È difficile essere originali quando muore un pilota, perché è inevitabile ripetere le stesse cose, e perché in fondo sono vere. L’automobilismo è uno sport pericoloso, in cui si può morire in ogni istante e per gli eventi più banali. Quello che fa più male forse è proprio questo, perché quando ci si illude (sbagliando) che tutto sia tranquillo, che non c’è rischio, ecco che arrivano le situazioni più incredibili a rammentarti che la sicurezza al 100% non ci sarà mai. Che lo si accetti o no, chi pratica e chi segue l’automobilismo sa e deve sapere che con la morte, con la possibilità di iniziare una corsa ma di non esserci più alla fine, deve conviverci. Purtroppo in questi anni abbiamo visto morire piloti ovunque, dalla IndyCar alla 24 Ore di Le Mans, dalla Formula 1 alle sprint car, dalla NASCAR ai rally. È stupido puntare il dito contro una singola categoria, come purtroppo ha fatto con cinico opportunismo qualche sito internet dalla dubbia moralità. Quello che sarebbe intelligente invece è interrogarsi su cosa si può fare per rendere le possibilità di morte il più possibile tendenti allo zero.

Le recenti morti di Justin Wilson e Jules Bianchi ci hanno ricordato di come oggi giorno nell’automobilismo a ruote scoperte il nodo focale su cui operare al momento è la testa del pilota. È una questione che la IndyCar sta già dibattendo da tempo: cosa fare con gli impatti con la testa del pilota, sia diretti (come nel caso della morte di Dan Wheldon) sia di pezzi di vettura staccatisi durante un incidente o un contatto (come nel caso di Wilson, o lo scorso anno anche di James Hinchcliffe, o in Formula 1 nei casi di Bianchi o di Felipe Massa). La risposta più immediata, che in molti danno, è l’introduzione di cockpit chiusi. È una soluzione che in molti auspicano ma che, aldilà delle implicazioni sportive (già esistono delle categorie in cui corrono vetture con cockpit chiusi…sono i prototipi che corrono a Le Mans), non sarebbe comunque immune da rischi. Basti pensare alla possibilità di un pilota di rimanere intrappolato dentro la vettura se la struttura è distorta o la vettura capovolta, dopo un incidente. Derrick Walker, dimissionario presidente della IndyCar, ha invece proposto da tempo l’introduzione di una protezione di fronte al casco del pilota, in stile prototipi o anche monoposto anni ’70. “Il fatto è che è la parte più a rischio è quella anteriore dell’abitacolo, di fronte al casco del guidatore pilota. I detriti non tendono a salire e poi ricadere dritti verso il basso sulla testa del pilota. La questione di un abitacolo chiuso è di natura aerodinamica, non di sicurezza. Io sono più a favore dell’introduzione di uno schermo forte ed alto davanti alla zona del cruscotto, per deviare i pezzi che possono schizzare da una vettura. Non è un sistema sicuro al 100%, non ve ne è uno, perché ogni sistema ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. Tuttavia sarebbe un grande passo avanti rispetto ad oggi“, questa l’opinione di Walker.

È evidente che, come ha detto Walker, non esiste la soluzione ottimale al 100%. La cosa fondamentale è quella di lavorare sempre con in testa che la prima cosa è la sicurezza, in qualsiasi forma di automobilismo. Senza illudersi di trovare la soluzione di tutti e male e debellare al 100% il rischio della morte. Tutti devono essere coscienti di questo, quando guardano e commentano una gara automobilistica, che tutti coloro che scendono in pista meritano rispetto perché ogni singola volta che praticano la loro attività mettono a rischio la loro vita per il nostro divertimento. È il duro tributo da pagare alla passione per questo sport, e tutti coloro che lo amano non potranno che apprezzare le parole di oggi di Tony Kanaan su Twitter e Facebook: “Perché facciamo questo? Perché ci piace, perché non vogliamo essere in nessun altro posto che su una macchina da corsa.”

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