Nel settembre 2010 la nazionale di basket statunitense è tornata a gustare il sapore di essere campione del mondo. Una selezione giovane senza la presenza di superstar del calibro di Kobe Bryant, LeBron James o Dwayne Wade.
La vittoria per la rappresentativa allenata da coach Mike Krzyzewski è arrivata grazie alla voglia di lottare e di conquistare un titolo particolarmente sentito da giocatori non considerati (ancora) delle stelle assolute.
Kevin Love, Rudy Gay, Eric Gordon, Russell Westbrook e naturalmente Kevin Durant sono stati coloro che dopo aver dato un impronta giovane a team USA, hanno visto considerevolmente migliorare le loro prestazioni nella stagione NBA in corso.
Ma uno su tutti ha beneficiato particolarmente dall’avventura turca, e non stiamo certo parlando di uno alle prime armi: il suo nome è Lamar Joseph Odom.
E’ innegabile che l’impatto di Odom in questa edizione dei Los Angeles Lakers è di un importanza capitale per le sorti dei bi-campioni NBA. Proprio per il fatto di essere la chiave di volta dei gialloviola, per molti (compreso il sottoscritto) la scelta di tenerlo fuori in occasione dell’All-Star Game che si svolgerà proprio nella “sua” Los Angeles, ha lasciato un pò di stucco. Naturalmente chi ci è andato né ha pieno merito e pieno diritto, ma le speranze di vederlo scendere in campo insieme ai migliori giocatori del pianeta per la prima (e forse ultima) volta, erano tante.
Dunque per tanti motivi alla fine Lamar Odom non è stato convocato, il “premio alla carriera” non c’è stato, anche se il numero 7 gialloviola sta disputando una stagione di tutto rispetto, con 15.2 punti di media, 1 in più rispetto alla media in carriera, la migliore percentuale dal campo dei suoi 11 anni tra i pro e una presenza a volte devastante sotto le plance (9.5 rimbalzi a partita).
SALVATO DAL BASKET? DA NEW YORK ALL’NBA
Nato nel Queens, quartiere di New York ad alta densità cestistica, figlio di un eroinomane, ha visto mancare i suoi genitori all’età di 12 anni, quando la madre è morta a causa di un cancro al colon. Fu cresciuto e messo sulla retta via dalla nonna Mildred: avrete certamente capito che il “nostro” non deve aver passato un infanzia/adolescenza come noi la intendiamo, ma siamo di fronte ad un lottatore, uno che nonostante tutti i guai capitatigli per colpa sua in primis ma anche per sfortune assortite, può dire di avercela fatta. All’High School fu eletto Parade Magazine Player of the Year, quando nel 1997 aveva già cambiato 3 (tre) licei. Era partito da Middle Village, NY e passando per Troy, sempre nello stato di NY, fini’ la sua carriera liceale in Connecticut. Come detto ricevette quell’ambito premio che lo consacrò come uno dei prospetti più promettenti d’America: fu inserito nel primo quintetto All-USA e in occasione del torneo AAU (Amateur Athletic Union) giocò e conobbe il suo attuale compagno ai Lakers, Ron Artest.
I problemi caratteriali e non, lo perseguirono anche all’Università. Aveva scelto quella di Las Vegas, UNLV, dove però fu coinvolto nello scandalo che portò alla condanna del programma atletico, reo di “regalare” dei benefits agli studenti-giocatori, fra i quali c’era Odom, che a quanto pare ricevette 5600 $, e che cosi non vesti’ mai la maglia dei Rebels. Ma indossò quella dell’University of Rhode Island dopo aver saltato a causa di quei problemi legali, la stagione 1997-98.
Andando quindi a giocare non troppo lontano da casa rispetto al Nevada, Odom giocò una stagione ad altissimi livelli, quella 1998-99, annata in cui i Rams vinsero il loro primo titolo della Atlantic 10 conference, grazie a una tripla allo scadere indovinate di chi. Ovvio che fosse di Lamar Odom che cosi, avendo anche delle statistiche di tutto rispetto (17.6 punti, 9.4 rimbalzi e 3.8 assist), si dichiarò ellegibile per il draft NBA del 1999, quando fu scelto dai Los Angeles Clippers, che fanno del lungo di Jamaica, New York, la quarta scelta assoluta di quel draft. Dopo aver esordito con “soli” 30 punti e 12 rimbalzi nella prima gara assoluta fra i grandi della NBA, chiuse la stagione nel primo quintetto All-Rookie, ma i problemi erano li pronti a scoppiare quando nel Novembre 2001 fu per la seconda volta sospeso per aver violato le regole anti-droga della NBA. Ammise di aver fumato marijuana e dopo qualche mese lasciò Los Angeles per Miami.
L’esperienza agli Heat, con l’allora rookie Dwayne Wade, fu molto positiva, la migliore dal punto di vista realizzativo della sua carriera (17.1 a partita). Dopo aver giocato i playoffs, Lamar venne incluso nella trade che portò Shaquille O’Neal a South Beach e tornò cosi a Long Beach, dove avrebbe vissuto un esperienza certamente diversa rispetto alla prima, questa volta nei pluridecorati Lakers di Kobe Bryant.
UNA TREMENDA TRAGEDIA E UNA NUOVA VITA AI LAKERS
Arrivò alla corte di Rudy Tomjanovich, che da li a poco venne esonerato e sostituito da Frank Hamblen, attuale assistente di Phil Jackson, tornato, dopo solo un anno di lontananza, alla guida dei Lakers nella stagione 2005-2006. Coach Zen ha sempre considerato Lamar un punto chiave sul quale ricostruire una squadra da titolo e lo dimostrerà negli anni successivi fino ad oggi.
Ma proprio nel 2006, in uno dei momenti migliori della sua carriera ed esattamente tre anni dopo la scomparsa della più che amata nonna Mildred, la vita sempre tormentata di Lamar subisce l’ennesimo colpo da knockout: la figlia di sei mesi, Jayden, muore di “Sudden Infant Death Syndrome”. Un improvvisa e tragica notizia che ovviamente fa pensare al neo-Laker di lasciare il basket.
Ma da li in poi, grazie alla grande forza di volontà che lo ha sempre contraddistinto, la carriera di “Lamervellous” in gialloviola subirà un cambiamento verso il meglio, verso l’olimpo NBA: un crescendo di prestazioni che lo porteranno a contribuire in maniera decisiva agli ultimi due titoli NBA vinti con i Los Angeles Lakers. Nella stagione 2006-07 registra il suo “high” in termini di punti in gialloviola (15.9) e in quella successiva in termini di rimbalzi (10.6).
Con l’arrivo di Pau Gasol nel febbraio 2008, la concorrenza per Lamar si fa sempre più difficile. Andrew Bynum e il catalano sono i titolari, ma LO prima accetta e poi onora al massimo il suo nuovo ruolo da sesto uomo. Partendo dalla panchina si dimostra l’arma più letale che coach Phil Jackson ha a disposizione. 78 partite nella stagione 2008-09 e 82 in quella seguente vedono una drastica diminuzione delle statistiche, ma in parallelo, un devastante aumento dell’efficacia nei momenti decisivi: Lamar è sempre in campo quando la partita è in bilico e nei playoffs i suoi minuti sono sempre di qualità.
Non è una power forward, Lamar Odom, è il classico giocatore “all-around”: può tranquillamente dare inizio alla Triple Post Offense in qualità, diciamo cosi, di “playmaker”, ma può anche marcare e bene i lunghi avversari. Avrebbe le possibilità di essere (quando c’è con la testa) sia il miglior attaccante in campo, con la sua abilità di andare sia a destra che a sinistra e di tirare dalla media e dalla lunga distanza, sia il miglior difensore, bravissimo com’è nel ruotare e nell’adattarsi a qualsiasi tipo di avversario e anche il miglior rimbalzista, bravo com’è nel prendere posizione anche contro gente più alta e più grossa.
Ecco, quel particolare che ho sottolineato, quello della testa, è stato uno dei principali limiti nella carriera, potenzialmente da All-Star, di Lamar Odom. Snervante e frustrante per un suo fan vedere il numero 7 accendere e spegnere la corrente a suo piacimento. E’ forse questo il perchè Odom non è mai riuscito ad entrare nell’elite NBA: anche quest’anno gli è stato preferito qualcun’altro, ma quello che conta per il marito di Kloeh Kardashian, è far bene nella postseason e rivivire quei giorni di giugno degli ultimi due anni, quando insieme a Kobe Bryant e a Pau Gasol ha alzato al cielo il Larry O’Brien Championship Trophy.
Unbreakable. E’ il profumo di Lamar e consorte che in questi giorni sta spopolando con degli spot televisivi. Ma è sopratutto il miglior aggettivo, il miglior titolo che si possa dare alla vita prima e alla carriera poi di un ragazzo cresciuto con tantissime difficoltà ma venuto fuori alla grande, come veramente pochi avrebbero saputo fare, dalle mille impervie strade che la sua esistenza ha intrapreso. Chapeau, Mister Odom!
(Pubblicato anche sul blog Romanzo Gialloviola)
è un grande…
pensare che quando entrò in nba veniva dipinto come il nuovo magic,lo stesso riley accettò in parte il paragone.
invece con gli anni,pur con caratteristiche diverse,ha dimostrato di essere molto più simile ad un kevin garnett,soprattutto per come agisce nella propria metà campo…
mentalmente non è uno forte,solo per questo non è una stella che partecipa ogni anno all’all star game…
se parliamo di talento,anche nella nba del 2000 che ha visto l’esplosione dei numeri 4,lui da questo punto di vista è uno dei lunghi più talentuosi che si siano visti negli ultimi anni.
ha tutto,velocità,palleggio,tiro,visione di gioco,cordinazione,istinti,fisico,braccia lunghe.
se vogliamo trovargli due difetti,io direi che in qualsiasi situazione usa praticamente solo la sinistra,mentre in attacco non ha un movimento forte,nel senso che fa bene tutto ma gli manca quel movimento affidabile da usare in situazioni di emergenza,anche per questo ai tempi pre gasol ai lakers non ha mai dimostrato di poter essere per kobe quell’affidabile secondo violino offensivo…
detto questo,nei due titoli vinti è stato molto più decisivo nel 2009 rispetto al 2010.
sta disputando la miglior regular season da quando è ai lakers,molto più continuo.
anche se in realtà dall’arrivo di gasol in poi si è sempre dimostrato all’altezza del suo nuovo ruolo,ovvero quello di terzo violino di una squadra che lotta per il titolo…
Se i Lakers vanno avanti cosi’ e anche Lamar, quest’anno sale a secondo violino; visto il letargo dei lunghi
ahahaha non sapevo che Kris Humphries e Odom fossero “quasi” cognati
Lamarvellous è un gran giocatore, polivalente anche se credo che gli manchi quella cattiveria che avrebbe reso ancor più grande la sua carriera!!
PS incredibile come sia cambiato fisicamente dal college ad oggi.. basta guardare la dimensione dei bicipiti nelle foto di Rhode Island e quella dei Lakers!!
Grande, grande, grande giocatore. Si avevano molti dubbi sulla sua tenuta caratteriale, e invece ha dimostrato di poter essere anche un vincente oltre che un talento sopraffino. Uno dei giocatori più affascinanti della NBA attuale secondo me, capace veramente di fare la differenza con il suo stile di gioco. Va bene, ha delle lacune, ma è ovvio…altrimenti staremmo qui a parlare di un extra-terrestre! Il tiro dalla media e da 3, ad esempio, va e viene, ma per il resto parliamo di uno dei migliori lunghi in circolazione: ottime qualità di passatore, buon attaccante, grande difensore…veramente forte.
un ottimo giocatore, che da oggi (grazie alla lettura di questo articolo) apprezzerò ancora di più: basti pensare all’utilità di un lungo, che può giocare da 3 (sovradimesionato, e quindi con un buon vantaggio fisico sia in attacco sia in difesa) o da 4, che però può tranquillamente venire a prendere palla sulla rimessa perchè il tuo play è pressato e la porta nella metà campo d’attacco: è una piccola cosa, ma può evitare molte situazioni che porterebbero a un TO o a una brutta gestione dell’azione…
concludo dicendo: un lungo del genere è una rarità, i lakers fanno bene a fargli finire la carriera lì, a tenerselo stretto…