Il ritiro di Tim Duncan, oltre ad essere un momento di nostalgia e tributi a quest’immenso cestista, è una buona occasione per parlare di come un grande sportivo dovrebbe abbandonare le scene (meglio lasciare il proscenio in punta di piedi, come Timoteo, oppure con un addio pirotecnico, come ha fatto Kobe Bryant?), e quando (appena ci si accorge d’aver intrapreso una parabola discendente, o quando si sente d’aver dato tutto?).
La logica abitualmente sottesa a questi dibattiti, è di ritenere che esista un modo “giusto” per dire addio al basket –quello che lascia intatto il mito dell’invincibilità dei nostri eroi– e uno “sbagliato”, che, come una scalpellata maldestra, sciupa un lavoro di cesello durato anni.
Posto che il lieto fine hollywoodiano non è indispensabile alla bellezza di una storia (Il Gladiatore non finisce benissimo… però è piaciuto a tutti lo stesso), cosa vuol dire, ritirarsi “bene”? Per capirlo, vale la pena ripercorrere gli ultimi passi in NBA di alcune superstar, facendo un piccolo salto indietro negli anni, per mettere sotto la lente alcuni tra gli addii cestistici più importanti avvenuti ad inizio millennio.
MICHAEL JORDAN
MJ è stato così bravo con i ritiri, da aver appeso le scarpette al chiodo tre volte.
La prima volta smise per appagamento personale e per fare i conti con la morte di suo padre, ucciso da un colpo di pistola in una piazzola di sosta da due balordi intenzionati a rubargli l’auto. His Airness si dedicò brevemente al baseball, per poi fare rapidamente dietrofront, nel 1995, con un laconico comunicato: “I’m Back”.
Nel 1998 andò meglio, perché consegnò ai posteri l’immagine indelebile del jumper con cui vinse il terzo titolo consecutivo.
Mike però, sentiva di avere ancora qualche cartuccia da sparare, e così si rimise in sesto per il suo terzo ritorno (questa volta in maglia Wizards), decisamente meno riuscito del precedente. MJ disse che comunque sarebbe andata, quest’ultima avventura non avrebbe potuto togliergli i titoli NBA, le medaglie, gli MVP o i titoli di capocannoniere. Questo era un ritorno diverso, “for the love of the Game”, –disse giocando con lo slogan a quei tempi adoperato dalla NBA– un ritorno, cioè, senza la pretesa di poter più dominare il gioco, ma certamente con la contezza di poter tenere il campo con dignità, come in effetti avvenne (segnò 22.9 punti con il 41% il primo anno, e nel 2002-03 ne mise 20 ad allacciata, con il 44.5%. Non male per un esterno trentottenne).
Insomma, qualcuno storse il naso per essere stato costretto ad assistere ad un Jordan “normale”, ma per chi scrive l’esperienza fu opposta; privato dell’atletismo sovrumano degli anni belli, fu messa a nudo la strepitosa tecnica di base di Air Jordan, offrendoci una prospettiva inedita sul suo gioco.
HAKEEM OLAJUWON
Akeem (grafia cui in seguito s’aggiungerà l’H iniziale) è stato per vent’anni un simbolo del basket di Houston, prima all’università (con i Cougars arrivò tre volte alle Final Four, e nel 1983 fu nominato Most Outstanding Player), e poi con la maglia dei Rockets, la franchigia che lo scelse alla numero uno del draft 1984. Come a volte succede, questo sodalizio ventennale ebbe inizio in sordina.
Quando arrivò per la prima volta a Houston, non trovò nessun comitato di benvenuto, anzi, gli dissero di prendere un taxi per recarsi al campus. MVP nel 1994, difensore superiore, due volte MVP delle Finals (entrambe vinte), e titolare di due piedi da ballerino e una mente cestistica sopraffina, The Dream è diventato l’icona per eccellenza dei Rockets, ma quando sentì minacciata la propria primazia, non seppe mettere da parte l’ego per chiudere la carriera dove l’aveva iniziata, magari approfittando della presenza dei giovani compagni per prolungare la propria corsa.
Viceversa, offeso dalle attenzioni riservate ai giovani Cuttino Mobley e Steve Francis, l’ex portiere di Lagos forzò uno scambio con Toronto. Ai Raptors Hakeem giocò con Vince Carter, che allora era La superstar in rampa di lancio, ma mise a referto il minimo in carriera per punti (7.1) e rimbalzi (appena 6.0), decidendo poi di smettere a fine stagione, tormentato dai problemi schiena. Hakeem giocò un anno di troppo, non tanto (o non solo) per il cambio d’uniforme, quanto perché era ormai divenuto il pallido riflesso, la parodia, di ciò che era stato un tempo, quando il suo “dreamshake” faceva tremare Shaquille O’Neal e David Robinson.
KARL MALONE
I 18 anni trascorsi tra le montagne rocciose hanno reso questo figlio della Louisiana un eroe sportivo e un vanto locale, tanto che, per le Olimpiadi invernali di Salt Lake (nel 2002) fu insignito dell’onore di portare la fiaccola, assieme al compagno di scorribande sul parquet, John Stockton.
Secondo ogni epoca per punti segnati, due volte MVP, e a lungo considerato la miglior ala forte di tutti i tempi (prima che arrivasse un certo Timoteo Duncan), a Karl era rimasto il sogno di vincere un titolo NBA. C’era andato vicino nel 1997 e poi nel 1998, ma i Chicago Bulls di Jordan e Pippen erano riusciti ad avere la meglio in entrambe le circostanze.
Così, quando Stockton si ritirò, nel 2003, il Postino colse l’occasione per un’ultima sortita, unendosi ai Lakers di Kobe e Shaq, rinunciando a una vagonata di soldi, e, implicitamente, alla possibilità di strappare a Kareem Abul-Jabbar la palma di miglior realizzatore ogni epoca.
Purtroppo però, s’infortunò ad un passo dalla meta, e disputò le tanto agognate Finals da infortunato. Malone perse contemporaneamente la terza finale, la possibilità di giocare tutta la carriera con i Jazz, e di diventare con quella maglia il miglior realizzatore di ogni epoca.
Sarebbe stato bello vedere Malone ritirarsi avendo vestito sempre la stessa casacca, ma in fondo, sacrificò soldi e alla gloria personale per il titolo NBA, e ci andò veramente vicino, al termine di una stagione durante la quale non sfigurò. Si può fargliene una colpa?
REGGIE MILLER
Quando fu scelto, nel 1987, i fan di Indianapolis lo fischiarono, perché avrebbero desiderato veder vestire la maglia dei Pacers all’idolo locale, Steve Alford. Donnie Walsh, autore della chiamata, aveva però visto lungo, lunghissimo. L’ex guardia di UCLA rimase ai Pacers per diciotto, splendidi anni, fatti di tigna, determinazione, prodezze balistiche e leadership.
Quando, verso fine carriera, fu ventilata la possibilità di un suo ritorno in California, alla corte dei Lakers, Miller preferì restare, preferendo continuare a provare a vincere con nuovi Pacers targati Jermaine O’Neal e Ron Artest. Andò male, complice il famigerato brawl di Auburn Hills, ma Reggie è diventato il giocatore più rappresentativo della storia dei Pacers, con cinque nomine da All-NBA, l’iscrizione nel club dei 50-40-90 (rispettivamente le percentuali dal campo, da tre e ai liberi, tenute nel 1994), e una Finale NBA persa, nel 2000.
Il mito sportivo di “Killer Miller” però, dipende dalle sue performance durante i Playoffs, battagliando con i Chicago Bulls di MJ, o contro i New York Knicks (con a bordo campo Spike Lee a insultarlo). Insomma, la strada scelta da Reggie Miller è stata simile a quella di Duncan, ma rispetto a Timoteo, che aveva già vinto tutto quel che si poteva vincere, Miller è stato bravo a resistere alle sirene del titolo NBA, completando una carriera senza anelli, ma nobilitata da fedeltà e disponibilità al sacrificio.
DAVID ROBINSON
L’ammirevole Ammiraglio pareva destinato a chiudere la carriera con la nomea di “perdente di successo”. Il nativo di Key West, 216 centimetri di statuaria prestanza, arrivò in NBA dopo aver frequentato l’Academia Navale. Non pensava di essere destinato al basket professionistico, ambendo piuttosto a una carriera da sommergibilista, ma, iscrittosi con un’altezza poco superiore ai due metri, crebbe rapidamente fino a rendere impraticabile la sua presenza negli spazi angusti di un sommergibile.
Scelto dai derelitti Spurs, li trasformò dalla sera alla mattina in una potenza. Nel 1995 fu nominato MVP, ma andò a sbattere malamente contro Olajuwon, che gli impartì una severa lezione durante i Playoffs. Nel 1996-97 la sua carriera pareva aver ormai imboccato il viale del tramonto, quando un provvidenziale infortunio mandò a ramengo la stagione dei nero-argento.
San Antonio ne uscì con la prima scelta assoluta, tramutatasi in Tim Duncan, e due sole stagioni più tardi Robinson festeggiava a New York il primo titolo della storia della franchigia. Seguirono tre anni difficili, che fecero riaffiorare gli antichi spettri e i sussurri sulla mollezza dell’ammiraglio.
Erano gli anni di Kobe & Shaq, e gli Spurs si andarono a scontrare due volte contro la corazzata giallo-viola, uscendone con 8 sconfitte e una sola vittoria. Robinson, ormai giunto agli sgoccioli di carriera, si sarebbe potuto ritirare dopo la delusione del 2002. In fondo gli Spurs si stavano rinnovando e lui aveva già fatto il suo, ma scelse di rimanere per un’ultima stagione.
Non fu un’annata memorabile individualmente, ma finì nel modo più dolce: San Antonio eliminò i Lakers, chiudendone la dinastia, e vinse il titolo NBA, consentendogli di appendere le scarpe al chiodo e di infilarsi il secondo anello al dito. Non male, per un “perdente”!
CHARLES BARKLEY
Sonny Smith, che faceva l’assistente ad Auburn University, lo definì un “ciccione che gioca come il vento”. Ribattezzato Sir Charles più per ironia che per una reale attitudine a signorile eleganza (ma quando mai…), Chuck, dato ufficialmente per 1.98 (ma quasi certamente meno alto), è stato un’ala forte atipica quanto talentuosa.
Dotato di una forza non comune (una forza che, diceva Bill Walton, non si costruisce in palestra), Charles aveva un fisico apparentemente poco atletico, ma nascondeva la dinamite nelle gambe.
Scelto dai Sixiers nel 1984, passò a Phoenix nell’estate del 1992, dove vinse immediatamente l’MVP e portò la squadra a 62 vittorie, fino alla conquista delle Finals. In quelle 6 partite viaggiò a 27.3 punti, 13.0 rimbalzi e 5.5 assist, ma i Suns persero contro Chicago.
Fu l’ultima grande stagione di Barkley; nel 1994 iniziò ad accusare problemi alla schiena, poi toccò alle ginocchia, e infine, nell’estate del 1996, fu scambiato con Houston, dove ha giocato con Olajuwon, e Clyde Drexler (poi sostituito da Scottie Pippen).
L’8 dicembre 1999 si ruppe il tendine del quadricipite saltando per contestare un tiro di Tyrone Hill. Lì per lì, pensammo tutti che quella sarebbe stata l’ultima partita di Sir Charles. Che l’infortunio fosse capitato proprio sul campo della sua prima squadra, a Philadelphia, pareva un segno del destino. Chuck però non voleva andarsene così, e lottò per tornare sul parquet. Il 12 aprile, contro Vancouver, riuscì a disputare 6 minuti, quanti ne bastavano per segnare un canestro dei suoi, su rimbalzo d’attacco, e uscire dal campo sulle sue gambe, per l’ultima volta.
IN CONCLUSIONE…
Il declino è parte della vita naturale di ogni atleta, e se ben gestito, non è una tragedia e non implica una deminutio di quanto è stato raggiunto in precedenza.
Può capitare che tutto vada per il verso giusto, come a David Robinson, e trovarsi ancora una volta nella situazione ideale per un “ultimo ballo”, oppure meno bene, come a Miller, che, a parità di fedeltà, non ha avuto la buona sorte di trovarsi attorno Gregg Popovich e The Big Fundamental.
C’è anche chi, come MJ, ha ottenuto l’addio perfetto ed è tornato sui suoi passi –tanta era la voglia di giocare– e pazienza se non sarebbe più stato il migliore tra i dieci in campo.
Quel che importa, in fondo, non è il livello di rendimento, ma il fatto di continuare a onorare il Gioco fino all’ultimo, e se al basket hai dato quanto Hakeem Olajuwon, è doveroso concedere un anno di stenti a fronte di tante stagioni zeppe di pallacanestro celestiale.
In altre parole, il vero metro per misurare un ritiro è quel che lo ha preceduto nel corso degli anni, alle prodezze che ricorderemo, e non ad un po’ di stanchezza, ad un metro dal traguardo.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.