Il 2011 è appena arrivato, e come tutti gli anni nuovi ha quella sua simpatica abilità nel farti sentire di un anno più esperto… anzi no, diciamocelo, più vecchio.
Gli sport invece, lo sanno tutti, sono per i giovani: l’NBA in questo momento è di Kobe, classe ’78, con Odom e Artest, classe ’79, e Gasol, classe 1980; fra poco sarà magari di Lebron, classe 1984, o di Durant e Westbrook, classe ’88.
Ma appunto all’alba del 2011, spulciando per bene l’albo dei giocatori in attività, troviamo atleti che sembrano arrivare da un’altra era geologica, che in gioventù si sono confrontati con gente come Michael Jordan e Hakeem Olajuwon e che oggi sono ancora qui a contendere un rimbalzo a DeMarcus Cousins (1990) o a tirare sulla testa di un John Wall (1990).
Giocatori che sono ormai lontani parenti di quelli che erano nei loro anni migliori, ma che nonostante tutto sono ancora qui a lottare, a sudare, a scendere in campo.
Alcuni di loro sono ormai semplici panchinari, altri sono ancora nonostante tutto degli ottimi giocatori: tutti hanno alle spalle carriere uniche, nel bene e nel male, che in molti casi spiegano perfettamente perchè sono ancora in attività, e perchè non hanno alcuna intenzione di mollare.
Vediamo chi sono.
Grant Hill
Classe 1972, figlio di Calvin Hill running back dei Dallas Cowboys all’inizio degli anni ’70, è stato terza scelta assoluta dei Pistons nel draft del 1994, cioè nell’anno del primo ritiro di Michael Jordan, quello che l’Alieno passò giocando a baseball, tanto per darvi un’idea…
Parliamo dunque di un giocatore che ha affrontato MJ al suo meglio, proprio negli anni del suo secondo three-peat a Chicago.
Ebbene? Ebbene Grant Hill è ancora qui che gioca, e non tanto per far numero o per problemi di soldi: è titolare a Phoenix e segna 15 punti a partita, con 5 rimbalzi e 2 assist e una media di 30 minuti a sera (!?).
Cosa ha fatto dal 1994 ad oggi?
Tante cose, ma una in particolare: possiamo dire che come giocatore è morto, e quindi è risorto.
Grant Hill è stato Lebron 15 anni prima di Lebron: ala piccola, grande passatore, atleta eccelso, ha rischiato la tripla doppia di media stagionale per diversi anni. E senza essere 125 chili.
1996: 20.2 punti, 9.8 rimbalzi, 6.9 assist.
1997: 21.4 punti, 9 rimbalzi, 7.3 assist.
E avanti così per tutte le sue 6 stagioni a Detroit.
Poi il passaggio ad Orlando, dove abbiamo rischiato di perderlo.
7 stagioni, di cui una saltata interamente e altre 3 da non più di 21 partite. 200 partite giocate in 7 anni (media di 28 giocate a stagione). 3 operazioni alla caviglia (problemi alla cartilagine). 6 mesi di antibiotici per un’infezione da staffilococco. Un’ernia inguinale. Un giocatore finito.
Infine, la resurrezione a Phoenix. 3 stagioni, 13 partite saltate, fra cui una stagione da 82 partite e una da 81.
Oggi Grant Hill non è più quello che tirava giù i canestri con le sue schiacciate, e se si avvicina al ferro lo fa generalmente per depositarci delicatamente all’interno la palla col suo elegante sottomano: ma gioca per divertirsi, per inseguire il suo sogno di vincere un titolo, e soprattutto perchè oggi può giocare.
Dopo anni passati in infermeria, oggi è un esempio di longevità cestistica, a cui tutti chiedono consigli su alimentazione e fitness. Chi l’avrebbe mai detto?
Shaquille O’Neal
Altro classe 1972, altro vecchietto terribile.
A pensarlo giovane e inesperto, oggi proprio non ci si riesce: eppure anche lui la sua gavetta l’ha fatta, inclusa una finale NBA persa contro la Houston di Hakeem Olajuwon, e una finale di conference persa contro i Bulls di Michael Jordan, quelli del 72-10, forse la migliore versione di sempre.
Da allora, in pochi possono dire di averlo sconfitto: 4 anelli, 3 con Los Angeles e uno con Miami, tanto spettacolo in campo e fuori, uno dei pochi veri centri dominanti della storia della Lega.
Cosa ci fa allora ancora qui quest’anno, con la maglia biancoverde degli ex acerrimi rivali di Boston, a giocare solo 20 minuti a partita per portare a casa 10 punti e 5 rimbalzi a partita?
Beh, questa è facile, la sapete tutti. Negli ultimi anni Shaq ha giocato esclusivamente per un motivo: vincere il quinto anello e dare fastidio al suo ex socio Kobe Bryant. Quest’anno poi ha un motivo in più: evitare che Kobe vinca il sesto anello e se ne vada poi in giro a dire che è come Jordan, anzi meglio.
In fondo, un nobile motivo per essere ancora a 38 anni in canotta e calzoncini, non trovate?
Juwan Howard
Classe 1973, fisico perfetto, tante storie da raccontare: Juwan è una specie di leggenda vivente.
E’ infatti l’ultimo rimasto in attività dei mitici Fab Five, i 5 freshman dell’Università di Michigan che negli anni 1991 e 1992 rivoluzionarono la pallacanestro mondiale, sia sul campo (2 finali consecutive, sebbene perse, con un quintetto di soli giovanissimi) sia soprattutto fuori dal campo. Canotte XXXL, bragoni sotto le ginocchia, sneaker nere: l’onda lunga delle mode lanciate in quegli anni da Webber, Rose, King, Jackson e appunto Howard è arrivata fino ad oggi.
Ala centro dalla tecnica sopraffina, a livello di high school era nettamente il miglior prospetto della nazione: il coach di Michigan Steve Fisher riuscì infatti a reclutare i magnifici 5 convincendo per primo Juwan, dopodichè, con quel biglietto da visita, fu un gioco da ragazzi far arrivare i vari Webber, Rose e Jackson a vestire la maglia giallo blu.
Entrato in NBA un anno dopo gli amici Webber e Rose, ha disputato una carriera di tutto rispetto anche se probabilmente non al loro livello: non è mai stato un go-to-guy né un giocatore particolarmente aggressivo in attacco, per questo nonostante 13 stagioni in doppia cifra per punti solo in una ha superato i 20 di media.
Gli anni migliori della sua carriera sono stati i primi, quelli di Washington: poi ha girato molto fra Dallas, Denver, Orlando, Houston fino ad arrivare a Portland lo scorso anno dove, a causa dei soliti infortuni dei lunghi dei Blazers è stato impiegato, a 37 anni, per oltre 20 minuti di media.
16 stagioni passate sui campi NBA, con 1116 partite disputate gli potevano bastare?
Evidentemente no, visto che questo autunno l’abbiamo visto ricomparire sulla panchina dei Miami Heat dei 3 Amigos.
Il motivo? Chiaro: vincere l’anello.
Ma come ha spiegato lui stesso recentemente ad ESPN, intervistato da Jalen Rose, l’anello lo vuole vincere non solo per sé, ma per tutti i Fab5, perchè è uno scandalo che nessuno di loro sia riuscito a vincerne nemmeno uno in tutte le loro brillanti carriere.
Webber e Rose, a sentir loro, in caso di vittoria di Miami sarebbero già pronti per catapultarsi in spogliatoio col classico magnum di Champagne e anche a farsi fare una “replica” dell’anello di Campione di Juwan. Sempre che Miami riesca a vincerlo.
In fondo, i Fab5 sono solo stati sfortunati a nascere nel ’73, invece che nell’88: fossero nati 15 anni più tardi, dopo 7 stagioni di NBA avrebbero scelto una squadra e ci sarebbero andati a giocare tutti insieme come free agent. In fondo i 3 Amigos sono stati solo più furbi, ma Howard comunque è lì, pronto a sfruttare l’occasione della vita…
Tracy Mc Grady
All’anagrafe, Tmac è ancora giovane: a maggio compirà 32 anni, un anno più giovane di Kobe.
Ma sportivamente parlando, sembra suo nonno.
Il fisico è sempre stato croce e delizia per McGrady: 205 cm, braccia lunghissime, pochi muscoli ma grande agilità, una mano infallibile da fuori e 2 gambe esplosive per schiacciare… ma anche una schiena di cristallo e una sequela infinita di piccoli e grandi acciacchi che non gli hanno mai permesso di concludere una stagione con 82 partite giocate.
Dal 2003, anno in cui terminò con 32 punti, 6,5 rimbalzi e 5,5 assist di media, le sue cifre sono state un calando continuo, e non perchè avesse disimparato a giocare: ogni anno che passava, la schiena continuava a peggiorare, e il suo strapotere fisico diminuiva, come pure le partite giocate a stagione.
Dopo le sole 65 partite giocate negli ultimi 2 anni fra Houston e New York, il cugino di Carter sembrava ormai l’ombra di se stesso, un giocatore pronto al ritiro, bastonato dal destino, che non gli ha mai dato in 13 anni di carriera nemmeno una vittoria in una qualunque serie di Playoffs.
E invece quest’anno è tornato, col minimo salariale e senza il posto in squadra garantito, con la casacca dei Detroit Pistons. La squadra è quella che è, la chimica è scarsa e il talento mal distribuito, ma qualche minuto uscendo dalla panchina Tracy ha cominciato a ritagliarselo.
Fisicamente sta meglio, anche se è chiaro che non sarà mai più quello della reverse all’ All Star Game: ma le mani sono sempre d’oro, e i Pistons hanno in programma di utilizzarlo da playmaker al posto di quell’analfabeta del gioco che è Stuckey.
Ma la domanda è: perchè uno come lui, col suo passato da All Star, con tutti i soldi che ha fatto, accetta un ruolo così limitato, accetta di mettere a rischio il suo corpo, la sua schiena martoriata? Per cosa?
Lui sostiene di non essere un giocatore finito, e che farà parlare il suo gioco per lui: ma indipendentemente dalla sua voglia di rivincita, anche lui sa che gli anni in cui poteva essere il trascinatore ormai sono andati, ora potrà essere al massimo solo un buon giocatore.
Magari Detroit non sarà la squadra più adatta alle sue caratteristiche, ma il fatto che sia ancora lì a sbattersi e a sudare quando potrebbe starsene in panciolle nel suo villone di Orlando a godersi i dollari dei tempi d’oro, beh questo gioca sicuramente a suo fare.
Perchè se grandi campioni come lui, Hill, Shaq, Juwan accettano ancora dopo anni di carriera sfolgorante di scendere in campo con un piccolo ruolo per coronare un sogno, o per voglia di riscatto, o per sete di rivincita… beh il loro esempio spiega meglio di 1000 parole il concetto di “Love of the Game”, che è poi il motivo per cui anche noi, dopo tanti anni, siamo ancora qui a guardarli e a fare il tifo per loro.
Buon 2011 a tutti.
Max Giordan
segue l’NBA dal 1989, naviga in Internet dal 1996.
Play.it USA nasce dalla voglia di unire le 2 passioni e riunire in un’unico luogo “virtuale” i tanti appassionati di Sport Americani in Italia.
Email: giordan@playitusa.com
articolo stupendo…. si questa è l essenza di questo magnifico sport!
Grande articolo, e direi che in piccolo questo editoriale dice anche perchè ci sono persone che seguono la NBA e ne scrivono non per soldi o per chissà quale tornaconto, ma semplicemente per passione. Come avviene qui su playitusa.
bellissimo articolo!!!!
Si, c’è da dire che per quanto da un certo punto di vista la costanza di Shaq sia ammirevole, dall’altra parte è la personificazione del concetto di prostituzione sportiva.
Accodarsi a qualsiasi club con un potenziale da titolo senza mai restare per una seria costruzione è veramente un atteggiamento odioso, puro e semplice opportunismo.
Miami, Phoenix, Cleveland e ora Boston, nessuno di questi passaggi è stato fatto senza il suo consenso (e sotto sua richiesta), la sua stagione alla corte di LeBron è stata palesemente una mascherata, ora la firma al minimo salariale con i Celtics si spiega da sola.
Quello di Grant Hill si che è un comportamento corretto, i suoi anni a Phoenix sono certamente per la conquista del titolo, ma è anche e sopratutto mettersi al servizio di una squadra che al titolo ti ci può portare … non accasarsi ovunque il titolo sia “possibile”.
il tuo ragionamento è giusto, però io sono sicuro che tra 10 anni i bambini che si avvicineranno al “nostro” fantastico mondo dell’nba si ricorderanno più di shaq che di juwan o grant hill, questo è poco ma sicuro… nonostante tutto, shaq è statov una parentesi clamorosa di questo mondo, oltre al parquet, ha cambiato casacca, è andato dall’est all’ovest a inizio carriera e ha dominato, poi è tornato all’est… insomma un personaggio fondamentale, penso che da un certo punto di vista parlare di attaccamento a una maglia, è si importante, ma non tutti nascono (cestisticamente parlando) a san antonio con coach popovich, e l’ammiraglio, e manu “potevo vincere l’mvp ogni anno ma non ho mai fatto abbastanza numeri sopra al ferro per vincerlo” ginobili… è tutta una questione di coincidenze, se shaq fosse stato draftato a san antonio sarebbe stato tutto diverso, aldilà della sua attitudine di “non imparo a tirare i liberi”, no? ciao e complimenti per il fantastico articolo, che mi ha fatto conoscere i fab 5 di Michigan state, olè!
grazie, bellissimo articolo!!!
ecco…ora non mi sento più così vecchietto :D
Povero Tracy. C’é da dire pero’ che neanche da sano riusciva a fare la differenza nelle partite importanti…mistero…
Tra i veterani che giocano ancora (poco, molto poco eh) in nba mi piace ricordare anche Joe Smith che scalda la panca ai lakers al minimo salariale 15 stagioni in nba classe ’75, jason williams classe 75 che scalda beatamente la panca ad orlando (undicesima stagione nba)
però io aggiungerei anche la storia di “Zed” ilgauskas, classe 1975 tutta una clamorosa serie di infortuni e nonostante ancora li a giocare come starter in una squadra da titolo come Miami
Earl Boykins il nanetto di Milwaukee, che viene da una prestazione memorabile e comunque gioca da sesto al posto Jennings
e Derrick Fisher? il play di LA classe 1974, non ha certamente bisogno di presentazioni, i numeri non sono imponenti, ma giocare titolare nella sponda buona di Los Angeles con relativi anelli per un vecchietto non è certamente da poco
Antonio McDyess anche lui personaggio che in una ventennale carriera deve averne viste di cotte e di crude, peccato che in questo inizio di stagione il suo contributo sia quasi ininfluente, ma comunque gioca a San Antonio, ovvero la squadra più in forma dell’intera lega, alla sua età un anello non è utopia
2 volte mvp, il miglior passatore ancora oggi dell’intera lega, i vari Rondo, Rose,Paul e co. putroppo per loro ancora non si avvicinano alla classe di Steve Nash, carta di identità 1974 il play canadese è lo sportivo per eccellenza, scandaloso non abbia mai vinto un titolo
anche il lungo di Detroid “Big” Ben Wallace non molla per lui gli anni sono ormai 37 eppure è sempre li
ed infine io mi sprecherei in una menzione d’onore per Allen “the answer” Iverson il mio giocatore preferito di sempre, adesso gioca (e vista la scarsità di informazioni, non si sa come) in Turchia quasi controvoglia, dal suo account twitter come followers non ho potuto fare a meno di notare come la sua sia stata una decisione forzata in vista di un ingaggio anche al minimo in NBA, peccato che abbia un carattere problematico, AI avrebbe potuto vincere davvero di tutto, è un ’75 la classe è sempre quella il ginocchio putroppo meno, però mi piacerebbe davvero rivederlo vestire una maglia NBA
Eh eh mi toccherà fare una seconda puntata!
C’è anche Kurt Thomas, fra gli altri, che al college era stato il miglior realizzatore della nazione ad oltre 35 di media!
Questi 4 qui però mi son sembrati i più significativi!
sarebbe graditissima, con un accenno magari anche a marcus camby, come ho già scritto in un commento su un altro post. grazie playitusa!!!!!
Howard 19 stagioni nba? mi sembrano troppe
Questi sono i motivi per cui amo questo sport, da tifoso sfegatato anche di calcio non posso fare a meno di fare paragoni, e mi viene da paingere, questi quattro ed altri giocatori dimostrano cosa vuol dire amare il proprio sport al di la dei soldi, a quarantanni sono tutti pronti a dare il massimo, a sudare e versare sangue per soli venti minuti o meno a sera, meraviglioso.
PS Aggiungerei anche Jordan, the greatest a 40 anni tornò a Washington, squadra da lotteria, solo per amore per questo sport.
anche se c’entra poco col basket a stelle e striscie, ma a proposito di quelli che non mollano: Dan Peterson è il “nuovo” allenatore dell’Olimpia Milano!
o.O non ci credo
bello.
e giasone Kidd (’73) mettilo assolutamente nella prossima puntata