Se un GM ha la possibilità di assemblare uno dei terzetti più temibili di sempre, almeno sulla carta, ha il dovere, professionale e mediatico, di farlo; altrimenti non sarebbe un buon GM.
Riley, tuttavia, oltre ad essere il GM degli Heat, ha anche una discreta conoscenza sul parquet, non solo sulla carta, di come funzioni il gioco con la palla a spicchi…
Se ce ne siamo accorti noi, volgari amatori, anche il sommo Pat avrà notato che la trinità che ha evocato a Miami, è un bel trittico di stelle, una calamita potentissima per tifosi e media, ma messi dentro il rettangolo di gioco, compongono una triade non certo tra le meglio assemblate perché, com’è noto, si tratta di tre go-to-guy tendenzialmente perimetrali, nel senso di gioco fronte a canestro e non di tiro perimetrale, che invece non è la specialità di nessuno dei tre.
Siamo quindi ben lontani dal reciproco completamento tattico del terzetto Allen-Pierce-Garnett: all’epoca del sodalizio (2008) erano la guardia tiratrice per eccellenza, l’ala piccola per eccellenza e l’ala grande per eccellenza, con KG che, sacrificando la quantità in attacco, finì non di meno con il premio di difensore dell’anno a fine stagione. A Miami abbiamo invece la point forward per eccellenza, lo slasher per eccellenza e l’isolation high post scorer per eccellenza; non proprio la stessa amalgama (fermo restando che Bosh, pur impegnandosi, non sarà Defensive Player of the year). Superfluo notare come avere Allen e Garnett sullo stesso lato in attacco, uno in post l’altro sul perimetro (=game over per la difesa), non sia raccomandabile come avere Wade e Bosh sulle stesse “caselle” (=cortocircuito dell’attacco per sovraccarico di difensori e mancanza di pericolosità “a base 3”).
Pat non necessita certo di questo promemoria nè di ulteriore casistica, perché ha avuto molti altri terzetti, forse meno roboanti, ma che si sono dimostrati decisamente competitivi, se non vincenti: ai Lakers, a New York ed agli Heat (in due avventure da coach).
Per questo, anche quando (e se) sarà tornato Haslem , anche quando avrà esordito Mike Miller, anche quando ci sarà la qualificazione matematica ai playoff (sono pur sempre ad Est), credo che Riley eviterà comunque di tornare in panca, come invece presagiscono in molti.
Quel burattinaio mediatico di Phil Jackson, in uno dei suoi mind games più epici, ha rievocato per l’occasione il precedente di (Stan) Van Gundy (scalzato dalla panchina da Riley durante la stagione del titolo), facendolo aleggiare nello già spaesato spogliatoio degli Heat; poi, dopo la sconfitta a Dallas, quella del famoso bump tra James e Spoelstra durante un time out, si è divulgata la notizia di un meeting tra soli giocatori, da cui sarebbe emerso il malcontento nei riguardi dell’operato di coach Erik… se c’era molta pressione sul giovane Spoelstra, dopo tale dichiarazione il barometro ha toccato nuove vette.
Ma Pat sa che il terzetto non sta dominando, come si aspettavano gli ingolositi tifosi Heat, non tanto perché sia male allenato (seppur si possa certo migliorare), ma perché, strutturalmente, non ha l’impalcatura per dominare, al di là del valore dei singoli (ed il roster rimanente non è proprio una “invincibile armada”…).
Conscio di ciò, se scendesse in panca, sa bene che neanche lui potrebbe condurre con certezza gli Heat all’anello, per cui, da vecchia volpe qual’è, semmai farà tale mossa, aspetterà la prossima stagione: meno smania mediatica (comunque notevole), possibilità di migliorare almeno il risultato del giovane predecessore e, sperano a Miami, meno infortuni e più “chimica” di squadra.
Già, gli infortuni. È un’attenuante tra le più inopinabili: paradossalmente, l’infortunio di Miller e quello ulteriore di Haslem sono un discreto parafulmine per alcune critiche, almeno quelle relative al numero di vittorie; due attenuanti che, sebbene risultino a loro modo propizie, ritardano in campo la “cementificazione” tattica del gruppo. L’arrivo di Miller cambierà certamente gerarchie e minutaggio tra gli esterni, avendo ripercussioni su 3 ruoli, forse anche sul quintetto…
Specialmente l’infortunio di Haslem (giocatore che vanta un’utilità ed un’efficienza con pochi eguali) consentirà agli Heat di giocare con un vero centro difensivo, Dampier, di cui hanno un forte bisogno.
L’assenza di un play puro non è di per sé un difetto, sia perchè tutti gli esterni hanno un buon ball handling e buone capacità di passaggio, sia perchè, come ci insegna l’albo d’oro degli ultimi vent’anni (banalizzando un po’): o hai un ottimo play o hai l’anello (ricordiamo che all’ultimo titolo di Boston, Rondo non era certo quello di adesso…).
La presenza di un difensore d’area, come contraltare di cotanto talento offensivo, appare invece imprescindibile; uno come Dampier mancava ed era necessario, ma, oltre che per motivi salariali (sacrificato Stackhouse), solo il forfait di un uomo di rotazione poteva consentirne l’arrivo e motivarne la presenza in campo per degni minuti. Insomma, non tutti i mali vengono per nuocere…
L’effetto collaterale è che risulterà palese come uno, tra capitan Haslem e Bosh, sia di troppo (improponibile tenerli troppo assieme in campo, almeno in partite che contano).
Sempre a proposito di infortuni: il vantaggio di avere tre stelle di quel calibro è innegabilmente la garanzia di copertura (offensiva) in caso di assenza di uno dei “tre boss”; due qualsiasi fra i tres amigos possono insaccare 60 punti in due senza nemmeno vivere una giornata storica.
Per somma ironia, il problema è proprio quando sono in tre: con Lebron & Bosh, non sarebbe meglio una coppia di guardie perimetrali, piuttosto che un altro slasher come Wade? Con Lebron & Wade, non sarebbe meglio un’ala grande solida in difesa (Haslem) piuttosto che un ulteriore raffinato realizzatore come Bosh? Con Wade & Bosh non servirebbero un’ala piccola alla Mike Miller e magari un play più offensivo di Chalmers o Arroyo?
Inevitabilmente, se hai nel roster tre All Star come Wade-James-Bosh devi farli giocare assieme, quindi devi anche far fronte alla divergenza tra le loro potenzialità e la loro simultanea “disarmonia”…
L’assedio mediatico a Miami tiene infatti coach Erik è in una posizione di scacco da cui è difficile uscire. Consideriamo la questione del minutaggio: se “spreme” troppo le sue stelle (per ottenere risultati) viene tacciato di sovraffaticamento dei giocatori chiave in vista dei playoff, ma se ne riducesse il minutaggio, gli Heat (già rimaneggiati nel roster) rischierebbero di perdere qualche (ulteriore) partita di troppo… scacco matto.
Che poi il minutaggio sia eccessivo (occhio alle dichiarazioni LeBron, non sei più ai Cavs…) resta da valutare: proprio James è al minimo in carriera (37 minuti), Wade si attesta sul career low (34,9) e Bosh giocò di meno solo da rookie (33,5).
Ricordiamo inoltre che ciascun membro del triumvirato è sotto i trent’anni; non stiamo quindi parlando di Olajuwon-Barkley-Drexler, tutti e tre sulle 34 primavere all’epoca del terzetto a Houston (ed in ben altre condizioni fisiche…).Ma i media sono avidi di frasi polemiche da “decontestualizzare”, per cui hanno sfruttato al volo l’involontario assist di James.
“La percentuale dal campo, che dovrebbe giovarsi del giocare affianco ad altre stelle, quindi potendo selezionare meglio i tiri ed affrontando una difesa che ha più fronti a cui badare, non è destinata inevitabilmente a migliorare” (perdonate l’auto-citazione da un articolo di off-season).
Con 21 partite alle spalle (un quarto della stagione) le statistiche sono ancora “ballerine”, ma ci raccontano che: LeBron è passato dal 50,3% dal campo dell’anno scorso al 45,8%, Dwyane dal 47,6% al 47,2% e Chris dal 51,8% al 50,7%. Anche i tabellini mostrano la tipica incostanza dei “lavori in corso”: Chris ha registrato sia un 3/11 che un 12/17, Wade anche lui un 12/17 come pure un 1/13, e LeBron ha avuto picchi divergenti di 9/15 e 5/19…
Cambiamenti anche alla voce “palle perse” (Tov%): James e Wade in aumento, Bosh in calo. Chiaramente LeBron, chiamato anche a gestire il gioco (l’Ast% di Wade è crollato dal 36,4% al 22,7% di quest’anno, mentre il Tov% di James è lievitato dal 12,3% al 15,5%, massimo in carriera), è quello che maggiormente risente della novità e della complessità dello scenario, ma ha abbastanza talento per dare adito all’ottimismo, si tratta solo di avere un po’ di pazienza e di lasciarlo calare in un attacco che potrebbe risultare più corale rispetto a quello a cui era abituato.
Circa la suddetta coralità, va infatti osservato che, per canestri segnati su assist, gli Heat sono 19esimi (55,6%, la media della lega è 57,4%); tuttavia, se può consolare, i Magic sono 22esimi con il 52,8%, forse ad indicare che non è necessario un attacco in stile Jazz per vincere le partite, almeno se si dispone di buone individualità ed a Miami ce ne sono tre davvero niente male…
Gli altri numeri di squadra ci parlano di Heat che giocano a ritmi abbastanza bassi (22esimi per possessi a partita), mostrando aspetti positivi e negativi; proviamo a puntualizzarli:
GOOD
– secondi per defensive rating (punti concessi su cento possessi)
– quarti per offensive rating (punti segnati su cento posessi)
– terzi per rapporto tiri dal campo tiri liberi (d’altronde, i tres amigos sanno bene come andare in lunetta…)
– secondi per minor rapporto di palle perse/possessi (TOV%); esclusi Wade e James, gli altri non azzardano nulla di avventato…
– ottavi per rimbalzi difensivi (DRB%)
BAD
– 26esimi per rimbalzi offensivi (ORB%), a causa della spiccata perimetralità ed assenza di rimbalzisti di calibro
– ultimi per punti nel pitturato (attenzione, questo in post season è materiale che serve…)
Gli intoppi iniziali, le oscillazioni di rendimento, possono essere dunque viste come un sintomo positivo ed indispensabile di adattamento, all’interno di un contesto che difficilmente poteva avere da subito il pilota automatico (a prescindere dal coach…).
Non ha dunque senso parlare di crisi, nè tantomeno di delusione (il campionato, come un buon libro, si giudica solo alla fine), semmai di inevitabile fase di rodaggio che, in quanto tale, procede tra alti e bassi. L’attuale terzo posto (ex aequo) ad Est con il 61,9% di vittorie, non è nulla che debba stupire o disilludere i tifosi Heat, così come la striscia di 4 vittorie consecutive (vs 3 squadre “sotto il par” ed Atlanta senza Johnson) non deve far pensare che il giocattolo sia stato perfezionato a dovere…
Certo, le 72 vittorie che Jeff Van Gundy riteneva possibili non ci saranno (aveva quindi ragione Kerr a dubitarne), meglio usare come obiettivo le 47 gare vinte dagli Heat la scorsa stagione (57,3%) e poi, eventualmente, le 61 vinte dai Cavs (74,4%).
Stando ai fatti, Miami resta indubbiamente un’intrigante conteder, soprattutto in prospettiva futura, ma è tutt’altro che la favorita (e questo lo sa anche Pat…).