Ha giocato fino a quarantadue anni confrontandosi con tre, forse anche quattro, diverse generazioni di centri.
Stime ufficiose parlano complessivamente di circa dodicimila avversari affrontati in carriera.
Ha realizzato più punti di tutti nella storia della National Basketball Association e il suo record appare difficilmente avvicinabile.
Ha vinto il maggior numero di premi di MVP di stagione regolare.
Ha vinto due MVP di finale con due squadre differenti, l’ultimo all’età di 38 anni, risultando tuttora il giocatore più anziano di sempre ad essersi aggiudicato l’ambito trofeo.
Ha inventato e perfezionato il singolo gesto tecnico più letale e meno marcabile nella storia della pallacanestro.
È universalmente considerato il miglior giocatore di college basket di tutti i tempi.
Pat Riley, suo coach per otto anni ai Lakers, lo ha definito senza ombra di dubbio il più grande giocatore nella storia della pallacanestro. Alcuni suoi irriducibili avversari come Julius Erving e Isiah Thomas la pensano esattamente alla stessa maniera.
Magic Johnson, per dieci stagioni suo compagno di squadra a Los Angeles, si è spinto fino a dichiarare: “Da vecchio potrò raccontare ai miei nipoti di aver giocato con lui.”
Più in generale molti, fra esperti e addetti ai lavori, lo considerano il più grande talento naturale mai espresso da questo meraviglioso sport. Quasi tutti ritengono che con un carattere e scelte di vita diverse, ancora oggi non ci sarebbe discussione sul più grande di sempre perché lui avrebbe ordinatamente messo in fila tutti quanti.
Banale a dirsi, stiamo parlando di Ferdinand Lewis Alcindor Jr., più noto al grande pubblico come Kareem Abdul-Jabbar. Un predestinato se mai c’è stato qualcuno degno di questo appellativo.
Ogni singolo aspetto della movimentata vita di Kareem trasuda basket. A cominciare dal luogo di nascita, Harlem, la culla della pallacanestro afro-americana, lì dove tanti anni prima i gloriosi Renaissance avevano visto la luce e ogni cosa aveva avuto inizio.
Per passare ai playground che lui era solito frequentare da adolescente, su tutti il celebre Rucker Park, lo stesso che proprio in quegli anni vedeva sbocciare la leggenda di Earl The Goat Manigault e dove spesso imperversava il meglio del basket continentale.
Per finire ovviamente alle sue straordinarie doti fisiche e all’immenso talento fornitogli da Madre Natura. La perfezione cestistica fatta uomo, si diceva di lui. Altissimo ma nel contempo estremamente veloce e coordinato, dotato di una tecnica di prim’ordine, una perfetta comprensione del gioco e squisite abilità nel passaggio, Abdul-Jabbar è stato un incontenibile realizzatore, un efficace rimbalzista, un ottimo stoppatore.
La sua classe e la sua eleganza hanno segnato più di una generazione di centri, condizionando fortemente un ruolo che prima del suo avvento era caratterizzato esclusivamente dalla stazza e dalla potenza fisica dei propri maggiori interpreti.
Naturale conseguenza di tutto questo, il dominio e le vittorie, personali e di squadra, che Kareem ha conseguito a qualsiasi livello e che lo hanno reso nel complesso il giocatore con il palmares più ricco nella storia della pallacanestro americana.
Eppure a differenza di quanto possa sembrare da queste poche righe, non tutto è stato rose e fiori per il gigante con il celebre numero 33 sulle spalle. Quella di Abdul-Jabbar è stata una carriera strana, talmente abbagliante all’inizio da oscurare tutto e tutti, ma che in seguito ha risentito notevolmente del carattere ombroso e delle vicissitudini private del giocatore.
Una carriera che non ha mai toccato, almeno a livello professionistico, i picchi raggiunti da un Chamberlain o da un Jordan, che ha attraversato un lungo periodo buio, che spesso è stata osteggiata, ma come per magia è risorta dalle proprie ceneri. E ad un’età in cui la maggior parte dei giocatori son prossimi al ritiro o son soliti andare a svernare in qualche remota provincia cestistica, Kareem ha ripreso in mano le redini del proprio gioco, ha ritrovato l’entusiasmo dei bei tempi, ha ricominciato a predicare basket, a vincere, finanche a dominare contro avversari agguerriti e notevolmente più giovani, riscattando il suo passato più recente e consacrandosi definitivamente, se mai ce ne fosse stato bisogno, fra le più grandi leggende di questo sport.
Ma per inquadrare al meglio la lunghissima epopea di colui che il 16 Aprile del 1947 vide la luce come Lew Alcindor, bisogna cominciare dal principio.
Come dicevamo, il principio è Harlem. È una madre iperprotettiva, Cora Lillian. È un padre severissimo, agente di polizia e apprezzato musicista jazz, la cui freddezza e impassibilità tanto contribuiranno a forgiare il difficile carattere del giocatore.
Il giovane Lewis crebbe frequentando i playground fra Harlem, Brooklyn e il Queens, confrontandosi con i migliori prospetti della Grande Mela, disputando infuocate partite contro autentiche leggende quali Earl Manigault, Joe Hammond, Connie Hawkins.
Nonostante il contesto non fosse fra i più raccomandabili, il nostro si rivelò sin da subito un ragazzo abbastanza schivo e solitario, nonché sufficientemente intelligente da sfuggire alle tentazioni della strada, le stesse in cui il grande Manigault si perse.
Quando arrivò il momento di iscriversi all’High School, all’età di 14 anni, Lew superava già i due metri d’altezza. Era il 1961. Scelse la Power Memorial Academy, un liceo cattolico nel cuore di Harlem.
Nei quattro anni di Alcindor, la scuola vinse complessivamente 96 incontri su 102 disputati. Arrivarono tre titoli consecutivi del CHSAA Championship e un’incredibile striscia di 71 vittorie consecutive. Lew fu eletto ogni singola stagione All-American High-Schooler. Realizzò 2.067 punti e 2.002 rimbalzi complessivi, entrambi record dell’intero Stato di New York, che non è proprio come siglare il record di punti e di rimbalzi al campetto dietro casa.
En passant, da segnalare che la versione del 1964 della Power Memorial Academy è stata votata nel 2000 la miglior squadra di High School del secolo.
Al termine dello splendido e incontrastato dominio liceale, le porte di tutti i college d’America si spalancarono per la giovane stella di Harlem e per i suoi definitivi 218 talentuosissimi centimetri. Tutti i reclutatori erano pronti a far follie, sbilanciarsi in promesse e persino contravvenire ai rigidi regolamenti universitari pur di assicurarsi i suoi servigi.
Lew fu tentato di accettare le offerte della St. John’s University, appena dietro casa, ma alla fine optò per UCLA, in California, a migliaia di miglia dalla sua New York, per aver l’opportunità di giocare per il già leggendario John Wooden.
L’accoppiata Wooden-Alcindor si rivelerà devastante per il college basket, eppure gli inizi non furono semplici.
Come da regolamento dell’epoca, Lew trascorse l’intero anno da freshman in panca, ma la sua sola presenza nelle partite di allenamento funse da stimolo per tutti i componenti del roster.
Era il 27 novembre del 1965 quando la giovane matricola esordì nella nuovissima Pauley Pavilion Arena con la squadra delle riserve contro i titolari, che fra le altre cose potevano vantare il titolo di campioni NCAA in carica. Lew realizzò 31 punti, catturò 21 rimbalzi, guidò i suoi a una sonora vittoria per 75 a 60. Da allora e per tutto il primo anno, le riserve presero a vincere regolarmente le sfide casalinghe contro i più quotati compagni.
Quel giorno Wooden capì di trovarsi di fronte il più forte giocatore che avesse mai visto su un campo di basket, eppure ossessionato com’era dal gioco di squadra e dal collettivo, temeva che l’inserimento di un player individualmente incontenibile come Jabbar potesse frantumare i sottili equilibri e i perfetti ingranaggi del suo sistema.
UCLA tuttavia terminò la stagione senza vincere il titolo e Wooden ebbe molte meno remore nell’affidare completamente le chiavi del team nelle mani del proprio centro.
Nell’autunno del 1966, al suo esordio assoluto in prima squadra, Alcindor siglò 56 punti, nuovo record per i Bruins. Qualche gara dopo scrisse sul suo box-score 61. Terminò la stagione alle medie di 29 punti, 15.5 rimbalzi e il 67% dal campo. UCLA chiuse con trenta vittorie, nessuna sconfitta e il titolo NCAA. Il primo di sette consecutivi.
Fu così evidente il dominio del gigante di Harlem sul resto del mondo universitario che per limitarne lo strapotere e provare a rendere più equilibrato il torneo, quella stessa estate la NCAA varò una regola oggi inimmaginabile, l’abolizione della schiacciata.
Il colmo fu che tale discutibile decisione, come del resto ampiamente previsto da Wooden, anziché sfavorire il numero 33, gli consentì di affinare ulteriori soluzioni offensive e di ricorrere sistematicamente alla stoppata come arma difensiva. Non potendo più schiacciare, il giovane Lew iniziò dapprima ad appoggiare delicatamente la sfera a canestro per poi allontanarsi sempre più dal tabellone, sviluppando in breve quell’arma impropria che passerà alla storia sotto il nome di Sky-Hook e che sarà il marchio di fabbrica di tutta la sua lunghissima carriera.
Il gancio-cielo di Kareem nacque proprio allora. Per dirla alla Pat Riley è stata la singola arma più devastante nella storia della pallacanestro. Un movimento plastico, elegante, semplice da vedere, difficilissimo da perfezionare che, partendo da altezze siderali, risultava virtualmente instoppabile.
A tal proposito, diversi anni dopo, il suo erede a UCLA e rivale nella NBA, Bill Walton, avrà modo di dire: “Si dovrebbe eliminare il termine difendere quando si parla di Sky-Hook. Sei impotente, può solo sbagliare lui, ma di per sé è un colpo indifendibile.”
Negli ultimi due anni di carriera, l’ormai quarantenne Abdul-Jabbar avrebbe tirato praticamente solo di gancio, eppure mai nessuno sarebbe riuscito nell’improbo compito di fermarlo, di impedirgli di eseguirlo ogni volta con la solita, angosciante, millimetrica precisione.
Frattanto era cominciata la stagione NCAA 1967-68 con le clamorose novità previste dal regolamento. Inutile persino sottolineare che, a dispetto delle nuove regole, la corsa di UCLA continuò senza intoppi. Si dovette infatti attendere il 20 gennaio del 1968 per assistere alla prima sconfitta collegiale di Alcindor, in una storica partita che contribuì a rendere grande il basket universitario.
UCLA veniva da 47 vittorie consecutive e Lew era già una leggenda quando arrivò la sfida contro Houston, guidata da un altro grande talento della pallacanestro a stelle e strisce, un tale che diverrà piuttosto famoso di nome Elvin Hayes.
Le due squadre si erano già affrontate nelle Final Four dell’anno precedente. UCLA aveva vinto la partita, ma Hayes aveva incolpato della sconfitta i suoi compagni e aveva speso parole pesanti su Alcindor.
“Non è intenso a rimbalzo, in difesa è fermo, è sopravvalutato” aveva tuonato fra lo stupore generale.
Tutti attendevano con trepidazione la rivincita di gennaio fra i due migliori giocatori collegiali del pianeta. Quella sfida fu ribattezzata “la partita del secolo”. Fu un incontro memorabile che si disputò all’Astrodome di Houston, uno degli stadi coperti più grandi al mondo, solitamente riservato per le partite di baseball e di football.
Per adeguarlo alle esigenze del basket, fu spesa l’allora astronomica cifra di 10.000 dollari e si fece arrivare il parquet direttamente da Los Angeles. In un’atmosfera surreale, col campo in mezzo all’impianto, lontanissimo dal pubblico e le prospettive completamente falsate, di fronte ad oltre 52.000 spettatori e in diretta televisiva, i Cougars di Houston sconfissero gli imbattuti e imbattibili Bruins per 71 a 69, arrivando ad avere un vantaggio di 9 punti nel terzo quarto, il massimo scarto mai accumulato da un avversario di UCLA nel triennio di Alcindor.
Lew disputò la peggior partita della sua carriera universitaria. Hayes invece realizzò 39 punti, 15 rimbalzi e i due liberi decisivi a 25 secondi dalla sirena. Uscì dal campo a testa alta, con il petto gonfio e la profonda convinzione di poter condurre i suoi Cougars alla vittoria finale.
Wooden tuttavia non si mostrò per nulla preoccupato da quella sconfitta. Sapeva che con un Alcindor in condizioni fisiche appena normali, non c’era possibilità che i Bruins potessero perdere il titolo. Otto giorni prima quell’incontro, infatti, in una battaglia a rimbalzo contro Tom Henderson, il giovane Lew aveva rimediato un serio infortunio alla retina dell’occhio sinistro. Aveva saltato due gare ed era stato costretto a trascorrere un’intera settimana dentro una camera oscura. Si era quindi presentato alla sfida contro il rivale Hayes profondamente menomato.
Non fu dunque un caso se quella rimase l’unica sconfitta in stagione per i Bruins. Quando infatti, un paio di mesi dopo, UCLA e Houston si ritrovarono di fronte nelle Final Four di Los Angeles, Lew si prese la sua rivincita. Guidò i suoi a imporsi per 101 a 69, mise 19 punti, catturò 18 rimbalzi, limitò Hayes ad appena 10 punti e vinse per manifesta superiorità l’atteso confronto.
I ragazzi di John Wooden conquistarono il secondo titolo in finale contro North Carolina e Alcindor fu votato per il secondo anno consecutivo Most Outstanding Player della competizione.
Quella stessa estate arrivò la conversione all’islamismo. Pur decidendo di mantenere il suo nome americano, il ventunenne centro di UCLA abbracciò definitivamente la fede sunnita cui si era avvicinato già da tempo dopo aver conosciuto un tale Hamaas, leader islamico che gravitava nell’orbita di New York e che gli insegnò ad affrontare seriamente il proprio impegno religioso.
Sia per carattere ma anche in virtù della sopraggiunta celebrità, inseguito e corteggiato dagli scout, pressato dalla stampa, all’epoca ancora venerato dai tifosi, tirato per la giacca un po’ ovunque e soprattutto tormentato dalle frequenti emicranie che lo accompagneranno per tutta la vita, il giovane Lew era infatti una persona molto timida, introversa, piena di insicurezze, estremamente diffidente. Aveva disperato bisogno di una guida, qualcuno che lo conducesse per mano attraverso le decisioni più importanti della sua vita.
Considerando i rapporti non ottimali con il padre e con la famiglia d’origine, Lew trovò nella religione islamica un modo per raggiungere una sorta di equilibrio interiore e in Hamaas la guida spirituale che cercava. Tuttavia si consegnò così completamente nella mani del suo mentore da arrivare al punto di fargli scegliere la sua prima moglie, Habiba, nata Janice Brown. Un matrimonio combinato cui parteciparono pochi intimi e dal quale furono completamente esclusi i genitori del giocatore perché considerati infedeli.
Prima conseguenza del nuovo percorso intrapreso, fu il boicottaggio da parte del giovane Lew nei confronti delle Olimpiadi del 1968 di Città del Messico per protestare contro le disparità di trattamento che subivano gli afro-americani negli Stati Uniti. E fu così che nel ricchissimo palmares del futuro Abdul-Jabbar, la medaglia d’oro olimpica rimarrà per sempre l’unica vera lacuna.
L’anno successivo i Bruins e Alcindor proseguirono comunque nel loro incontrastato dominio. Arrivò il terzo titolo NCAA consecutivo. Lew chiuse la sua esperienza al college con una finale contro Purdue da 37 punti, 20 rimbalzi, 15 su 20 al tiro, nuovamente il premio di Most Outstanding Player, svariati record all’attivo e tutti i possibili riconoscimenti individuali.
Complessivamente nel triennio di Alcindor, i Bruins ebbero lo strabiliante bilancio di 88 vittorie e 2 sconfitte. Considerando anche gli ultimi tre anni di High School, nel momento in cui si apprestava a varcare le soglie del professionismo, il centro newyorkese veniva da sei titoli vinti negli ultimi sei anni, 170 partite ufficiali disputate, di cui 167 vittorie e appena 3 sconfitte.
Quello che nell’estate del 1969 era pronto a esordire in NBA, era dunque un giocatore mai visto prima. Potenzialmente il migliore di sempre, come già si favoleggiava da più parti. Si diceva che coniugasse alla perfezione dentro di sé le qualità in cui eccellevano singolarmente Bill Russell e Wilt Chamberlain. E gli inizi sembrarono proprio confermare questa idea. L’impatto che l’ex stella di UCLA ebbe nel basket pro fu infatti sensazionale.
Oltretutto i tempi erano maturi per un nuovo dominatore del ruolo, considerando che il supremo monarca Russell aveva appena appeso le scarpe al chiodo e l’eterno rivale Chamberlain viaggiava ormai verso le 34 primavere e in quel di Los Angeles era tutto dedito a rimbalzi e difesa.
Alcindor fu selezionato dai Milwaukee Bucks che, grazie al lancio di una fortunata monetina, si assicurarono la prima scelta assoluta al draft della National Basketball Association, beffando sul filo di lana i Phoenix Suns.
Dopo un lungo contenzioso fra la NBA stessa e l’ABA per aggiudicarsi i diritti sul giocatore, Lew finì per accettare l’offerta dei Bucks. I New York Nets dell’ABA provarono a giocare a rialzo arrivando a offrire al giocatore l’astronomica cifra di 3.25 milioni di dollari, ma fu una mossa che procurò l’irritazione del giovane centro e del suo entourage islamico.
“Una guerra di offerte degrada le persone coinvolte” dichiarò un indignato Alcindor. “Mi fa sentire come un venditore ambulante di carne e non voglio essere visto in questo modo.”
Quando Lew approdò nel Wisconsin, i Bucks erano appena al secondo anno di vita. Al loro esordio si erano adagiati sul fondo della Eastern Division con 27 vittorie a fronte di 55 sconfitte. La sola presenza del futuro Abdul-Jabbar sotto i tabelloni portò la squadra a vincere 29 partite in più rispetto all’anno precedente e a centrare sin da subito l’obbiettivo playoff.
Lew mise a referto 28.8 punti (secondo nella lega alle spalle di Jerry West) e 14.5 rimbalzi a partita (terzo), vinse il premio di rookie dell’anno, fu incluso nel secondo quintetto NBA e nel secondo quintetto difensivo. I Bucks raggiunsero le finali di Division dove si ritrovarono davanti i favoritissimi New York Knicks.
Per il giovane Alcindor il duello con l’esperto Willis Reed, fresco vincitore dell’MVP di Regular Season e nel pieno del suo furore agonistico, fu il primo di una lunghissima serie di entusiasmanti duelli contro i migliori interpreti del ruolo.
Chamberlain, Thurmond, Reed, Unseld, Hayes, Cowens, Walton, Moses Malone, Parish, Olajuwon, Ewing, sono solo alcuni dei nomi che Abdul-Jabbar si ritroverà ad affrontare giorno dopo giorno, partita dopo partita, nel corso della sua ventennale carriera.
Al suo esordio assoluto nei playoff di fronte a Reed, Lew fece registrare 34.2 punti a partita contro i 27.8 del quotato avversario. Vinse il confronto, ma nei possessi decisivi fu l’esperienza e l’astuzia del centro dei Knicks a prevalere e nel complesso New York si rivelò troppo più forte, riuscendo a imporsi agevolmente in cinque gare.
Quella stessa estate la dirigenza di Milwaukee si assicurò però i servigi, l’esperienza e la poliedricità della fenomenale guardia trentaduenne Oscar Robertson, al secolo The Big O, probabilmente il più grande All-Around Player di sempre.
Con l’asse play-centro targato Robertson-Alcindor e con un supporting-cast che prevedeva giocatori del calibro di Bobby Dandridge, Jon McGlocklin, Greg Smith e un giovanissimo Lucius Allen, Milwaukee si presentò al via l’anno successivo come una delle maggiori candidate al titolo.
La squadra vinse 16 delle prime 17 partite, arrivò una doppia sconfitta contro i Knicks, campioni in carica, quindi riprese la sua corsa. Fece registrare una striscia record di 20 vittorie, chiuse la stagione con 66 partite vinte e 16 perse.
Lew realizzò 31.7 punti a partita, consacrandosi miglior realizzatore della lega, catturò 16 rimbalzi, vinse il primo trofeo di MVP di stagione regolare. Neanche nei playoff la corsa dei Bucks sembrò trovare ostacoli. Al primo turno eliminarono in cinque partite i San Francisco Warriors, una serie in cui Alcindor quasi passeggiò sui resti di Nate Thurmond e Jerry Lucas.
Nella finale della Western Conference arrivò l’impegno teoricamente più duro. Contro i Lakers e contro Wilt Chamberlain. Ma i giallo-viola avevano perso per infortunio durante la Regular Season le stelle Jerry West ed Elgin Baylor. Chamberlain si ritrovò tutto solo ad affrontare l’intera corazzata dei Bucks.
Lo scontro fra il grande vecchio Wilt e il giovane leone Lew appassionò sin da subito l’intera America sportiva. Nonostante la differenza d’età, Alcindor per la prima volta si ritrovò davanti un avversario in grado di contenerlo fisicamente, di limitarlo offensivamente e persino di batterlo agevolmente a rimbalzo. Le sue medie calarono di oltre sei punti rispetto alla Regular Season, ma nel complesso i Bucks seppero approfittare degli infortuni degli avversari e si imposero facilmente in cinque gare.
La finale contro i Baltimore Bullets di Wes Unseld e Earl Monroe fu quasi una formalità. Si risolse in un rapido sweep e Alcindor, appena al suo secondo anno fra i professionisti, fu premiato anche con il trofeo di MVP delle finali.
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Il giorno dopo la conquista dell’anello, il giocatore completò il suo percorso religioso comunicando la decisione di cambiare legalmente il proprio nome in Kareem Abdul-Jabbar e ripudiando definitivamente le sue origini e la sua formazione cattolica. Quasi contemporaneamente cominciò a studiare i fondamentali dell’Arabico ad Harvard.
La stagione successiva, i Bucks vinsero 63 partite, secondi nell’intera lega alle spalle dei Lakers. Kareem giocò probabilmente il miglior basket della propria carriera.
Il 10 dicembre del 1971 contro il quotato rookie Dave Cowens e contro i Boston Celtics realizzò 55 punti. Nella gara successiva contro Unseld e i suoi Baltimore Bulltes ne mise 39. Chiuse con 34.8 punti a partita (nuovamente primo nella lega) e 16.6 rimbalzi (terzo). Vinse il secondo titolo consecutivo di MVP di Regular Season.
Condusse i suoi Bucks alle finali di Conference, dove erano attesi dall’epico confronto contro i Los Angeles Lakers in versione deluxe.
Ancora contro Chamberlain, il venticinquenne Kareem, all’apice della propria verve realizzativa e stavolta ben deciso a non subire la straripante presenza dell’avversario, giocò al meglio delle proprie possibilità. Perse nuovamente la battaglia a rimbalzo, ma mise una media di 33.7 punti a partita, mostrando un arsenale offensivo pressoché illimitato.
Chamberlain, all’epoca trentaseienne, sudò le proverbiali sette camicie per tentare di contenere un incontenibile Abdul-Jabbar, dalle cui mani passava ogni singolo possesso dei Bucks. Per larghi tratti della serie, Kareem diede l’impressione di poter oscurare il leggendario avversario, ma in gara 3 e soprattutto nella fondamentale gara 6 a Milwaukee, Wilt si rivelò il vero ago della bilancia nella serie.
Il giovane centro dei Bucks non riuscì a trovare il canestro durante tutti gli ultimi dieci combattutissimi minuti della sesta e decisiva partita. Cinque sue conclusioni furono stoppate da Chamberlain, e persino l’infallibile Sky-Hook si rivelò per la prima volta inefficace contro un avversario.
Alla fine, trascinati dalla straordinaria difesa di Chamberlain, i Lakers si imposero per 104 a 100 e al suono della sirena Wilt lasciò il campo mentre tutto lo sportivissimo pubblico di Milwaukee scattava in piedi per riservargli una lunghissima standing ovation.
Superato lo scoglio più difficile, Los Angeles andò a vincere il titolo in finale contro i Knicks, mentre Milwaukee si preparò a due ulteriori stagioni da assoluta protagonista. Le ultime prima del ritiro di Oscar Robertson.
Frattanto la vita privata di Abdul-Jabbar veniva sconvolta da un episodio che caratterizzò fortemente l’immediato futuro del giocatore.
Già da qualche tempo Kareem aveva acquistato una palazzina a Washington D.C. dove era stato fondato il quartier generale della sua guida spirituale, Hamaas. Il leader e i suoi più fidi seguaci in pratica si erano ritrovati a vivere non solo a casa di Abdul-Jabbar, ma anche con i suoi soldi e per di più a dirgli cosa dovesse fare della propria vita, quali scelte dovesse compiere, a chi dovesse prestare fiducia.
L’integralismo di Hamaas aveva però apportato diverse varianti alle dottrine islamiche, cosa che Kareem aveva scoperto grazie ai suoi studi ad Harvard. Erano cominciati una serie di duri confronti fra il giocatore e il poco tollerante leader che ovviamente non mancava di pretendere fede assoluta da parte dei suoi seguaci. La situazione divenne subito molto tesa.
A risolverla involontariamente e nella maniera più tragica possibile, il 18 gennaio del 1973, fu un commando armato di Black Muslim che fece irruzione nel quartier generale di Hamaas per uccidere il mentore di Kareem, il cui fanatismo religioso cominciava a dar fastidio a molti. Hamaas scampò casualmente al massacro ma nell’eccidio morirono i suoi quattro figli e due nipoti.
Abdul-Jabbar rimase sconvolto dalla strage, tanto più che l’appartamento dove si compì la tragedia era suo e il suo nome rimbalzò su tutti i telegiornali d’America. Quell’episodio chiuse virtualmente la carriera di Hamaas come leader islamico e fu il preludio sia per il divorzio di Kareem da Habiba, sia per il tentativo del giocatore di riprendere finalmente in mano le redini del proprio destino e successivamente di riavvicinarsi ai genitori, fino a quel momento completamente esclusi dalla sua vita.
Frattanto i Bucks vinsero 60 partite in Regular Season, ma persero sorprendentemente al primo turno di playoff contro i Golden State Warriors di Rick Barry, una serie che Kareem giocò molto sotto tono contro il grande vecchio Nate Thurmond.
L’anno successivo le vittorie per Milwaukee furono 59. Un ritrovato Abdul-Jabbar vinse il terzo titolo di MVP di Regular Season e condusse i suoi fino alla finale contro i Boston Celtics guidati dall’anziano John Havlicek e dal giovane centro Dave Cowens.
Cowens era l’esatto opposto di Kareem. Bianco, biondo, alto appena 205 centimetri e in possesso di una tecnica discreta, era però molto veloce, forte come un toro e soprattutto dotato di una grinta e di una determinazione senza pari. Fu un duello strano, difficile per entrambi, decisamente affascinante.
Il centro dei Bucks ne uscì vincitore riuscendo a chiudere la serie alle medie di 32.6 punti, 12.1 rimbalzi, 5.4 assist, 2.1 stoppate e tenendo spesso a galla i suoi contro una rivale che si stava rivelando più forte, ma fu Boston a portare a casa il titolo dopo un’epica gara 7 in cui un ormai anziano Oscar Robertson pagò pesantemente dazio da un punto di vista fisico nei confronti dei più giovani e affamati avversari.
Dopo quella serie finale, il grande Big O decise di appendere le sue magiche scarpe al chiodo e per Milwaukee, nonostante Kareem, arrivò il crollo.
L’anno successivo il centro dei Bucks saltò infatti 17 partite per vari infortuni, fra cui il riacutizzarsi del problema alla cornea che già lo aveva colpito durante gli anni a UCLA. La squadra chiuse con appena 38 vittorie e la mancata qualificazione alla post-season. Peggio di Milwaukee avevano fatto solo i Lakers in piena ricostruzione dopo gli addii al basket giocato di Chamberlain e West.
E fu proprio fra Bucks e Lakers che si consumò la grande trade che quella stessa estate portò Abdul-Jabbar in California. Era stata una precisa volontà del giocatore di lasciare il Wisconsin non tanto per scelta tecnica quanto per una motivazione culturale.
Già di per sé di carattere schivo e difficile, dopo la separazione dalla prima moglie e dopo aver perso la sua guida spirituale, Kareem si sentì solo e non gradito a Milwaukee. Era ancora alla ricerca di una giusta collocazione nel contesto sociale e culturale dell’America di metà anni ’70 e sentiva che non era in una città isolata, piccola, fredda, senza nessuno con cui condividere le sue scelte religiose, le sue letture e i suoi studi che poteva trovare la sua strada. Arrivò a sentirsi completamente fuori posto in quell’ambiente, osservato, giudicato, persino guardato con sospetto.
Quando chiese di essere ceduto, la dirigenza dei Bucks dapprima fece qualche tentativo di convincerlo a restare, addirittura arrivando a offrirgli di vivere a New York e fare da pendolare, poi cominciò seriamente a valutare le offerte che pervenivano.
La più allettante fu giudicata quella dei Lakers, meta oltretutto molto gradita al giocatore. Abdul-Jabbar fu così spedito a Los Angeles in cambio di Junior Bridgeman, Dave Meyers, Elmore Smith e Brian Winters. Iniziarono in quel preciso momento gli anni più bui della sua carriera.
Il suo arrivo alla corte giallo-viola portò nella stagione 1975-76 i Lakers a vincere dieci partite in più rispetto all’anno precedente, ma la squadra rimase comunque fuori dai playoff.
Abdul-Jabbar vinse il quarto titolo di MVP in sette anni da professionista, ma la lega dopo il ritiro delle leggendarie figure che avevano reso grande l’NBA nella decade precedente, adesso stava vivendo un periodo di profonda involuzione. Il livello del gioco era calato, l’interesse del pubblico stava rasentando i minimi storici. Televisioni e mercati pubblicitari non avevano più interesse a investire in un contesto dove droghe e violenza avevano iniziato a far da padroni.
L’anno seguente Kareem venne nominato per la quinta volta MVP di Regular Season, eguagliando il primato di Bill Russell, dopo una stagione da 25.8 punti, 13.3 rimbalzi, 3.2 stoppate e il 57,9% dal campo.
I Lakers vinsero 53 partite, centrarono i playoffs, ma furono eliminati nella finale della Western Conference dai Trail-Blazers di Bill Walton con un sonoro sweep.
La serie contro Portland si risolse fuori dal pitturato con il reparto di esterni della squadra dell’Oregon che vinse nettamente il duello con i pariruolo avversari. Kareem chiuse l’intera post-season alle strabilianti medie di 34.5 punti, 17.7 rimbalzi, 3.5 stoppate e il 60,7% dal campo. Lottò eroicamente e resse ottimamente il confronto con la front-line di Portland, eppure l’errata percezione comune fu che avesse perso la battaglia sotto canestro con Walton e finì addirittura per essere accusato della sconfitta.
Non era affatto un giocatore felice l’Abdul-Jabbar che, all’età di 30 anni, si apprestava a disputare la nona stagione in NBA. La sua carriera fino a quel momento non aveva rispettato le entusiastiche attese. Aveva avuto un inizio folgorante, salvo poi impantanarsi nella mediocrità di una lega che non rendeva giustizia al suo immenso talento.
E il peggio doveva ancora arrivare. Giunse infatti l’annata più difficile, quella in cui le sue quotazioni come giocatore rasentarono il minimo storico.
Tutto cominciò all’opening-day proprio contro i suoi ex compagni di Milwaukee. Era il 18 ottobre 1977. Il centro dei Bucks, Kent Benson, un rookie alla sua prima partita in NBA, dopo appena due minuti di gioco colpì Kareem con una forte gomitata in pieno stomaco.
Abdul-Jabbar, che oltre a un fisico eccezionale poteva anche contare su una perfetta conoscenza delle arti marziali, ebbe giusto il tempo di riprendersi, poi raggiunse alle spalle l’avversario e lo colpì con un pugno in pieno volto. Fu un colpo così violento che Benson si ritrovò con la mascella rotta, mentre Kareem si fratturò la mano.
Fu costretto a saltare le successive 20 partite, ma non fu tanto l’infortunio a minare la sua stagione quanto le dichiarazioni che rese nel post-partita. In conferenza stampa il centro giallo-viola si disse per nulla pentito di quel gesto e anzi pronto a rifarlo di fronte ad altre eventuali provocazioni.
La sua credibilità come uomo di pace ne uscì profondamente intaccata e in molti ne approfittarono per puntare il dito non solo contro il giocatore e le sue contraddizioni, ma più in generale contro la cultura, la religione e la fetta di società che lui rappresentava.
In un’epoca in cui le risse erano all’ordine del giorno sui campi della NBA, Kareem – che col suo modo di fare e le sue scelte particolari iniziava a stare molto poco cordialmente sulle scatole a tutti – ricevette quella che all’epoca era la multa più alta nella storia della lega. Al suo ritorno sul terreno di gioco, conobbe per la prima volta i fischi e i boati di disapprovazione del pubblico.
Ma di nuovo il peggio era ancora da scrivere. Due mesi dopo, il 9 dicembre del 1977, in una partita fra Lakers e Houston Rockets, scoppiò una nuova rissa in campo. Ancora una volta Kareem si ritrovò coinvolto. Il susseguirsi degli eventi è dibattuto e mai è stata fatta piena chiarezza su ciò che precisamente avvenne, fatto sta che a un certo punto l’ala dei Lakers, Kermit Washington, colpì con un pugno in pieno viso l’accorrente Rudy Tomjanovich.
Jabbar tempo dopo descriverà il suono di quel pugno come il rumore di un’anguria che cade sul cemento. Quel tonfo rimbombò nell’aria carica di elettricità, raggiunse il pubblico e zittì e paralizzò all’istante l’intero palazzetto.
“Il silenzio più forte mai sentito” commenteranno in seguito gli stessi giocatori presenti sul terreno di gioco. Tutti smisero istantaneamente di litigare. Il povero Tomjanovich era riverso sul parquet in una pozza di sangue.
Quel pugno, ritenuto l’episodio più drammatico nella storia dell’NBA nonostante Artest e Wallace, costò a Tomjanovich la frattura del setto nasale, dello zigomo, lo spostamento della mandibola e una grave commozione cerebrale. La forza dell’impatto fece rientrare le ossa del cranio del futuro coach dei Rockets di otto millimetri. Il giocatore dovette subire tre interventi chirurgici e ne rimase irrimediabilmente sfigurato. Saltò le successive 53 partite e vide inevitabilmente compromessa la sua carriera. Ovviamente finì per essere compromessa anche la carriera di Kermit Washington, ma questa è tutt’altra storia.
Kareem rimase così impressionato da quell’evento da avere quasi una repulsione nei confronti del gioco e di ciò che era diventata la lega in quegli anni. Continuò a calcare i parquet, per certi versi a dominare grazie alla sua immensa classe, ma non aveva più il sacro fuoco dentro.
Il centro dei Lakers si chiuse ancor più in se stesso, si isolò del tutto dal resto del mondo fino a divenire quasi un corpo estraneo all’interno della lega. Non parlava più con nessuno, smise di rilasciare interviste, di incontrare la stampa, persino di rispondere alle critiche che gli piovevano addosso. Ciò che fra le altre cose gli veniva imputato era di non essere in grado di svolgere la funzione di “Salvatore”, di non far nulla per porre un freno alla deriva in cui la lega stava precipitando. In breve divenne il giocatore più criticato del circuito, il bersaglio più grosso, colui cui addossare le colpe per una situazione che si era fatta estremamente pesante.
Quell’anno i Lakers vinsero 45 partite per poi essere eliminati al primo turno di post-season fra l’indifferenza generale.
Seguì un’ennesima stagione anonima e deludente in cui i giallo-viola continuarono a sguazzare nella loro mediocrità e Kareem a essere poco tollerato da un ambiente impoverito tecnicamente ed economicamente, che diveniva sempre più ostile nei suoi confronti.
Poi arrivò l’estate del 1979 e tutto improvvisamente cambiò. Arrivarono Magic Johnson e Larry Bird e la NBA rinacque. Ma non fu l’unica, perché a rinascere fu lo stesso Kareem Abdul-Jabbar.
Sicuramente per il centro giallo-viola fu importantissimo l’apporto tecnico di Magic, ma fu ancora più importante l’entusiasmo che il playmaker da Michigan State portò nello spogliatoio dei Lakers. Kareem ne rimase contagiato. Ritrovò poco alla volta l’affetto e la vicinanza del proprio pubblico, ritrovò la voglia di giocare e di divertirsi, una voglia che aveva smarrito nel corso degli anni.
Determinante risultò anche la nuova atmosfera che cominciò a respirarsi nella lega. Era come un’aria nuova, di rinascita tecnica e culturale, un clima di speranza e di attesa, di entusiasmanti e promettenti sfide.
Quando tutto ciò prese corpo, Kareem aveva già 32 anni. Nessuno poteva saperlo ma una seconda giovinezza lo attendeva. Incredibile a dirsi, altre dieci lunghe e soddisfacenti stagioni da spendere ai più alti livelli erano dietro l’angolo.
Da quel momento fino al 1989, anno in cui il giocatore avrebbe appeso le scarpe al chiodo, i Lakers vinsero cinque titoli, disputarono otto finali, inventarono lo “Showtime”, un tipo di gioco di cui sicuramente Magic fu pietra angolare e motore, ma Abdul-Jabbar, grazie alla sua velocità nel contropiede e alla sua immensa classe, ne fu superbo finalizzatore.
Nella prima stagione della rinascita, l’ormai occhialuto numero 33 conquistò il suo sesto titolo di MVP di Regular Season, siglando un record tuttora imbattuto. I Lakers vinsero 60 partite, arrivarono fino alla finale contro i Philadelphia Sixers di Julius Erving.
The Captain tornò agli antichi splendori disputando una finale da 33.4 punti, 13.6 rimbalzi, 3.2 assist e ben 4.6 stoppate di media. Ma nel terzo quarto di gara 5, con la serie ferma sul due a due, si infortunò seriamente alla caviglia sinistra. Strinse i denti, rimase ugualmente in campo e siglò 40 punti con cui portò i giallo-viola alla vittoria e la serie sul 3 a 2 per i Lakers.
Quel che avvenne dopo è storia nota. Kareem pagò un prezzo salatissimo per quell’eroica prestazione saltando la successiva gara 6, ma il rookie Magic Johnson condusse comunque i suoi al successo disputando una partita eccezionale in virtù della quale scippò letteralmente il trofeo di MVP delle finali proprio dalle mani del suo capitano.
Leggenda vuole che al suono della sirena, spronato dalle parole urlate in diretta televisiva dallo stesso esuberante Magic (“So che ti fa male, big fella, ma voglio che questa notte ti alzi e inizi a ballare”), l’austero e impostato gigante con gli occhiali, seppur zoppicante, salì sul terrazzo della sua villa di Bel Air ed effettivamente cominciò a ballare. Aveva appena vinto il suo secondo titolo in carriera, nove anni dopo il primo, conquistato a Milwaukee. Letteralmente in un’altra vita.
Ora Kareem Abdul-Jabbar era un uomo nuovamente felice, che poco a poco avrebbe saputo riconquistare l’affetto, la stima e la profonda ammirazione di tutta l’America sportiva.
I Lakers tornarono sul tetto del mondo nel 1982. Raggiunsero le finali anche nel 1983, dove Kareem fu messo duramente sotto da colui che negli ultimi due/tre anni lo aveva privato dello scettro di miglior centro della lega, vale a dire il grande Moses Malone. Il problema è che Malone, otto anni più giovane, con quella finale raggiunse l’apice della propria carriera, Jabbar avrebbe avuto invece il tempo non solo di vincere altri tre titoli, ma anche di riprendersi lo scettro che gli era stato sottratto.
L’anno successivo, il 5 Aprile del 1984, avversari gli Utah Jazz, il centro dei Lakers ricevette un passaggio da Magic si girò di scatto e lasciò partire il suo celebre gancio. Il soffice rumore della retina consegnò al giocatore il punto numero 31.421 in carriera.
L’intero palazzetto esplose in un tripudio di ovazioni. In quel momento Kareem aveva superato Wilt Chamberlain come miglior realizzatore di sempre nella storia della NBA. Oggi, a distanza di quasi trentatré anni, è ancora lì, sul tetto del mondo. Molto probabilmente irraggiungibile.
I Lakers persero la finale anche nel 1984 contro i Celtics di Bird, ma l’anno dopo arrivò un nuovo anello. Il più bello per il capitano, quello della consacrazione assoluta.
Gli avversari erano ancora una volta gli irriducibili rivali di Boston. La tradizione pendeva tutta dalla parte dei ragazzi del Massachusetts. Fino a quel momento il ruolino di marcia dei Celtics era stato impressionante. Sedici finali disputate, quindici vittorie. I Lakers avevano incontrato sette volte in una serie finale i Celtics. Sette volte erano stati sconfitti.
Tutto ciò fino a che Kareem disse basta.
E dire che gara 1 era stato un massacro. Un autentico e imbarazzante massacro.
Il 33 dei Lakers che fino a poche ore prima della partita aveva sofferto di una delle sue solite, terribili emicranie, fu letteralmente annullato da Parish. Finì con 12 punti, 3 rimbalzi, 2 palle perse. La partita si chiuse sul 148 a 114 per Boston e tuttora è ricordata in America come “The Memorial Day Massacre”.
Il giorno dopo in una conferenza stampa che i Lakers tennero nel loro albergo, le uniche parole del centro giallo-viola di fronte ai giornalisti furono: “I was embarassed.”
Eppure il coach di Los Angeles, Pat Riley, era convinto che nulla fosse perduto e che l’ago bilancia della sfida fosse proprio Kareem. Prese il suo centro da parte e gli parlò a lungo, da pari a pari, nel modo in cui il giocatore avrebbe gradito. Riley lo esortò a tenere un discorso alla squadra, del resto lui ne era il leader, doveva assumersi le proprie responsabilità, spronare i compagni, trascinarli di peso alla vittoria.
Kareem accettò ed eseguì. Subito dopo il coach contravvenne a una delle sue regole ferree e per la prima volta permise al padre del giocatore di salire sul bus che avrebbe portato i Lakers al Boston Garden per gara 2.
Prima della partita Riley dichiarò alla stampa: “Kareem ha giocato male. Lui lo sa. L’ha detto. Io gli ho parlato francamente, gli ho detto che non ha giocato duramente. Lui me l’ha confermato. L’ha confermato a tutta la squadra. Kareem ha fatto un promessa a me e a tutti i ragazzi. Ha detto che non succederà più, mai più. Dopo aver parlato, Kareem aveva una nuova luce nei suoi occhi. Son sicuro che non accadrà mai più!”
Ed effettivamente non accadde mai più.
30 punti, 17 rimbalzi, 8 assist e 3 stoppate furono il biglietto da visita dell’anziano Abdul-Jabbar in gara 2. I Lakers espugnarono il Boston Garden per 109 a 102.
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In gara 3, il centro giallo-viola mise altri 26 punti e catturò 14 rimbalzi. Los Angeles si impose per 136 a 111, vendicando in parte lo smacco della prima partita della serie.
Gara 4, al Forum di L.A., fu invece molto equilibrata. Boston gettò il proprio immenso cuore oltre l’ostacolo. Sul risultato di 105 pari, i Celtics avevano l’ultimo possesso. Larry Bird servì Dennis Johnson che, a due secondi dalla sirena, mise il canestro della vittoria. Il risultato adesso era sul 2 a 2. Il fattore campo era stato ristabilito e la serie tornava a pendere dalla parte dei Celtics.
In gara 5, però, ancora un immenso Kareem collezionò 36 punti, 7 rimbalzi, 7 assist, 3 stoppate. I Lakers si imposero per 120 a 111, per poi andare a chiudere qualsiasi discorso in trasferta, in una gara 6 in cui il leggendario capitano mise 18 dei suoi 29 punti complessivi nel secondo tempo.
Gli ultimi secondi della partita furono giocati in un silenzio quasi irreale. Un silenzio che era la più dolce delle melodie per i Lakers.
All’età di trentotto anni, Abdul-Jabbar terminò quelle finali alle medie di 35.5 minuti, 25.7 punti, 9.0 rimbalzi, 5.2 assist. Fu lo scontatissimo MVP della serie. Erano passati esattamente quattordici anni da quando, con la maglia dei Bucks, aveva vinto per la prima volta il premio. Diventava quel giorno il primo giocatore di sempre a vincere due MVP di finale con due squadre diverse, nonché il più vecchio nella storia ad aggiudicarsi il trofeo.
“He’s just incredibile. He’s the most unique and durable athlete of our time” dichiarò un entusiasta PatRiley a fine gara.
Dopo quella serie il grande capitano decise di fare un passo indietro. Nelle ultime dieci stagioni era stato il fulcro dell’attacco dei Lakers. Ogni singolo pallone era passato dalle sue mani, ogni singola giocata era stata concepita dalla sua esperienza cestistica. Da quel momento in poi non più. Kareem consegnò le chiavi della squadra al suo compagno Magic, completando un naturale passaggio di consegne fra i due meravigliosi giocatori in maglia giallo-viola.
Eppure l’occhialuto centro continuò anche nelle stagioni successive a mantenere una media di oltre trenta minuti per gara e tutto ciò a un’età in cui la stragrande maggioranza dei suoi colleghi è solita aver appeso già da tempo le scarpe al chiodo.
Il suo segreto era nella ferrea disciplina sportiva e alimentare cui si sottoponeva ormai da anni, nello yoga, nelle arti marziali apprese grazie all’amicizia con Bruce Lee, nella meditazione che praticava con costanza prima di ogni partita al fine di ridurre lo stress e combattere le emicranie.
Con Abdul-Jabbar sotto canestro i Lakers vinsero altri due titoli, il famoso back to back nel biennio fra il 1987 e il 1988. Tornarono in finale anche nel 1989 per quella che fu l’ultima stagione di Kareem fra i professionisti. La stagione passata alla storia per il celebre tour d’addio.
Dovunque i Lakers andassero a giocare, per il centro giallo-viola quell’anno furono soltanto lunghi applausi e interminabili standing ovation. Come era stato già fatto per Julius Erving, in ogni singolo palazzetto gli venne consegnato un dono, tra cui persino una Rolls Royce e una barca a vela.
Tempo dopo lo stesso Kareem dirà a questo proposito: “Gli anni ’80 mi hanno ampiamente ricompensato di tutto ciò che ho dovuto subire durante i ‘70. Sono sopravvissuto a tutti i miei critici. Con il tempo ho saputo conquistare la stima della gente, tutti mi vedevano come una istituzione della pallacanestro da venerare. Le cose cambiano.”
Il 13 giugno del 1989, giorno di gara 4 della finale NBA che i Lakers persero sonoramente contro i Detroit Pistons, l’ormai quarantaduenne Kareem Abdul-Jabbar giocò l’ultima partita della sua immensa carriera. Rimase in campo 29 minuti, mise 7 punti, catturò 3 rimbalzi. A pochi istanti dalla sirena, nel momento in cui fu richiamato in panchina, tifosi, giocatori, allenatori, arbitri, dirigenti, si alzarono tutti in piedi per applaudirlo e rendergli una lunghissima e meritata ovazione.
Il ritiro di Kareem Abdul-Jabbar rappresentò la fine di un’era per il basket americano.
Entrato nella lega nel momento in cui Bill Russell salutava il grande palcoscenico della NBA, Kareem ne era uscito vent’anni, sei titoli, 1.560 partite e 38.387 punti dopo, nel momento in cui nuovi intrepidi leoni si affacciavano sulla scena ed erano pronti a raccogliere il suo pesantissimo testimone.
Kareem tuttora è il punto di congiunzione e il metro di paragone fra i leggendari anni ’60, quelli dell’esplosione di popolarità a livello nazionale e del dominio di Russell e Chamberlain, con gli anni ’90, quelli dei nuovi leoni, dei Jordan e degli Olajuwon, del Dream Team, della ritrovata floridità economica, dell’esplosione e della consacrazione della lega a livello mondiale.
Non appena risultò possibile dal regolamento, nel 1995, Kareem fu introdotto nella Naismith Memorial Basketball Hall of Fame di Springfield. In quel momento il suo nome divenne ufficialmente leggenda.
Proprio in occasione della premiazione, Pat Riley ebbe modo di dire:
“Perché giudicare? Quando un uomo ha battuto tutti i record, ha vinto campionati, sopportato un carico di critiche e responsabilità tremende, perché giudicare? Limitiamoci a brindare a lui come al più grande giocatore di sempre.”
E davvero così sia.
Ha esordito su Play.it nel 2004 con la rubrica “NBA Legendary Games”. Dopo una trentina di pezzi ha lasciato perdere le partite per dedicarsi alla nuova rubrica “25 Legendary Players”. Ha mollato anche questa sul più bello per mettersi a scrivere romanzi noir. Il successo, probabilmente vittima di paresi, gli ha arriso e sorriso.
Bellissimo ed esaustivo articolo Goat, questo forse più di altri!
Una considerazione mia personale: tra i primissimi del gioco Kareem mi ha sempre dato l’impressione di essere quello meno duro, meno affamato e con meno personalità; e un po’ te ce lo hai confermato nell’articolo.
Io personalmente non l’ho mai messo così in alto nella classifica All Time proprio per i motivi di cui sopra o, per meglio dire, i motivi di cui sopra hanno sminuito la grandezza del giocatore e le sue immense caratteristiche tecniche.
Ovviamente te non la pensi come me, visto che lo hai messo al posto n°4, ma altri che leggono l’articolo hanno la mia stessa impressione?
Può secondo voi aver influito negativamente nella percezione del giocatore il fatto di aver dominato l’epoca più buia della nba (anni 70)?
Ti dirò, le persone con cui maggiormente mi son confrontaro nello stilare questa classifica al di là e al di qua dell’oceano vedono quasi tutti Kareem non oltre la terza/quarta posizione. Molto spesso terzo, a volte secondo, alcuni persino primo. Poi c’è tanto tanto di soggettivo a certi livelli. Le differenze le fanno le piccole cose, le esperienze e i gusti personali, a volte anche semplici sensazioni come dici giustamente tu.
Io una cosa che ho appurato parlando in giro è che Jabbar è molto molto poco conosciuto. E questo forse influisce nel giudizio. Cioè tutti sanno dello sky-hook, dei titoli con magic, dello showtime, degli occhiali, ma finisce lì. Dietro c’è un mondo intero da scoprire. Un giocatore enorme, un talento non raro ma unico, una personalità complessa, nel bene e nel male.
Articolo davvero interessante, tante delle cose soprattutto sulla vita privata di Jabbar non mi erano note. Ma anche alcuni avvenimenti legati all’attività sportiva, come il pugno a Benson.
Del suo gancio cielo mi ha sempre affascinato un aspetto, che sostanzialmente è ciò che dice Walton: uno dei fondamenti dello sport è far qualcosa che sorprenda l’avversario, che non lui si aspetti; invece il suo marcatore sapeva tutto: come avrebbe tirato, quando, il movimento ch avrebbe fatto… ma nonostante questo non aveva nessuna chance di fermarlo.
Mi sembra che alcune valutazioni , a partire da quella di Kareem Abdul Jabbar ma non solo , risentano di una certa tifoseria “bostoniana” e di una carta avversione “losagelina”.
Considerare LeBron più avanti di Bryant (5 titoli a 3 … e molto altro) o posizionare Jabbar dietro a Chamberlain o Russel (6 titoli , primo realizzatore ogni tempo , dominatore NCAA … e molto altro) fa pensare a valutazioni soggettive e non oggettive.
Chi parla poi dei “bui” anni 70 della NBA non ha la minima idea di quanto fossero oscuri quelli precedenti dove Chamberlain & Russel dominavano.
Ho 60 anni ed ho avuto la fortuna , studiando e vivendo in USA (San Diego , California) di vedere all’opera tali giocatori dal vivo ed in base alla mia esperienza condivido le scelte di classifica fatte per Magic Johnson e Bird ma per il podio , al di là dell’inarrivabile Jordan , non ci siamo proprio.
Comunque gran bel lavoro !
Ma certo che le posizioni di classifica sono pareri altamente soggettivi dell’autore degli articoli, ci mancherebbe e del resto non potrebbe essere diversamente. Nessuno ha mai preteso di dare un’aura di oggettività non a questa classifica ma a tutte le classifiche del genere che si trovano qua e là sparse per il mondo. Io mi son sforzato di considerare tutti gli aspetti possibili e immaginibili nelle mie valutazioni, di confrontarmi con molte persone in merito in modo di ampliare più possibile la mia visuale, poi a quali aspetti dare maggiore importanza e a quali minore importanza, beh, questa è stata una mia personalissima decisione. Sono ovviamente pronto a sostenere qualsivoglia confronto in materia, a spiegare le mie posizioni, ma mai e poi mai a imporre la mia idea o a vedermi imporre le idee egualmente soggettive di altre persone.
Per quanto riguarda invece gli anni bui, i ’60, i ’70, gli ’80, i ’90… beh un attimo. Qui subentra la storia della pallacanestro americana, che sinceramente penso di conoscere piuttosto bene da Naismith in poi. :-D
Scusa ma non ho ben capito quello che volevi dire…
Tralasciando il discorso degli “anni ’70=anni bui” (che mi sembra un dato oggettivo, sia per il livello tecnico che per l’appeal in generale questi sono gli anni meno scintillanti della lega, e poco importa se Russell&Chamberlain dominassero), cosa vuoi dirci con il tuo post? Che Jabbar doveva stare top 3? Che Kobe è superiore di Lebron perchè ha 5 titoli e l’altro solo 3? Che c’è una congiura dell’est contro la bistrattata West Coast?
Buon per te che hai avuto modo di seguire dal vivo certi campioni, soprattutto quelli del passato (tanta invidia!) ma sinceramente, se non ho frainteso quello che hai scritto, condivido poco o nulla di quello che hai scritto…
Goat bellissimo articolo. A questo punto ti mancano 2 centri. Secondo me sarebbe bello se tu spiegassi nell’articolo su tizio perché è meglio di jabbar e nell’articolo su Caio perché è meglio di Tizio e jabbar.
Personalmente trovo difficile allocare russel e Chamberlain dato che è un basket troppo distante. Mi sarebbe piaciuto leggere una storia di Russell lontano da quelle corazzate che sono state, anche x merito suo, quei celtics, che sono il gruppo più numeroso in questa classifica mi pare, mentre per quanto riguarda wilt lo ritengo, x quello che Ho potuto vedere, inferiore a jabbar in tutti gli aspetti eccetto forse solo la forza fisica..cmq sono ovviamente puramente personali
Magari è un discorso che affronteremo nei prossimi articoli. Così su due piedi, i confronti Jabbar/Camberlain di inizi anni ’70 sono abbastanza esplicativi considerando anche che uno era al suo prime e nell’epoca di massima capacità realizzativa, l’altro in fase sicuramente calante. Però, ripeto, ne dovremo riparlare. E’ un discorso complesso e non mi va di banalizzarlo e ridurlo a questo semplice esempio.
Molto spesso tendo anche io a pensare che i migliori giocatori di oggi siano superiori ai migliori giocatori di decenni fa. Piu’ veloci, piu’ atletici, con un range di tiro maggiore.
Tuttavia esistono alcuni scontri “epocali” che fanno dubitare di questo.
Ad esempio uno Jabbar nel suo prime, non è riuscito a mettere sotto un Chamberlain a fine carriera… anzi lo ha sofferto fisicamente, io non c’ero ma è facile leggere questo negli articoli che trattano di quelle partite, ed i risultati dove Jabbar supportato da Robertson non è riuscito a battere i Lakers, uno stesso Chamberlain che non era assolutamente al livello di se stesso a metà degli anni 60.
Jabbar a fine carriera, senza avere piu’ quelle doti atletiche, quella velocità, quella elevazione, ha tenuto al loro posto alcuni dei migliori centri del basket moderno: Olajuwon, Ewing.
Lo stesso Jordan ha avuto grosse difficoltà a battere i grandi team degli anni 80, Boston, Lakers e Pistons, riuscendoci quando queste formazioni erano ormai alla frutta… ma poi a 38 anni suonati lasciava sul posto i migliori interpreti del gioco nei ruoli di Backcurt come non ci fosse un domani. Esemplare l’ultima serie finale in cui un giocatore come Bryon Russel che difendeva non è riuscito minimamente a limitarlo.
Quelli che citi però sono tutti duelli che hanno avuto per vincitore non tanto il più forte, quanto il più esperto. Continuando con l’elenco, lo stesso Olajuwon si rifarà contro un acerbo Shaq, il quale avrà la meglio sul…nulla! degli anni 2000, poi adesso Lebron si sta rifacendo delle scoppole prese dai navigati Spurs & C’s.
E’ evidente che il basket sia uno sport dove l’atletismo conta, ma a farla da padrone ci sarà sempre la tecnica, la tattica e, soprattutto, l’esperienza accumulata da anni e anni di battaglie e sconfitte.
Complimenti Goat per questo e per tutti gli altri articoli. Li trovo ricchi di informazioni che non conoscevo e assolutamente esaustivi ed appassionati. Si respira basket e America ad ogni riga.
Per quanto riguarda la classifica, ritengo che siano sterili le polemiche su una posizione piuttosto che un’altra. E’ un giochino ovviamente soggettivo e quindi ognuno avrà la sua da ridire. Personalmente per esempio non credo che Magic fosse più forte di Larry, anzi il contrario (a prescindere dalla posizione di Lebron) e pur condividendo le posizioni di Kobe e Shaquille, li avrei invertiti di posto. Ma restano opinioni personali.
Per esempio nel mio cuore il più grande di tutti i tempi è stato TMac, fosse anche solo per quei 35 secondi :-)!
Oddio, tutto perfetto finchè non si arriva all’ultima riga. :-D
Articolo splendido, io sono di parte perché per me, al di là di ogni possibile classifica Kareem è è resterà sempre il numero 1.
Proprio per questo chiedo (perdonate la poca padronanza di internet)… è possibile condividere quest’articolo bellissimo sul mio profilo Facebook ? Grazie e complimenti ancora.
Si certo, si può condividere il link su Facebook! Grazie!