Lo sport professionistico americano è basato su un criterio di equità, che poi questa sia teorica o pratica questo è un altro discorso, ma il principio è quello.
In un mondo ideale, difatti, tutte le squadre dovrebbero godere di una pari opportunità per competere alla vittoria del titolo Nba, ragione per cui l’ordine del Draft tiene conto delle prestazioni stagionali delle squadre ponendole in ordine inverso, in modo da garantire la scelta migliore ad una delle compagini più scarse del campionato precedente.
La Nba fa sola eccezione per il meccanismo di lotteria, spesso discusso, dove l’estrazione della pallina durante l’intervallo di una partita di playoffs per la prima scelta assoluta fa da anni grande audience, e dove viene opportunamente scelto un rappresentante delle franchigie coinvolte per portare più o meno fortuna ai propri colori.
Ad ogni modo, il concetto varia di poco.
Il Draft è strutturato in modo tale da aiutare le squadre più deboli a ricostruire in fretta, tornando in breve nel giro della competitività, e dà la possibilità di scegliere quindi i migliori talenti uscenti dal college, che quindi vanno ben distanti, come noto, dalle compagini che hanno appena vinto il titolo o che hanno percorso tanta strada in postseason, con la sola eccezione di qualche vecchio scambio, il quale può mettere una franchigia già forte nelle primissime posizioni di scelta per via di diritti ceduti in passato.
Ai giorni nostri il concetto di equilibrio non è del tutto rispettato, le squadre-parcheggio (termine del quale spiegheremo a breve il significato) stanno aumentando sempre di più ed alla fine a godere dei frutti dei movimenti di mercato sono spesso le medesime squadre, con la conseguenza del mantenimento di quello spaccamento che traccia una linea netta tra le quattro o cinque protagoniste in grado di competere per il titolo lasciando inesorabilmente indietro chi ha meno potere di spesa, chi ha un mercato poco attraente per i free agents, o semplicemente chi non è riuscito a tenere il proprio gioiello scelto al Draft oltre la scadenza del contratto firmato da rookie.
Le franchigie degli anno ottanta, giusto per fare un esempio che valga per tutti, potevano accedere al lusso di usufruire di una scelta alta in particolari annate di crisi, dalle quali scaturivano arrivi importanti per le sorti della lega stessa quali Michael Jordan, Magic Johnson, Larry Bird, Hakeem Olajuwon e Patrick Ewing solo per citarne alcuni dei tanti, tutti giocatori che non solo hanno vestito per tutta la loro carriera la stessa maglia (lasciamo perdere il Jordan di Washington e la parentesi canadese di The Dream…) erigendosi a bandiera di una particolare squadra, ne hanno soprattutto modificato positivamente intere pagine di storia attraverso prestazioni memorabili ed invidiabili collezioni di trofei, sia corali che individuali, pur non riuscendo tutti a vincere l’agognato titolo Nba.
Quelle squadre costruivano attorno al loro campione, aggiungendo talento attorno alla classe cristallina e gregari che potessero fare la differenza, con la sicurezza che sarebbero potuti essere competitivi per un decennio. Anche le franchigie odierne, sia chiaro, utilizzano le stesse modalità di assemblamento del loro roster, con la differenza che il business che ci gira attorno e le numerose distrazioni, complicazioni e giri d’affari che attanagliano il mondo della pallacanestro statunitense hanno intensamente modificato il concetto del vecchio legame tra maglia e giocatore.
Tanti campioni, in passato, hanno umilmente servito i propri colori aspettando per anni l’occasione d’oro per vincere il trofeo più importante. Oggi, non appena arrivano le prime difficoltà, è sufficiente mettere in giro voci di richiesta di una trade, ed il fatto che la propria squadra rischi perennemente di perdere la propria superstar per nulla all’arrivo della free agency non fa che porre costantemente il coltello dalla parte del manico direttamente nelle mani del giocatore interessato.
Le due recenti operazioni di mercato che hanno portato Carmelo Anthony a New York e Deron Williams nel New Jersey possono essere interpretate come una diretta conseguenza dell’eccessiva (e per alcuni versi vergognosa – ndr) attenzione verso The Decision, l’evento che ha catalizzato la scorsa offseason e che ha creato una serie di eventi le cui conseguenze saranno calcolabili tra qualche anno.
Da questo punto di vista, David Stern rischia seriamente di perdere il controllo della situazione, perché questi giri concatenati potrebbero sul serio minare la qualità del prodotto che il Commissioner vende con tanto successo in tutto il globo.
Viene lecito chiedersi quanta voglia reale abbiano di vincere un titolo le superstar di oggi, in che misura antepongano il desiderio di un Larry O’Brien Trophy alla sicurezza del proprio conto in banca, e soprattutto come mai possa emergere una squadra minore semmai è capace di tenersi il talento in casa.
Cleveland ha perso tutto il proprio radioso futuro nel momento stesso in cui James ha firmato per gli Heat. Denver è stata encomiabile per come ha affrontato il presente campionato essendo continuamente tormentata dalle voci di Carmelo verso New York, New Jersey, Los Angeles, e chissà quante altre ancora. Utah è crollata fuori dalla postseason senza riuscire a gestire i suoi dissidi interni, perdendo nel giro di pochissimo tempo l’amato coach Jerry Sloan, e la nuova coppia pick’n’roll che avrebbe dovuto dar seguito allo Stockton to Malone per gli anni a venire, e parliamo di Deron Williams e Carlos Boozer.
La chiamata alle armi, intesa come reclutamento estivo, studiata da Dwyane Wade in estate per raccogliere a sé James e Bosh potrebbe provocare chissà quanti accordi taciti tra giocatori, creando i presupposti per restare tranquillamente parcheggiati (ecco il senso della squadra-parcheggio – ndr) presso la squadra di selezione originaria spillando quanto più denaro si riesca, ottenere magari un prolungamento più ricco, e nell’ultimo anno cominciare a lamentare la mancanza di opportunità per vincere un titolo. La serie di eventi che ha portato Amaré Stoudamire e Carmelo Anthony a New York con la gradita compagnia di Chauncey Billups non è altro che una risposta neanche tanto velata agli Heat, ed in estate potremo sapere chi si aggiungerà a Williams e Lopez per creare un altro trio delle meraviglie ai Nets.
La Nba sta inavvertitamente concedendo di formare plotoni di superstar alle squadre con più soldi, che possono talvolta permettersi di pagare la tassa di lusso imposta dalle regole sul salary cap. Squadre come gli Utah Jazz preferiscono ottenere qualcosa di sostanzioso in cambio della propria superstar piuttosto che passare sei mesi come li hanno passati a Denver, o passare da contender a squadra da lotteria nel giro di pochi istanti come accaduto a Cleveland.
Seguendo questo ragionamento, la permanenza ai piani alti della Nba è garantita più o meno alle stesse squadre, proprio come nelle grandi dinastie costruite in passato, e le condizioni di equità rischiano di cadere come un castello di carte. Il destino della lega non può essere quello di diventare un luogo dove periodicamente si riuniscono i suoi più grandi giocatori costruendo in maniera carbonara delle squadre fortissime in grado di vincere tutto e subito, perché i fans delle meno abbienti potrebbero stancarsi presto del giochino. Ed alcuni proprietari potrebbero anche compromettere seriamente il rinnovo del contratto collettivo, che sembra uno degli argomenti caldi della prossima estate.
Ci sono sempre le dovute eccezioni, rappresentate ad oggi da Derrick Rose, Dwight Howard e Kevin Durant, tre giocatori fortissimi che hanno avuto la fortuna di capitare in squadre già molto competitive (i Bulls), o costruite attraverso sagge mosse di mercato tra ricostruzione e lungimiranza (e qui l’esempio di Sam Presti ai Thunder è più che calzante), e che al momento hanno piene probabilità di disputare una finale Nba in tempi brevi (Howard, peraltro, vi è già riuscito).
Tuttavia, la maggior parte dei giocatori più in vista della Nba non la pensa così, e fa scaturire numerosi quesiti. Per quanto tempo ancora la prima squadra a scegliere al Draft potrà ritenersi fortunata per tale privilegio? Quali sono le mosse corrette da effettuare per evitare di farsi sbancare da un giovane in rampa di lancio per poi soffrire vedendolo vincere da un’altra parte dopo avergli fatto da chioccia per l’ingresso nel mondo professionistico? In queste condizioni, quanto tempo ci metterà una superstar che sta facendo maremoti come Blake Griffin prima di decidere di abbandonare una squadra cronicamente incapace di qualificarsi per i playoffs come i Clippers?
Sono tante domande, ma prima o poi qualcuno dovrà fornire le risposte per ognuna di esse. E dovranno essere convincenti.
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.
beh, la soluzione migliore (non a caso osteggiata dal sindacato giocatori) è quella di un salary cap rigido, al più commisurato alle varie e diverse fiscalità presenti negli stati Usa. in questo modo tutti i team potrebbero spendere esattamente la stessa cifra, questo potrebbe aiutare a pareggiare l’appeal dei singoli team. certo, Milwaukee non sarà mai vista come los angeles, però.. la capacità dei gm di costruire squadre vincenti gestendo con oculatezza i soldi del team potrebbe fare la differenza. Ah, team vincente chiama sponsor, tv, marketing.. vediamo se stern riesce ad imporre quanto sopra (come si lasciò sfuggire l’owner dei wizards qualche mese fa (http://it-it.facebook.com/note.php?note_id=130414987010602)
Direi che l’NBA e lo sport americano in generale ha già dei sistemi interessanti per limitare il potere di acquisto dei singoli e fare di tutto per fornire a tutti le stesse possibilità di costruire la squadra … certo più che il calcio in europa che da 40 anni è ad appannaggio delle solite 6 grosse squadre Spagnole, Inglesi ed Italiane, il resto è una palta informe che non ha nessuna speranza di portarsi a casa nessun grosso nome.
Sarei contento di vedere un ulteriore sforzo in questa direzione, anche se vorrei ricordare che quello di Miami è un caso unico in questi anni dove storicamente i team con il salary cap più alto negli ultimi 10 anni, New York e Dallas, non hanno mai vinto niente.
L’abilità di Miami è stata anche quella di sapersi tenere stretta Wade, liberare lo spazio salariale necessario ed ammiccare sensuale a LeBron e Bosh.
Tra l’altro non c’è nulla di veramente nuovo sotto il sole, da sempre i giocatori sul finale di carriera convergono in squadre comuni per darsi a vicenda l’opportunità di vincere un titolo, gli ultimi furono Payton e Karl Malone ai Lakers (disastrosi), anni prima fu Barkley che raggiunse Olajuwon e Drexler ai Rockets (poi venne Pippen in cambio di The Glide) … quello che fa tanto rumore ora è che si tratta di giocatori giovani che hanno una reale possibilità di portarsi a casa il titolo negli anni a venire, a differenza dei vecchietti in sovrappeso di cui sopra.
Ora Anthony va a New York, e onestamente credo sia un bene perchè qualcuno, da qualche parte, dovrà pure opporsi al Re ed ai suoi cavalieri della palla rotonda.
Ma c’è una differenza tra LeBron a Miami e Melo e NY e che sfugge a molti:
A Miami LeBron e Bosh (e Wade) si sono “accontantati” di circa il 70% del massimo salariale, pur di fare il trio, lasciando anche un pò di margine alla franchigia per il supporting cast.
A NY prima Amar’e e poi Melo hanno preteso il massimo salariale, soprattutto Melo, che poteva aspettare, arrivare in estate (a questo punto con il contratto più basso di quello attuale, ma con attorno un supporting cast (Chandler, Gallinari, Mozgov, Felton) nettamente migliore di Miami, ma soprattutto con cartucce ancora da sparare per arrivare alla terza star (Paul?).
Adesso, tra salary cap e assenza di contropartite, voglio vedere le prossime mosse di mercato di NY…
Non vorrei che “The Decision” abbia distrutto il mercato NBA. Vengono portati molti esempi degli anni precedenti come analogia alla scelta del trio Wade-James-Bosh. Spesso però non si tiene conto di una cosa: l’età. Quando Malone e Payton raggiunsero Shaq&Kobe, erano abbondantemente sopra i trenta, stesso dicasi per Drexler a Houston, Garnett e Allen a Boston con Pierce…I tre di Miami sono ancora tutti sotto i trent’anni, e questo significa che avrebbero avuto tutto il tempo di “provarci da soli”, a differenza degli altri che dopo anni di assalti al titolo, vedendo che il fisico non consentiva più di essere le prime punte di una squadra e la finestra temporale molto ridotta, si sono fatti “arruolare” da altre squadre. Per me, la differenza è solo questa. E, sarà un caso, ma è da quest’estate girano le voci di questi agglomerati di campioni…
Personalmente non trovo nulla di diverso da quello che si può creare con la scelta di Lbj.
Dal dopo guerra a oggi su 64 titoli ben 52 sono stati suddivisi tra 7 franchigie.
Di questi 52 ben 33 sono finiti su due sole piazze….inutile riportarle.
Quindi di quello che si parla oggi è un vecchio “retaggio”.
Come andrà a finire non lo sappiamo, di sicuro franchigie che hanno poche possibilità di arrivare fino in fondo ci saranno il prossimo anno come ci sono state sempre.
Nota positiva è che le franchigie che provano a metter mano sul roster per creare una “dinastia” non sono le solite.
Forse “oggi” è meglio di “ieri” visto che le piazze stanno cambiando.
Una Nba più competitiva?
ridurre le franchigie di 4 ed eliminare la luxury tax, lasciando un tetto salariale uguale per tutte senza poterlo sforare.
Ma quest’ultimo passaggio difficile si attuerà (come il primo del resto).
Articolo interessante per il contenuto ma in molti tratti affronta questioni “soggettive”.
Vero, le piazze stanno cambiando ma non è necessariamente un bene. Qui stiamo parlando di una lega che vede 4 squadre giocare per il titolo, e le altre stare a guardare. Questo è il punto che l’articolo vuole veramente toccare. Che poi il vecchio non sia poi così tanto peggio del nuovo siamo d’accordo perché anche prima i titoli andavano sempre in due massimo tre posti, ma il significato del tutto è che il salary cap e la free agency alla fine non hanno spostato gli equilibri come dovevano, ed il mercato Nba è peggio del mercato del pesce, c’è gente di transito in squadre solo perchè ha un bel contratto scaricabile, e gm che non sanno dare ai giocatori il giusto valore, facendoli diventare dei girovaghi.
in verita questa lega non e mai stata equilibrata quindi tutti questi discorsi lasciano il tempo che trovano anche perche i fatti dicono il contrario.
negli anni 60,i celtics hanno vinto 8 titolo di seguito,negli anni 80 vincevano celtics e lakers.negli anni 90 c’e stato la ditattura di mj e dei bulls.nel post-jordan,9 dei 12 disputate sono state vinte dai lakers e spurs quindi quando mai questa lega e stata equilibrata e va detto che negli anni 60 e 80 c’erano meno squadre,di conseguenza non sono affatto convinto che il salary cap fisso o la riduzione delle squadre siano la soluzione al problema.
A mio avviso già che le piazze cambino è un bene. Su 64 titoli più della metà le troviamo su 2.
Sicuramente alla fine saranno in 4 a giocarsi il titolo ma a “oggi” non sono solo 4 che possono arrivare alla fine ma 8 1\2. Boston-Chicago-Miami-Orlando-Dallas-S. Antonio-Okc-Lakers…..Portland.
A queste, alcune dovranno rimettere mani al roster, nei prossimi anni potranno aggiungersi o prendere il posto altre franchigie.
Per poi trovarne altre che rimarranno nell’ “anonimato”…..in alcuni casi “fisiologico”.
Che ci siano gente di transito perchè hanno un bel contratto “scaricabile” non lo vedo un problema ma, per come strutturato, normale.
Sono d’accordo, invece, sul discorso gm.
Ma questa è una parte “soggettiva” e da analizzare con le “pinzette” visto i vari scambi che hanno fatto sempre discutere o “l’oggettiva” incapacità o difficoltà.
Vedere Cavs negli ultimi anni o okc-clippers-etc. etc. per il futuro.
Soggettivo perchè le vie possono essere varie tipo: o sei bravo-o non sei bravo- o non ti interessa nulla rimanendo una franchigia parcheggio (minnesota? etc. esempio di franchigia con materiale). Sei bravo firmi l’atleta/i, prendi un coach ( a mio avviso importante…vedere chicago) e con il tempo sviluppi. Non sei bravo: basti guardare Cavs…..con il presidente che rilascia dichiarazioni ridicole. O non ti interessa rimanendo una franchigia parcheggio per lo sviluppo di altre.
Quello che molte volte si vede non è tutto, molte volte dietro ci sono accordi-favori-difficoltà.
A me personalmente già così piace l’idea e trovo che “oggi” sia meglio di “ieri” a proposito di opportunità.
Si vuole ancora più concorrenza? I giovani nei primi tre anni non escono dal college arrivando più preparati. Togli la luxury tax e metti un salary uguale per tutti e basta (65 ml). Già questo non sarebbe male non ritrovandoti le grandi piazze che sforano alla grande potendosi permettere i campioni. La professionalità, fondamentale, evitando che piccole o grandi piazze (vedere NYK) vengano gestite da soggetti che con il basket non hanno sicuramente nulla a che vedere.
I tanto chiacchierati Miami hanno un salary ad “oggi” di 65ml così fino al 2012/13. Oggi Boston e Lakers, giusto per riprendere le 2 famose, sono a 82 e 91. I lakers, salvo blocco o novità o scambi o etc. etc., si troverà 2013/14 con un salary di 61 ml con solo 4 atleti firmati ( due di questi sono Artest-Blake) ed uno a 30ml. Ma queste sono cifre che non tutti VOGLIONO o POSSONO permettersi. Dargli torto? allora trovi chi cerca Mj o Duncan. Chi ha una stella e prova a giocare di squadra (chicago) o chi, sapendo che non potrà arrivare a determinati livelli, lavora sulla gestione, sul far quadrare i conti e sul guadagno (vedi proprio luxury) rimanendo nell’anonimato. Poi ci sono le piazze non ricercate…..ma rimane di secondo piano.
Una cosa sicura? la Luxury non verrà toccata.