Mi sono sempre chiesto come mai il baseball, il “national pastime” americano, sia così popolare in Giappone, in un paese così lontano e profondamente diverso. Oggi, seguendo un trend incontrastato ormai da decenni, è di gran lunga lo sport più seguito e più amato e ne vanno pazzi tutti.
Gli stadi sono pieni e i giocatori idolatrati, è seguitissimo a livello di high school come addirittura a livello “industriale”, ovvero in tornei organizzati dalle aziende nei quali i giocatori sono i dipendenti.
Il sumo è lo sport nazionale, il rito della tradizione, nativo del Giappone come lo è la religione Shinto, ma il baseball ha più tifosi, ha più copertura mediatica, ha insomma molta più popolarità nel Giappone contemporaneo.
Perchè è successo ? Difficile da dirlo con esattezza, ho provato a capirlo nei miei 10 giorni trascorsi a Tokyo in questo inizio Novembre.
Sono in Giappone, nella sua scintillante capitale, nei giorni del tour di una selezione di All Star delle MLB, una bella iniziativa che ciclicamente si ripete da anni per promuovere o per mantenere alto il livello di attenzione del gioco in Estremo Oriente.
E’ anche un piccolo regalo delle MLB al Giappone in fondo, in ogni caso lo ritengo assolutamente imprescindibile. Se il baseball è così amato questo è il minimo che gli americani, che questo gioco l’avrebbero fino a prova contraria inventato, possano fare per riconoscenza o business o vetrina o quant’altro.
Ero indeciso se comprare un biglietto per una primissima partita degli All Star contro la squadra di casa, i Giants, oppure contro la nazionale, i Samurai Japan, ovvero la serie di gare propriamente pubblicizzate come l’evento principale.
Le gare di Tokyo (poi si sposteranno in altri luoghi del Giappone) si disputano al Tokyo Dome, meraviglioso impianto al coperto dei Giants appunto, ma alla fine decido di vedere una gara contro la nazionale.
Al botteghino noto dai monitor che i biglietti per i Giants sono ancora molti a pochissimi giorni dalla gara, mentre per i Samurai c’è tutto esaurito, solo posti in piedi.
Preferisco quindi l’evento principale, posto in piedi e stadio pieno, sarà bello, immagino nella mia testa andandomene dal Tokyo Dome verso la metro biglietto in mano. L’appuntamento sarà per venerdì 9 Novembre, prima partita della serie.
I Samurai non avrebbero tanto bisogno di motivazioni, vogliono fare bella figura davanti ai loro tifosi contro i campioni delle MLB e per di più si preparano alla lunga per le Olimpiadi del 2020, quelle di casa.
Tra le stelle venute dagli USA ci sono nomi importanti ma anche panchinari quindi a ben vedere non è propriamente la più onesta delle selezioni All Star ma c’è Yadier Molina per esempio, uno dei più grandi catcher della sua generazione.
Piove, come molti giorni da queste parti, ma lo stadio è al coperto quindi non c’è problema. Non c’è un posto libero, 45 mila giapponesi in festa e qualche occidentale come me incuriosito.
Non ci sarebbe tantissimo da dire sulla partita, in fondo è un’amichevole, se non fosse per il finale. I Samurai recuperano e se la giocano fino alla fine, all’ultimo battitore.
Sono sotto di 1, Yuki Yanagita al piatto con un uomo sulle basi, parte bassa del nono.
Boom ! Walk-off Home Run. Pubblico in delirio. I Samurai vincono ed io sinceramente non ci posso credere. Prima partita di sempre in Giappone e walk-off HR, niente male, non capita tutti i giorni.
Durante la gara faccio anche amicizia con due ragazzi di Hiroshima che studiano a Tokyo e preso dall’entusiasmo per il finale travolgente vado anche a comprarmi un ricordino, una pallina griffata Samurai Japan. Se lo meritano, è stato davvero un grande spettacolo.
Basterebbe solo la visione del Tokyo Dome, severo, imponente e stracolmo, poi ci sarebbero gli “ultras” con le bandiere del Giappone che incitano i propri ragazzi con i canti durante ognuna delle fasi offensive. Poi c’è la gara, ma questa è stata l’ultima cosa, ritornata al primo posto di botto con il walk-off HR.
L’atmosfera di una gara di baseball in Giappone, seppur abbia assistito ad una amichevole e non ad una vera gara di campionato, è diversa da quella che si respira in America.
C’è più gioia, c’è più rumore e c’è più tifo, ci sono più colori e sembra appunto più quella festa, magari infantile, che il baseball rappresentava negli USA tanti anni fa, prima che diventasse un business più freddo e più vecchio.
In Giappone il gioco è ancora seguito dai giovanissimi, in massa, conserva ancora quel sincero entusiasmo che è puro divertimento.
Ma perchè è diventato un oggetto di culto ? Non ci sono spiegazioni certe ma ho una mia piccola teoria, supportata dalle istantanee che mi porto da questo mio viaggio in questa terra così lontana e così affascinate.
Il baseball è così popolare perchè per sua natura si adagia perfettamente ad un certo spirito del giapponese moderno, in fondo ad un modello ideale di società.
Per certi versi il baseball è lo sport di squadra per eccellenza, nel quale ognuno ha uguale peso. Ci si presenta a turno ordinati e soli in battuta e si vince tutti insieme in difesa, è esaltato lo spirito di cooperazione e di sacrificio.
Bene, non vediamo che i giapponesi di oggi siano così ? Devoti più alla propria azienda che alla famiglia, lavoratori instancabili ma soprattutto ligi al dovere e rispettosi delle regole.
Morirebbero per un collega di lavoro come ai tempi facevano i camerati in guerra, hanno profondi valori tradizionali, di rispetto e di aiuto reciproco in un contesto aziendale che diventa ragione di vita, qualcosa a cui dare tutto anche a scapito degli affetti personali e delle soddisfazioni private al di fuori della sfera lavorativa.
Il baseball è un gioco “scientifico”, fatto di piccole cose che si accumulano, di dati, di numeri. I giapponesi sono “ingegneri” nell’animo, amano il calcolo e la progettazione, forse a scapito qui di quell’arte di improvvisare che magari abbiamo più noi italiani, ma loro hanno raggiunto la vetta in gran parte della produzione di quei mezzi tecnologici che sono oggi di uso comune, dalle TV alle macchine fotografiche e tanto altro.
In ultimo il baseball è un gioco “lento” anzi, oggettivamente lento, senza virgolette. La società giapponese è tanto lenta da apparire ripiegata in sé stessa, è stata chiusa al mondo esterno per secoli, il giapponese nel suo animo è gentile ma introverso e riservato, se gli chiedi un favore ha vergogna a dirti “no” perchè magari gli hai chiesto qualcosa che non si fa per consuetudine, quindi ritirandosi con un sorriso timido e impacciato non può che negarti il suo aiuto.
E’ lento il gioco nella sua dinamica e poi esplode all’improvviso, magari con un HR di cui sopra. Il Giappone lentamente corre al lavoro tutti i giorni, in un rito che appare stanco, fotocopia su fotocopia senza fantasia.
Poi all’improvviso un’idea che rivoluziona un intero comparto della tecnologia per esempio, e il mondo rincorre i giapponesi perchè in un attimo hanno intuito la direzione in cui andremo per le generazioni successive.
In 10 giorni a Tokyo ho avuto la sensazione di trovarmi in una società senza mezze misure. O bianco o nero, senza via di mezzo.
Non ho mai capito come un popolo che ha vissuto nel più totale isolamento per secoli si sia poi così tanto aperto verso l’esterno tanto che oggi il paese è uno dei pilastri del mondo globalizzato in cui viviamo.
Nel periodo degli shogun Tokugawa, ovvero del clan uscito vincente dalle faide combattute dai samurai e che dominò il paese col pugno di ferro dal 1600 al 1868, il giapponese medio non vide mai per tutta la sua vita un solo occidentale.
Tutto cambiò, all’improvviso di cui sopra in relazione al baseball che si sveglia dal sonno lento con una giocata fulminea, con le navi americane al comando di Matthew Perry nel 1853.
Il Giappone si aprì al mondo e, di nuovo, all’improvviso, passò da una società feudale ad una conformazione di stato moderno, con la Restaurazione Meiji, accettando lo scambio con gli stranieri e quindi le loro influenze.
E’ in questo contesto che fu importato il baseball. E’ come se su quelle navi che sverginarono quel mondo chiuso, ante litteram, ci fosse anche il baseball, un regalino da parte degli americani.
Zero o cento, senza mezze misure, cambi repentini e apparentemente inspiegabili, di sicuro non prevedibili.
Da guscio impenetrabile richiuso nei riti antichi della spada e dell’onore a potenza militare colonialista, aggressiva e razzista.
Forse non c’è oggi un popolo tanto ospitale quanto quello giapponese, pur a modo loro ritirati nella proprio introversione, forse non c’è stato nella storia moderna un capitolo tanto infame quanto le atrocità dei militari nipponici, contro i cinesi in primis, nella loro folle utopia nazionalista.
Il Giappone voleva il suo Impero, quello vero, fatto di conquiste oltre i propri confini, non quello solo di nome per cui l’Imperatore è sempre stato, con pochissimi momenti d’eccezione, solo una figura cerimoniale e sacra ma senza nessun poter effettivo, come del resto ancora oggi.
Pearl Harbor è stato il più fragoroso degli Home Run della storia, non solo inaspettato ma alla lunga decisivo per le sorti della guerra per averci provocato l’ingresso degli USA.
Già, contro quell’America le cui navi lo hanno rimesso al mondo, contro quell’America di quel giochino che iniziava tanto a prendere piede.
Poi di nuovo, boom, le bombe ad Hiroshima e Nagasaki mettono il paese in ginocchio, ma nel giro di pochissimo, e di ancora una volta all’improvviso e in maniera fragorosa il Giappone non solo si rialza ma diventa uno dei paesi più ricchi al mondo, ad un certo punto ufficialmente il secondo più ricco dietro solo agli USA (oggi sarebbe la Cina).
Non ho mai capito quindi come un popolo che ha vissuto nel più totale isolamento per secoli diventi aggressivo verso l’esterno nel modo più cinico e violento possibile, poi di nuovo dopo le bombe atomiche il più cordiale e rispettoso verso gli altri.
E tutto velocemente, in un attimo.
Il Giappone di oggi è ricco e civile, forse pure troppo secondo certi standard italiani, Tokyo è una metropoli ordinata e pulita, la più popolosa area metropolitana del mondo in cui 38 milioni di persone si muovono senza caos e fanno la fila composti per qualsiasi cosa.
Da zero a cento, senza mezze misure, la loro storia ci insegna di come siano passati da un’epoca ad un’altra con strappi netti e repentini, da un estremo all’altro.
Ho amato Tokyo per i 10 giorni della mia visita ed è stata una conferma di quanto sia comoda per un viaggiatore straniero, automatizzata fin dall’ordinazione alla macchinetta al ristorante del ramen, efficiente come la sua metro, direi la migliore al mondo.
Ho scoperto una città che va matta per le “vending machine” ad ogni angolo di strada, una città senza un centro né una piazza né un proprio Colosseo o Tour Eiffel (in realtà c’è, rossa fiammante) ma che si accende letteralmente a macchie di luce qua e là sulla mappa.
Di queste macchie di luce, di queste zone commerciali trafficatissime ne voglio riconoscere almeno 6 ed ognuna di queste ha una propria identità riconosciuta.
C’è Shinjuku, il manifesto, l’area più grande e lucente, Shibuya, un concentrato di modernità alla giapponese imperniato sul suo famoso “crossing”, forse il simbolo del frenetico ordine di questo mondo di questi tempi.
Ancora, Ginza dello shopping d’alto bordo, dove l’architettura è preziosa quanto le merci che contiene, Asakusa intorno alla storia e al monumento per me più bello, il tempio Senso-ji, Harajuku che è il paradiso della cultura pop Kawaii.
Kawaii è la mania, che del Giappone moderno è la copertina per come lo percepiamo noi dall’esterno, di un certo modo di fare infantile, per cui le forme fredde della quotidianità si dipingono di trame dal carino al fanciullesco.
Così una banale fermata degli autobus è decorata dal sorriso di Hello Kitty oppure una lavanderia che da noi sarebbe fredda e anonima se non sporca (il che è tutto dire per una lavanderia) diventa tempestata di orsacchiotti e di gattini, magari tutto in rosa.
Persino le Poste sono Kawaii, le ragazzine in rigida divisa da scolarette hanno sempre qualche pupazzetto sulla borsa, anche i ragazzi, i gelati posso avere la faccia di un maialino e i “maid cafè” dove le cameriere sono vestite da governanti in un contesto da cartoni animati sono quasi più la norma che un’attrazione turistica.
Questo si collega all’ultima delle macchie di luce degne di nota, quella forse per lo straniero più interessante, Akihabara.
E’ il paradiso degli otaku. Un otaku è qualcuno che coltiva una passione ossessiva verso qualcosa ma in questo quartiere soprattutto per i videogiochi, i manga e gli anime.
E’ il tempio di questi ragazzi immersi in una realtà che non esiste, a volte molti di loro perdono la bussola in rapporto al mondo vero, a volte si isolano completamente evitando ogni rapporto sociale, ad ogni modo è l’estremizzazione di una idea di progresso che crea mondi nuovi, riportandoci o facendoci rimanere in uno stato di infantilismo perenne.
Un’estremizzazione giocosa da tempo libero che è l’altra faccia della medaglia di un’altra esagerazione sul versante opposto, ovvero nel mondo del lavoro.
Parliamo di hikikomori per qualcuno chiuso in sé stesso, di karoshi per chi non trova altra soluzione per superare il troppo stress nel lavoro se non nel suicidio. Il Giappone degli eccessi, ultra-Pop o ultra-competitivo, comunque fortemente inquadrato, rigido.
Non sono mai stato un otaku o fan della cultura pop giapponese ma non ho potuto evitare come molti miei coetanei tanti di questi prodotti arrivati in Italia quando io ero bambino.
Holly e Benji soprattutto, quindi ho preso il treno e sono andato apposta in un’area remota della periferia nord di Tokyo.
C’è una vetrata bellissima in una stazione con tutti i protagonisti del cartone animato con la maglia della nazionale giapponese, c’è anche Mark Lenders e il suo micidiale tiro della tigre. Le foto sono d’obbligo per questo pellegrinaggio pop con l’orologio rimesso indietro agli anni ’90.
Sono tornato bambino per un giorno, Tokyo regala questo effetto a molti.
Da zero a 100, senza mezze misure, nel cinema per esempio sono arrivati ai livelli più alti o per l’esaltazione dell’azione, Kurosawa e i suoi samurai su tutti, o per un’atmosfera rilassata e filosofica, per esempio il Viaggio a Tokyo osannato di Ozu.
O l’arte dell’animazione e della fiaba delicata e sognante fuori dal mondo, Miyazaki, o l’horror più pauroso e sconvolgente per cui per esempio dei semplici scolaretti, quelli che diligentemente vanno in giro per la città in divisa, si ammazzano tra di loro nelle maniere più cruente, Battle Royale.
Cosa c’entra il baseball in questo mondo ? Tantissimo, direi che la teoria per cui si adatta perfettamente all’animo profondo di questa società giapponese moderna possa calzare a pennello.
Non è stato da principio così e ci vollero anni prima che questo regalino degli americani potesse conquistare molti cuori, ci volle anche un tour, antenato di quello al quale ho preso parte pochi giorni fa, con Babe Ruth come superstar in vetrina.
Da allora però ci si stupisce di quanto sia amato, tanto che oggi e appunto ormai da decenni sembra sia più centrale nella vita giapponese che in quella americana.
Il più grande giapponese nella storia delle MLB è senza dubbio Ichiro Suzuki. Ho iniziato a seguire il baseball quando lui era uno dei migliori battitori di contatto delle Major.
Sembrava potesse sempre battere valido, aveva uno stile unico per cui era quasi che una sua battuta avesse già in fieri il movimento di corsa in prima base.
E’ stato 10 volte All Star, MVP dell’American League nel 2001 da rookie, 10 volte Golden Glove, nel 2004 ha chiuso la stagione con 262 valide, record di hit in una singola stagione di tutti i tempi.
E’ stato il manifesto della battuta di contatto della sua generazione e forse anche oltre, .311 di media in carriera nelle MLB, .353 in Giappone, un fenomeno vero, ha aperto definitamente la strada ai giapponesi in America anche se per lo più ci sono andati i pitcher, con alcune eccezioni, per esempio Hideki Matsui.
Una grande carriera agli Yankees, mazza pesante anche tra quelle dei Bronx Bombers, MVP delle World Series del 2009, 175 HR nelle MLB, c’era lui, che fu idolo dei Giants padroni di casa, per il first pitch della mia gara terminata con quel walk-off HR.
Si percepisce l’interesse per il baseball ovunque, in libreria, nelle pubblicità in giro per la città o nelle stazioni della metro.
Si sono presi un prodotto straniero, l’hanno adottato e l’hanno fatto loro, sembra anche che in fondo l’abbiano anche inventato, questo gioco lento e scientifico che si accende all’improvviso come un urlo nel cuore della notte.
Ho visto gli impiegati in giacca e cravatta andare in sala giochi a girare la mazza per divertimento e per alleviare la tensione dell’ufficio, un’immagine che forse in America si è persa o non c’è mai stata.
C’e stato un grande scrittore nel Giappone del dopoguerra, si chiamava Yukio Mishima, forse il più bravo dell’ultimo secolo di letteratura nipponica.
Si chiese in quale direzione stesse andando il suo paese nel momento in cui il Giappone era saldamente una potenza capitalistica mondiale.
Era convinto che la società del suo tempo avesse perduto i valori tradizionali, fonte dell’identità di un popolo. Fosse vissuto oggi lo noterebbe ancora di più.
La sua era una preoccupazione vera e sincera, si augurava di restaurare il potere dell’Imperatore ma di nuovo, più come simbolo che come potere realmente fattivo, caduto a suo dire nelle mani delle banche e delle influenze straniere, oggi diremmo delle multinazionali.
Cercò di arringare una folla di militari, al capo la fascia con la bandiera giapponese, lo derisero. Capì che il suo gesto era fuori dal tempo e compì il seppuku, il suicidio rituale che fu dei samurai, di un’epoca perduta di cui aveva nostalgia.
Dove sta andando il Giappone ? Ha perso la sua identità ?
Penso che sia un discorso che valga per qualsiasi paese, a maggior ragione ricco e moderno, e che sia un po’ come il baseball o come qualsiasi altro sport.
E’ un gioco nuovo perchè gli interpreti ne hanno stravolto il senso ma le regole sono fondamentalmente sempre le stesse, è una rivoluzione ma sullo stesso campo con le stesse misure, con la stessa pallina, con la stessa mazza.
Si va avanti ma si cerca dannatamente di non cancellare il passato, il baseball è una metafora potente.
Lento come il sole all’alba che a fatica sorge dall’abbraccio tra il cielo e il mare, ogni giorno è la stessa scena eppure ci sembra sempre diversa da come lo inquadriamo, forse perchè abbiamo al fianco qualcuno o c’è qualcosa di nuovo nel nostro cuore.
Si inchina il giapponese, deferente. Arigatò per il regalino, amici americani non invitati in quel giorno del 1853 che ha consegnato il Giappone al resto del mondo.
FOTORACCONTO
Le immagini e il video sono stati tutti realizzati dall’autore.
Tokyo, Novembre 2018.
“E qualcosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure…”