaventati dalle due armi preferite di McMillan: la zona, vivisezionata con precisione e trovando sempre i “soft spot” giusti, e l’utilizzo da “quattro tattico” di esterni puri come Wallace o Batum, che per la maggior parte della sfida sono stati in netta difficoltà contro i quintetti più lunghi dei Mavs.
L’unico momento in cui la situazione si è ribaltata, e Carlisle è sembrato aver perso il controllo della situazione, è stato nel periodo a cavallo tra la terza e la quarta frazione di gioco, quando i Blazers hanno piazzato due netti parziali di 10-2 e 11-2, arrivando al loro massimo vantaggio dopo aver inseguito i Blazers per quasi tutta la gara.
Un mutamento improvviso, derivato non tanto dalle scelte di McMillan, che non ha fatto niente di diverso dal resto della gara, quanto da quelle di Carlisle, che ha improvvisamente, ed inopinatamente, deciso di mettere in campo un estemporaneo gruppetto di esterni Barea-Terry-Stojakovic: scelta difficilmente comprensibile, che ha scatenato gli esterni avversari e al tempo stesso inaridito l’attacco dei texani.
Carlisle ha la fortuna di avere un roster molto profondo, che nel corso della stagione ha sfruttato distinguendosi per essere uno degli allenatori più “estroversi” nel mescolare le proprie carte, utilizzando moltissimi quintetti diversi: tanto per fare un esempio, la sua “top unit” in termini di minuti giocati in stagione (Barea-Terry-Marion-Nowitzki-Haywood) ha giocato in tutto 350 minuti, mentre i Lakers, per fare un confronto, hanno un quintetto da 760′ (Fisher-Bryant-Artest-Gasol-Odom) ed un altro che ne ha giocati 950′ (gli stessi di prima ma con i due lunghi Odom-Gasol).
I tifosi di Dallas si augurano che, in questa serie, Carlisle metta da parte le sperimentazioni, soprattutto perché i matchup sembrano favorevoli alla sua squadra, e quindi non è necessario strafare, e la prossima mossa spetta a McMillan; in particolare, Marion da 4 in questa serie sembra improponibile, mentre in gara 1 si è rivelato molto efficace da ala piccola.
IL DOPPIO PLAYMAKER DI NEW ORLEANS
Si è parlato molto dei fattori che hanno permesso agli Hornets una netta e meritata vittoria in gara 1 sul parquet dei Lakers: la prestazione mostruosa di Chris Paul, la nottata indimenticabile dei peones Gray, Green, Smith e Mbenga (complessivamente 11/14 dal campo e 24 punti), il crollo della difesa gialloviola sui pick and roll, che nel resto della stagione era stata più che competente), l’assenza non giustificata di Gasol e Odom.
Dal punto di vista tattico, però, l’elemento più interessante ed innovativo si è rivelato l’utilizzo massiccio del doppio playmaker Jack-Paul da parte di Monty Williams: soluzione adottata per 17 minuti complessivi, compresi gli ultimi 9′ di partita, durante i quali gli ospiti hanno messo a referto un sontuoso +16 di plus minus, eguagliando inoltre un record assoluto di squadra nei playoffs con sole tre palle perse in tutta la partita (una per quarto nei primi tre periodi, nessuna in quello conclusivo).
Ci sono tre ragioni che rendono la scelta di Monty particolarmente sorprendente:
– il fatto che non sia un tema tattico ricorrente per la sua squadra: in tutta la stagione Jack e Paul sono stati in campo contemporaneamente per più di 8′ soltanto in due occasioni, il 16 febbraio contro Portland e il 14 gennaio contro Houston;
– il fatto che appare alquanto azzardato pensare di schierare un backcourt così limitato fisicamente proprio contro i Lakers, una squadra a cui quasi chiunque (e New Orleans in particolare) deve già concedere tanti centimetri e chili sotto canestro;
– il fatto che, anche quando ha utilizzato questo quintetto, Williams non ha rinunciato al “cross-match” di Ariza su Bryant, realizzando un curioso accoppiamento di uno dei due play con le ali dei Lakers.
A questo punto non ci si può esimere dal sottolineare come il prolungato utilizzo di questa coppia atipica sia dipeso da evidenti mancanze dei gialloviola: a rigor di logica, un accoppiamento del genere avrebbe dovuto essere punito severamente, sfruttando il mostruoso mismatch tra un’ala piccola (peraltro molto potente, come Ron Ron, o atletica, come Barnes) e un playmaker, ma i padroni di casa non ci sono riusciti quasi mai.
Le squadre di Phil Jackson sono solite partire lentamente, per poi ingranare le marce via via che una serie si sviluppa, utilizzando magistralmente gli aggiustamenti in corsa che sono il sale di ogni serie di playoffs NBA: quando Monty Williams tenterà di nuovo di giocarsi questa carta, il coaching staff gialloviola dovrà farci vedere una valida ed immediata contromossa.
Siamo tutti nella fogna, ma alcuni di noi guardano alle stelle. O. Wilde
Sono ormai troppi anni che i Lakers vanno in cerca di una point guard decente e non hanno trovato niente (Atkins, Smush Parker, Farmar e adesso Blake) Fisher era già vecchio due anni fa, ora può solo tirare fuori dal cilindro i suoi soliti trucchi da veterano ma non ha più di 15-20 minuti di qualità nelle gambe.
Alle squadre di Jackson non sono mai serviti dei veri playmakers perchè l’attacco a triangolo non prevede un unico portatore di palla, in più i Lakers non giocano praticamente mai in contropiede vista l’età media del roster.
Per battere squadre con esterni troppo veloci bisogna semplicemente forzarli a prendere tiri dalla distanza, se i Lakers riescono a formare una zona difensivamente devastante entro i 5 metri e chiudono bene le linee di passaggio hanno la serie in mano.