Colui del quale ci apprestiamo a narrare le gesta, è entrato nel mondo del basket col soprannome di Contadino di French Lick. Ne è uscito una quindicina d’anni dopo con quello di Leggenda.
Nel mezzo un’epoca fra le più straordinarie nella storia della pallacanestro americana, forse in assoluto la più bella, sicuramente la più importante.
Se oggi infatti l’NBA è quel fenomeno mediatico che tutti conosciamo, se è la lega sportiva più seguita al mondo, se il suo fatturato annuo sfiora i cinque miliardi di dollari, lo si deve a tanti fattori e ancor più persone.
Lo si deve a Oscar Robertson per le importanti battaglie che ha sostenuto. A Julius Erving che ha riacceso quel fuoco ormai sopito e per primo ha catalizzato l’interesse di pubblico e mercati dopo un periodo di profonda crisi.
A David Stern che ha traghettato la nave con maestria nei momenti di tempesta e in quelli ancora più difficili di bonaccia. Lo si deve al fenomeno mediatico che è stato il primo Dream Team, al clamore che ha suscitato, e non solo in quel di Barcellona.
Lo si deve a Jordan e ai grandi interpreti degli anni ’90 che hanno raccolto il testimone e issato il vessillo raffigurante Jerry West sul tetto del mondo, lì dove più in alto non si poteva.
Ma tutto questo non sarebbe successo o sarebbe stato vano senza due ragazzi che nel 1979 fecero il loro ingresso in una NBA in piena crisi d’identità, dilaniata dalle droghe che circolavano negli spogliatoi, dalle frequenti risse sul parquet, dalla scarsa attenzione dei media.
Uno dei due ragazzi andò a Los Angeles a vestire i colori giallo-viola, l’altro a Boston a rinverdire la gloriosa storia dei Celtics. Uno era nero, l’altro bianco. Uno giocava play, l’altro ala. Uno era chiassoso e sorridente, l’altro silenzioso e musone.
Più diversi non potevano essere, eppure la vera svolta arrivò da loro. Insieme portarono il basket a stelle e strisce verso vette di popolarità fino ad allora sconosciute. Con loro la NBA superò per la prima volta i pur vasti confini degli Stati Uniti per andare ad attingere a un mercato di livello mondiale.
I nomi di queste due meravigliose creature erano Earvin Johnson, detto Magic, e Larry Bird, detto The Legend.
Risulta difficile parlare di uno dei due senza scomodare l’altro, valutare la carriera di uno senza tenere in debita considerazione quella dell’altro.
Le loro vite sono state fittamente intrecciate sin dalla famosa finale di college basket del 1979. Tagliata la retina e deposte le armi, Bird e Magic hanno continuato a guardarsi in cagnesco per diversi anni fino al momento della loro prima cruciale sfida in una finale NBA.
Era il 1984. Dopo d’allora tutto sarebbe cambiato. Quell’incontro-scontro ha rappresentato una specie di Big Bang del cui clamore e dei cui effetti ancora oggi si stanno raccogliendo i sani frutti.
I meriti vanno equamente divisi perché Bird e Magic sono state due facce della stessa splendente medaglia. Il loro è stato un continuo e meraviglioso superarsi a vicenda. Probabilmente Magic non sarebbe stato Magic senza il 33 bianco-verde. E Bird non sarebbe stato Bird senza il 32 giallo-viola. La sconfinata grandezza di entrambi nasceva anche in virtù della presenza dell’altro.
Dan Peterson, colui che per primo ha portato e raccontato in Italia le gesta dei due acerrimi rivali, ha detto a tal proposito: “Quando pensavi di aver visto tutto, di essere in grado di tirar le somme, subito dopo succedeva qualcosa che ti faceva cambiare idea. Vedevi Bird dominare Magic, giocare splendidamente e pensavi ‘Meglio di così non si può giocare! Bird è migliore!’ Ma la gara successiva vedevi Magic giocare ancora meglio e dominare Bird; e poi ancora vedevi Bird, e poi Magic. I due si superavano a vicenda, sembrava che alla bontà del loro gioco non ci fosse mai limite. Anche quando finiva una stagione con uno dei due vittorioso, l’anno dopo vedevi l’altro arrabbiato come non mai, che faceva cose ancora migliori.”
L’eterna e atavica questione su chi sia stato migliore ha appassionato molti fra esperti, addetti ai lavori e semplici tifosi. Magic, certo, ha vinto di più e forse per questo viene solitamente premiato in quasi tutte le classifiche di genere, ma le vittorie di Magic hanno una ben precisa motivazione storica che in parte esula dalla semplice bravura.
E del resto lo stesso play di L.A. non ha mai nascosto la venerazione che ha maturato col tempo per Bird, arrivando a considerarlo – testuali parole – “naturalmente più forte”.
C’è stato infatti un momento in cui Bird ha dato la netta sensazione di viaggiare su un altro livello rispetto a quello dei comuni mortali, Magic compreso.
Correva l’anno 1986 e Boston aveva appena conquistato il terzo titolo degli anni ’80. Larry ne era stato ancora una volta il suo immenso, ineguagliabile profeta. Veniva da tre finali e tre trofei di MVP di stagione consecutivi, stava vincendo per manifesta superiorità il confronto diretto con il suo grande rivale e molti, abbagliati dal suo talento, in quel momento lo additavano come il miglior giocatore di tutti i tempi.
Non era solo una questione di numeri. Bird giocava una pallacanestro che mai si era vista prima. Lui era e sarebbe rimasto un giocatore unico nel panorama del basket americano, come lo stesso Magic non ha mai mancato di ricordarci più e più volte.
Bianco, tecnicamente perfetto, ferocemente determinato a conseguire qualsiasi risultato, una sicurezza nei propri mezzi che definire sconfinata è riduttivo, Bird sapeva fare tutto ed effettivamente faceva di tutto sul parquet. Sin dal suo esordio in NBA ha impersonato l’eccellenza del gioco in ogni suo aspetto.
È stato superbo realizzatore, feroce rimbalzista, passatore sopraffino, tiratore eccezionale e mortifero. È stato l’uomo dell’ultimo tiro, dei recuperi impossibili, degli assist telepatici.
Ha ridisegnato e stravolto il ruolo di ala piccola, trasformandolo a seconda delle esigenze in quello di Power Forward o di playmaker aggiunto grazie a un istintivo senso della posizione e del passaggio. Era elegante, sicuro di sé, migliorava i compagni, incuteva timore negli avversari. È stato idolatrato dai tifosi Celtcis ma in generale amato dai puristi del basket a ogni latitudine.
Il suo sconfinato bagaglio tecnico, costruito in ore e ore di duri allenamenti solitari, gli permetteva qualsiasi cosa potesse servire a vincere una partita, persino di umiliare gli avversari in campo, anticipando a parole i propri tiri per poi magicamente tramutarli in realtà sotto lo sguardo inebetito dei presenti, in un trash talking che cresceva di pari passo con l’importanza delle partite.
Quella stessa perfetta tecnica di base, unita a una comprensione del gioco e un’intelligenza cestistica senza pari, suppliva inoltre ampiamente ai suoi scarsi mezzi fisici, alla totale assenza di atletismo e per qualche tempo anche agli infortuni che nell’ultima parte della sua breve carriera non gli hanno più dato tregua.
A guardare bene infatti, Larry Bird – e questo è stato forse il suo più grande limite – ha disputato complessivamente appena tredici stagioni in NBA di cui però dodici effettive, ma già negli ultimi tre anni prima del ritiro era l’ombra di se stesso.
Il saluto definitivo al mondo del basket è arrivato quando già più non calcava i parquet da diversi mesi. Era il 4 febbraio del 1993, un giovedì sera. Non c’era nessuna partita in programma al Boston Garden ma, nonostante il freddo, l’area gelida, il vento tagliente che soffiava da nord, il palazzetto era egualmente gremito.
La città, i tifosi, i compagni, gli avversari e idealmente l’intera America sportiva intesero fermarsi per rendergli doveroso omaggio.
Quando il giocatore sollevò al cielo la sua maglia numero 33, tutti i presenti si alzarono in piedi per tributargli l’ultimo caloroso applauso, per scandire ancora una volta il suo nome come per tredici lunghi anni erano stati soliti fare.
All’appuntamento non volle mancare Magic Johnson, l’uomo contro cui Larry aveva combattuto decine di battaglie e che per tantissimo tempo aveva rappresentato l’ostacolo più difficile, spesso insormontabile, per arrivare all’agognato titolo.
Magic si presentò con la tuta gialla dei Lakers. In un’immagine che ha fatto epoca, Bird gli sfilò la giacca sotto cui si nascondeva la casacca numero 33 dei Celtics.
Magic prese il microfono: “Larry una volta mia hai mentito. Dicesti che un giorno, prima o poi, ci sarebbe stato un altro Larry Bird. Larry, io ti dico che non ci sarà mai e poi mai un altro Larry Bird.”
E mai parole furono più profetiche.
Quella gelida sera di febbraio la Leggenda era giunta definitivamente al suo epilogo.
Per noi invece è arrivato il momento di fare un piccolo passo indietro, tornare al tempo in cui la Leggenda non era ancora tale. Era un semplice contadino, quello che passerà alla storia come The Hick from French Lick.
Larry nacque il 7 dicembre del 1956 a West Baden Spring, uno sperduto villaggio rurale di 500 anime nell’Indiana. Crebbe nella vicina e non molto più grande French Lick.
Una famiglia povera ma orgogliosa, una vita semplice. La scuola, il lavoro, il basket, quel basket che nell’Indiana si respira nell’aria, per li campi esulta, come direbbe il poeta. Quel basket che non è più un semplice sport, ma diventa vera e propria religione, impregna le vite, spesso le salva, nei casi più fortunati le conduce alla Gloria Eterna.
Da buon Hoosier, Bird si innamorò presto della palla a spicchi. Era piuttosto bravo, forgiato dalle battaglie nel cortile di casa coi suoi numerosi fratelli. Si iscrisse alla Spring Valley High School. Al talento fornitogli da Madre Natura aggiunse l’impegno, la durezza, la costanza, la passione, la dedizione, lo spirito di sacrificio, tipici della sua terra.
Bird passava interi pomeriggi a provare il tiro da ogni angolazione, da ogni posizione. Provava e riprovava. Senza sosta. Crebbe di diversi centimetri e nel giro di un paio di stagioni divenne di gran lunga il miglior giocatore della zona. Quando era in campo, tutto il paese correva a guardare le prestazioni di quel biondino che trattava la palla come fosse la cosa più preziosa del mondo.
Nel suo anno da junior, Springs Valley vinse 19 partite in stagione perdendone solo due e Bird divenne una specie di celebrità in tutto il paese. La stagione successiva viaggiò alle medie di 31 punti, 21 rimbalzi e 4 assist a partita. Fece registrare il record di punti della scuola. Quattromila persone accorsero ad assistere alla sua ultima prestazione. Una cifra esorbitante considerando il contesto.
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Terminate le superiori, Larry scelse di andare a Bloomington, sede dell’Indiana University ad appena 50 miglia da casa, sotto la guida de grande coach Bobby Knight. Ma non ci mise molto ad accorgersi di aver sbagliato scelta.
Il campus era enorme, più grosso di tutta French Link. Non conosceva nessuno, c’era nonnismo, si sentiva completamente fuori posto.
Senza esser mai stato allenato un solo minuto da Knight, senza neanche averlo mai incontrato, Bird raccattò tutta la sua roba e dopo neanche un mese tornò a casa.
Provò alla Northwood Institute per accontentare sua mamma, ma il livello di gioco era così infimo che se ne andò pure da lì.
In quei giorni il padre, caduto nel vortice della depressione per problemi economici, si sparò un colpo di fucile sul viso. Larry ne rimase talmente sconvolto che decise di abbandonare il basket. Cominciò a lavorare per il comune di French Link. Guidava il camion della nettezza urbana, verniciava panchine, liberava le strade dalle foglie.
Ma le università della zona non avevano ancora rinunciato alla possibilità di reclutarlo. A furia di provarci alla fine il richiamo della palla a spicchi si rivelò per Larry più forte di qualsiasi altra cosa. Accettò la proposta di Indiana State, un piccolo college con sede a Terre Haute senza ambizioni e senza alcun tipo di pressione.
Bird rimase fermo il primo anno come da regole che governavano i trasferimenti da un college all’altro. Fece il suo esordio in squadra la stagione successiva. Era il novembre del 1976 quando giocò la sua prima partita con i Sycamores. Segnò 31 punti, catturò 15 rimbalzi, fornì 8 assist.
Gli spettatori triplicarono con il suo arrivo in squadra. Complice anche il livello di gioco piuttosto basso, la giovane ala chiuse la sua prima stagione con 32.8 punti e 13 rimbalzi di media. Portò Indiana State dal bilancio di 13 vittorie e 12 sconfitte dell’anno precedente a un record di 25 vittorie e appena 3 sconfitte, un risultato che dalle parti di Terre Haute non si registrava dal 1948, anno in cui a guidare Indiana State c’era un giovanotto meno che quarantenne di nome John Wooden che – si dice – qualcosa di basket ne capisse.
La seconda stagione in maglia Sycamores vide il biondo da French Link assestarsi sui 30 punti e 11 rimbalzi a partita in un contesto dal livello leggermente più elevato. Indiana State cominciò a comparire nei ranking nazionali e il nome di Larry Bird a circolare con sempre maggiore frequenza fra gli addetti ai lavori.
La sua vita si stava dimostrando la perfetta rappresentazione del grande sogno americano. Un comune mortale che con il talento, la volontà, il lavoro, il sacrificio e la passione, riesce ad imporsi all’attenzione generale. Bird da contadinotto della sperduta provincia del midwest stava diventando un eroe nazionale dello sport.
Il 28 Novembre del 1977 finì addirittura in una storica copertina di Sports Illustrated dal titolo: College Basketball’s Secret Weapon. L’arma segreta del college basket.
Qualche mese dopo, il 9 giugno del 1978, si tenne il trentaduesimo draft della storia della NBA.
I Boston Celtics erano reduci da una mediocre stagione da appena 32 vittorie, la peggiore della loro storia dal 1950. Avevano la sesta scelta al draft. Il GM Red Auerbach decise di rischiare.
Pur consapevole che Bird, divenuto quell’anno eleggibile, avrebbe con ogni probabilità passato un ulteriore anno al college, fece il suo nome. Condannò in pratica i Celtics a un ulteriore anno di mediocrità pur di assicurarsi i servigi della giovane stella di Indiana State.
Larry giocò così la sua ultima stagione al college con la consapevolezza non solo di aver già un contratto pronto fra i professionisti, ma di essere atteso dalla più gloriosa franchigia nella storia della NBA.
Fu un’annata a dir poco trionfale. Non solo per Bird, ma per l’intera pallacanestro americana. Tutta la nazione stava infatti per essere trasportata in un continuo crescendo di emozioni verso una fantastica cavalcata che si sarebbe conclusa con l’indimenticabile finale fra la Michigan State del Magico col sorriso abbagliante e la Indiana State del contadino da French Link.
Larry condusse i Sycamores a vincere 33 partite consecutive. Il piccolo college scalò rapidamente il ranking nazionale. Fra la sorpresa generale approdò alle Final Four di Salt Lake City.
In semifinale Bird mise 35 punti, catturò 9 rimbalzi, distribuì 9 assist e portò i suoi alla vittoria per 76 a 74 sulla molto più quotata De Paul, guidata dal futuro All-Star, Mark Aguirre.
Ad attendere Indiana State in finale c’erano gli Spartans di Michigan State, un college dalla tradizione cestistica superiore, con una squadra più forte e un giocatore in grado di rivaleggiare con Larry Bird.
Il 26 marzo 1979 andò in onda, in diretta nazionale, la sfida. La prima fra Bird e Magic.
Ora, inutile girarci attorno, Magic giocò meglio. O forse sarebbe il caso di dire che fu Bird a fallire quella finale. Mise a referto 19 punti, 13 rimbalzi, 2 assist, tirò con un 7 su 21 dal campo. Fece incetta di premi individuali, venne nominato Player of the Year, lasciò il college come quinto miglior realizzatore nella storia della NCAA, ma fu Michigan State a trionfare in finale per 75 a 64 e soprattutto fu Magic a tagliare la retina.
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Larry finì in lacrime con la testa nascosta da un asciugamano. Rilasciò una laconica dichiarazione al termine della partita. “Earvin è un grande giocatore, ma mi piacerebbe incontrarlo ancora.”
Inutile dire che sarà ampiamente accontentato.
Al piano di sopra frattanto i Celtics avevano concluso un’altra annata fallimentare, la peggiore di sempre. Il loro record diceva 29 vittorie e 53 sconfitte. Tutto comunque previsto da Red Auerbach che ora attendeva a braccia aperte il ventitreenne Larry.
Bird firmò un contratto di tre milioni e duecentocinquantamila dollari per quattro anni che lo resero il rookie più pagato nella storia della NBA. Mai soldi furono però spesi meglio.
Alla sua prima partita fra i professionisti, contro Huston, segnò 14 punti e prese 10 rimbalzi.
Guidati dall’abile regia della propria ala, il che non è propriamente un assurdo visto che Larry è stato il miglior interprete mai esistito nel ruolo di Point Forward, i Celtics vinsero trentadue partite in più rispetto alla stagione precedente per quello che all’epoca era a tutti gli effetti un record. Chiusero con 61 vittorie e il primo posto nell’Atlantic Division.
Bird fece registrare la media di 21.3 punti, 10.4 rimbalzi, 4.5 assist. Fu convocato all’All-Star Game. Vinse il trofeo di rookie dell’anno con 63 preferenze contro le appena 3 di Magic Johnson. Arrivò terzo nella votazione dell’MVP di stagione dietro due assoluti mostri sacri, quali Kareem Abdul-Jabbar e Julius Erving. Infine fu incluso nel primo quintetto di lega.
La corsa dei Celtics si arrestò in finale di Conference contro i più esperti Philadelphia Sixers di Erving, colui che sarà l’altro grande rivale di Bird. Ma nel giro di un anno Boston era passata dall’essere il fanalino di coda dell’Atlantic Division a seconda miglior squadra dell’intera costa orientale. Era sicuramente tanto, ma non abbastanza. Non per uno come Red Auerbach.
Quella stessa estate il GM dei Celtics mosse le proprie carte per migliorare ulteriormente il roster. Aveva già da tempo adocchiato un interessantissimo prospetto dall’università di Minnesota. Si trattava di Kevin McHale, giocatore bianco dotato di spalle enormi e braccia lunghissime, che al college aveva spesso giocato da centro.
McHale poteva portare quella presenza sotto canestro che era mancata nei playoffs appena terminati. Ma non era ancora sufficiente. Il geniale Auerbach propose uno scambio alla dirigenza di Golden State. La prima e la tredicesima scelta ai Warriors in cambio del terzo pick e del giovane Robert Parish, un centro che si apprestava a vivere la sua quinta stagione in lega, con discreti numeri, ma senza aver mai lasciato particolarmente il segno.
Golden State accettò, pensando di portare a termine un affare colossale, ma alla luce di quanto accadde dopo, per la squadra californiana quello scambio fu un vero fallimento. In un sondaggio condotto da “The Sporting News” nel 1989, quella dei Warriors fu votata da 19 Generals Managers NBA, come la peggiore trade di sempre.
Col pick numero 3 di Golden State, i Celtics chiamarono infatti McHale, costruendo le basi di quella frontline che farà la fortuna di Boston e segnerà profondamente l’immediato futuro della NBA.
Con i nuovi acquisti McHale e Parish e guidati dal genio di Larry Bird, appena alla sua seconda stagione da professionista ma già un veterano per come si muoveva in campo, i Celtics partirono all’assalto di una nuova, promettente stagione.
L’11 febbraio fecero visita ai Lakers campioni in carica. Davanti agli occhi di Jerry West, che più volte aveva espresso dubbi sulle reali possibilità del biondo di French Link, Bird sfoderò una prestazione maiuscola: 36 punti, un impressionante 15 su 17 al tiro, 21 rimbalzi, 6 assist, 5 palle recuperate, 3 stoppate.
I Celtics violarono il Forum e Jerry West fece ammenda, dichiarando che non erano stati tanto i numeri di Bird ad averlo impressionato quanto la sua intelligenza cestistica, il fatto che capisse sempre prima degli altri ciò che sarebbe accaduto in campo.
Boston vinse 62 partite, raggiunse nuovamente le finali di Conference, nuovamente contro Philadelphia. I Sixers si portarono avanti per 3 gare a 1, poi diedero vita a un autentico suicidio collettivo. In ognuna delle successive tre partite Philly prese il largo salvo poi subire puntualmente l’incredibile e insperata rimonta dei Celtics.
Negli ultimi cinque minuti della decisiva gara 7, i Sixers, in vantaggio di 7 punti, non riuscirono più a trovare un canestro dal campo. La difesa di Boston alzò un vero e proprio muro. Larry Bird condusse i suoi a ridurre lo svantaggio. A un minuto dalla fine catturò il rimbalzo difensivo dopo un errore di Darryl Dawkins, si lanciò in contropiede sul lato sinistro del campo e concluse con un morbido tiro di tabellone. Il fruscio della retina sancì il sorpasso e la definitiva vittoria dei Celtics per 91 a 90.
“In quei secondi finali non c’era nessun altro posto al mondo dove avrei voluto la palla se non fra le mie mani” le dichiarazioni di Larry Bird a fine partita.
Stava sbocciando il giocatore che si esaltava nei finali di partita, il clutch player che pretendeva palla ed elevava vertiginosamente il suo rendimento in prossimità della sirena, l’eccellente tiratore che diveniva letale e infallibile nei momenti decisivi.
Boston raggiunse così la sua prima finale NBA di quei gloriosi anni ‘80. Avversari, gli Houston Rockets, una squadra dal talento piuttosto limitato, eccezion fatta per il grande Moses Malone sotto canestro.
Teoricamente era una finale già segnata in partenza, ma i Celtics avevano speso grandi energie fisiche e psicologiche nell’epica finale di Conference contro i Sixers. Si presentarono dunque all’appuntamento decisivo con il fiato corto e le gambe molli.
È doveroso a questo punto sottolineare come la concorrenza a ovest nei primissimi anni ’80 era molto meno agguerrita rispetto a quella dell’est e questo facilitava non poco il compito della contendente occidentale per il titolo.
L’anno dopo, quando ad esempio i Lakers piegheranno in finale i Sixers, è doveroso ammettere che Philly aveva dovuto sputare sangue per eliminare i Celtics in sette tiratissime partite, mentre Los Angeles si era presentata decisamente più fresca all’appuntamento.
I Rockets sembrarono approfittare sin dalla prima partita dell’appannamento fisico dei Celtics, prendendo subito il largo. Ma Larry Bird respinse semplicemente l’idea della sconfitta.
Al primo possesso dell’ultimo quarto realizzò quello che per molti rimane uno dei canestri più belli e difficili nella storia della NBA. Prese palla sul lato destro del campo a circa diciotto piedi di distanza dal canestro. Nonostante la pressione dell’arcigna ala dei Rockets, Robert Reid, fece partire il tiro. Nel momento stesso in cui la palla lasciò le sue dita, Larry si accorse istintivamente che il tiro era corto. Si catapultò in avanti per catturare il rimbalzo. La sfera toccò il ferro e schizzò sulla destra, proprio dove magicamente stava planando Bird.
The Legend la catturò al volo, ma la spinta del salto con cui era andato a rimbalzo, lo stava portando fuori dal campo. Ci fu un veloce cambio di mano. Con la stessa velocità con cui una persona normale sbatterebbe le ciglia, Bird portò la sfera dalla destra alla sinistra e, sempre in volo, fece partire un morbido tiro.
Mentre Reid, che lo aveva seguito a rimbalzo, volava fuori dal rettangolo di gioco, il tiro del biondo da French Link baciava la retina.
Il tutto era avvenuto in una manciata di secondi. Bill Russell, non proprio uno qualunque, che stava commentando la partita per la CBS, rimase senza parole: “He not only knew where the ball was going to land, he knew… that he knew!”
Red Auerbach ribattezzò la giocata come “The greatest play i’ve ever seen”.
Giocata a parte, Bird non disputò le migliori finali che si potessero aspettare. Soffrì a tratti l’asfissiante marcatura di Robert Reid, ma soprattutto in profondo affanno fisico chiuse la serie con 15 punti, 15 rimbalzi e 7 assist di media. Non vinse l’MVP delle finali che andò a Cedric Maxwell, tuttavia dopo solo due stagioni da professionista, aveva portato i suoi al titolo e si era già consacrato fra i migliori giocatori dell’epoca.
L’anno successivo arrivò il terzo primo quintetto di lega consecutivo e per la prima volta anche un quintetto difensivo. Bird non era certo un fulmine sul parquet e uno contro uno aveva grandi difficoltà a contenere gli avversari atletici e veloci alla Erving, eppure era dotato di un senso della posizione e dell’anticipo che gli garantivano una presenza difensiva di tutto rispetto. Una caratteristica che sarà il suo marchio di fabbrica per tutta la carriera: riuscire a vedere e comprendere le giocate prima che le stesse avvenissero.
In febbraio Bird vinse l’MVP all’All-Star Game. Arrivò inoltre secondo nella corsa al premio di MVP di stagione alle spalle di Moses Malone. I Celtics vinsero 63 partite, persero però la solita cruenta battaglia in finale di Conference alla settima partita contro Philadelphia.
Dopo un ulteriore anno di pausa in cui a trionfare furono proprio i Sixers di Erving e del neo-acquisto Moses Malone, arrivò infine la stagione 1983-84. Quella della grande rivincita per Bird.
I Celtics del 1984 erano una squadra profondamente diversa rispetto a quella che aveva vinto il titolo tre anni prima.
L’ossatura, la gloriosa front line Bird-Mchale-Parish, era rimasta immutata, ma erano arrivati nuovi giocatori a rinforzare la compagine bianco-verde. Danny Ainge era stato scelto al draft del 1981, mentre il play e difensore Dennis Johnson era stato preso dai Phoenix Suns.
Era cambiato anche l’allenatore. Bill Fich, il sergente di ferro, era stato sostituito dal suo vice, K.C. Jones, l’ex play di Boston degli anni sessanta, colui che aveva avuto l’onore e l’onere di sostituire Bob Cousy al momento del ritiro.
La stagione di Boston iniziò con una colossale rissa in pre-season durante una partita con gli eterni rivali dei Sixers. Una rissa che coinvolse i giocatori in campo, le panchine, gli allenatori e persino Red Auerbach che scese dal suo posto riservato fin sul terreno di gioco per sfidare il temibile Moses Malone: “Coraggio, colpiscimi! Colpiscimi, grosso figlio di p…!”
Nonostante l’inizio burrascoso, la Regular Season fu contrassegnata dal dominio di Boston e di Bird che elevò ulteriormente il suo livello di gioco.
Il 33 chiuse la stagione con 24.2 punti, 10.1 rimbalzi e 6.6 assist. Conquistò il suo primo titolo di MVP stagionale, oscurando ogni sorta di concorrenza.
I Celtics vinsero 62 partite, dieci in più dei Sixers campioni in carica. Eliminarono nei playoffs in rapida successione Washingotn, New York e Milwaukee. Approdarono alla finale NBA e stavolta si ritrovarono di fronte i Lakers.
Era una sfida dal sapore epocale. Era Los Angeles contro Boston. Due città diverse come il giorno e la notte, due mondi lontani migliaia di miglia e non solo in senso geografico. La più americana contro la più europea fra tutte le città americane. Uno scontro che si portava dietro tutti i retaggi di un passato glorioso e mai dimenticato, dai molteplici ed affascinanti significati. Era Russell contro Chamberlain. Era l’est contro l’ovest. Era la tradizione contro la nuova filosofia del gioco. Hollywood contro Beantown. Lo showtime contro il Celtic Pride.
Ma non solo. Era soprattutto Magic contro Bird. Il ricco signore di città, amante della bella vita e delle belle donne, estroverso, gaudente, elegante e dal sorriso solare, contro il contadino del midwest, musone e di poche parole, con la sua camicia a scacchi e le scarpe di tela ai piedi.
Sembrava davvero tutto troppo perfetto per essere vero. A un certo punto della serie parve quasi che quei due fossero stati mandati sulla terra apposta per risollevare le sorti della pallacanestro mondiale.
La serie iniziò con la sensazione che Los Angeles, nonostante il fattore campo avverso, fosse la favorita. Lo stesso coach Jones in conferenza stampa si ritrovò ad ammettere: “The Lakers are more talented than we are.”
Eppure la sfida si mantenne equilibrata. I Lakers vinsero gara uno, rischiarono seriamente di andare sul 2 a 0, ma un clamoroso recupero di Henderson sul filo della sirena salvò i Celtics dalla disfatta. Dopo quattro gare il risultato era fermo sul 2 a 2 con una vittoria per parte in trasferta.
Durante gara 5, nel vetusto Garden, impianto ancora senza aria condizionata, si raggiunse la temperatura di 36°. Kareem Abdul-Jabbar fece ricorso più volte alla mascherina dell’ossigeno durante la partita. I ventilatori ronzavano furiosi ma rigettavano solo aria bollente. In quel clima rovente in tutti i sensi, i Celtics giocarono la miglior partita della serie.
Bird segnò 34 punti, frutto di un 15 su 20 al tiro, prese 17 rimbalzi e i Celtics vinsero per 121 a 103.
Il grande Jabbar si rifece in gara 6 quando condusse i suoi alla vittoria con 30 punti e 10 rimbalzi, nonostante un ottimo Bird da 28 punti, 17 rimbalzi, 8 assist e 3 stoppate.
Tutto era rimandato alla decisiva gara 7. Nel Massachusetts.
Una finale NBA. Boston da un lato, Los Angeles dall’altro. Una gara 7. Il disegno divino continuava.
I Celtics partirono alla grande. A metà tempo, Maxwell aveva messo 11 canestri su 13 tentativi. Terminò la partita con 24 punti, 8 rimbalzi e 8 assist. Bird realizzò 20 punti e catturò 12 rimbalzi. Parish, 14 punti e 16 rimbalzi. Dennis Johnson 22 punti.
I Lakers si ritrovarono ad inseguire per tutta la gara. Rimontarono dal meno 14 fino a portarsi sul meno 3 quando mancava poco più di un minuto da giocare. Ma Magic perse due sanguinosi palloni e la partita dei Lakers finì in quel momento. Boston si impose per 111 a 102. Come da copione, arrivò il titolo.
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Larry Bird aveva ottenuto la sua rivincita cinque anni dopo la finale NCAA. Aveva sconfitto l’acerrimo rivale. L’aveva battuto come meglio non poteva. Terminò con una media di 27.4 punti, 14 rimbalzi, 3.2 assist e 2 recuperi.
Fu eletto MVP delle finali e divenne così il primo giocatore della storia a vincere il Wooden Award, il trofeo di rookie dell’anno, il trofeo di MVP di stagione, quello di MVP dell’All-Star Game e MVP delle finali. Dopo di lui riusciranno a eguagliare questa impresa soltanto Michael Jordan e Tim Ducan.
Poco prima dell’inizio stagione successiva, Larry affermò: “Mi piacerebbe dare ai Lakers l’opportunità di una rivincita. Sono sicuro che ci sono loro giocatori che in questa finale hanno giocato molto al di sotto delle loro capacità.”
Nessun nome, ma il riferimento a Magic era evidente a tutti. E non era casuale. La possibilità della rivincita sarebbe arrivata molto presto. Lo sapeva Bird, lo sapeva Magic. Lo sapeva tutta l’America sportiva. Mai, né prima, né dopo, una stagione NBA aveva preso il via con la consapevolezza che la finale potesse essere una ed una sola. E l’esito quanto mai incerto.
In Regular Season, Bird salì a quota 28.7 punti a partita, cui aggiunse 10.5 rimbalzi e 6.6 assist. Il 18 febbraio, a Salt Lake City contro i Jazz, i Celtics si portarono avanti per 90 a 66 dopo tre quarti di gioco. Bird, che fino a quel momento aveva messo a segno 30 punti, 12 rimbalzi, 10 assist e 9 rubate in 33 minuti di gioco, decise di non scendere in campo nel quarto periodo per dar spazio alle seconde linee. Si rifiutò in pratica di mettere a segno una storica quadrupla doppia.
Meno di un mese dopo, il 12 marzo, contro gli Atlanta Hawks di Dominique Wilkins, mise 60 punti, compresi tutti gli ultimi 16 dei suoi Celtics, tirando con un fantastico 22 su 36 dal campo.
Al povero Wilkins, cui toccò l’arduo compito di marcarlo, non restò che affermare a fine gara: “Gli stavo sempre sopra, gli davo spintoni, lo infastidivo in ogni modo. Ma lui infilava dei palloni che non avrebbero mai lasciato le mani di altri.”
Arrivò il secondo titolo di MVP di stagione consecutivo. Poi la seconda finale consecutiva, ancora contro i Lakers.
Gara 1 si giocò il 27 maggio, il Memorial Day. Fu un massacro. Scott Wedman, trentatreenne ala di riserva dei Celtics, mise tutti i suoi primi 11 tiri, incluso 4 canestri dalla distanza. Danny Ainge chiuse il primo periodo con 15 punti. I Celtics giocarono una delle migliori gare della loro storia.
“È uno di quei giorni in cui se ti bendi, fai due giri su te stesso e poi lanci la palla, va dentro!” dichiarò K. C. Jones a fine gara.
Jabbar fu annullato da Parish e finì con 12 punti e 3 rimbalzi. Magic mise un solo canestro dal campo. La partita si chiuse sul 148 a 114 per Boston e tuttora è ricordata in America come “The Memorial Day Massacre”.
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Il giorno dopo in una conferenza stampa che i Lakers tennero nel loro albergo, le uniche parole di Jabbar di fronte ai giornalisti furono: “I was embarassed”.
Secondo molti esperti, senza quel massacro, i Lakers, Riley e soprattutto Jabbar non avrebbero trovato la forza, le motivazioni, l’orgoglio per reagire e probabilmente i giallo-viola sarebbero andati incontro a una nuova sconfitta di misura contro i rivali. L’ennesima della loro storia.
Invece, pungolati nell’orgoglio e trascinati da un immortale Jabbar, i Lakers riuscirono a ribaltare tradizione, risultato e fattore campo. Vinsero in sei partite. Gli ultimi secondi di gara 6 al Boston Garden furono giocati in un silenzio quasi irreale.
Nonostante la delusione, Bird e i Celtics si rifecero ben presto. L’anno successivo fu infatti il migliore della decade per la squadra in maglia bianco-verde.
I Celtics giocarono meravigliosamente, con ogni probabilità il loro miglior basket. Difesa aggressiva, passaggi veloci, contropiedi fulminanti. Larry mise insieme ancora una volta numeri da capogiro: 25.8 punti, 9.8 rimbalzi, 6.8 assist in stagione. Chiuse fra ai primi dieci in ben cinque categorie statistiche, unico giocatore nella storia a riuscirci.
Fu eletto Atleta Maschile dell’Anno dall’Associated Press e vinse il suo terzo titolo di MVP di Regular Season consecutivo, risultando ancora oggi uno dei tre giocatori nella storia a centrare l’impresa della clamorosa tripletta, l’unico non centro, considerando che gli altri due rispondono agli altisonanti nomi di Bill Russell e Wilt Chamberlain.
Vinse infine la prima edizione della gara del tiro da tre durante l’All-Star Weekend di Dallas. Una gara che lui stesso consegnò direttamente ai libri di storia presentandosi negli spogliatoi prima dell’esibizione, guardando uno a uno negli occhi gli avversari e domandando ad alta voce: “Allora, chi di voi arriverà secondo oggi?”
All-Star Game a parte, Boston vinse ben 67 partite, cinque in più dei Lakers, tredici in più dei Sixers. Quaranta furono le vittorie casalinghe a fronte di una sola sconfitta. La cavalcata dei Celtics non ebbe intoppi neanche in post-season. Tre a zero ai Bulls di uno stratosferico Jordan (quello dei 63 punti al Boston Garden). Quattro a uno agli Hawks, quattro a zero ai Bucks nella finale di conference.
Ma sorpresa, all’appuntamento decisivo della stagione, dall’altra parte del Grande Fiume, non si presentarono i Lakers, bensì gli Houston Rockets delle Twin Towers, Hakeem Olajuwon e Ralph Samspon.
Prima dell’inizio della serie Olajuwon confessò candidamente di non sapere nulla del passato dei Celtics. Bird gli rispose a stretto giro di interviste che il nigeriano avrebbe subito un corso accelerato di storia del basket durante quelle finali. E così fu.
Boston si impose in scioltezza in sei gare. Bird chiuse la serie con 24.0 punti, 9.7 rimbalzi, 9.5 assist. Medie irreali, degne del miglior Oscar Robertson.
Nella decisiva gara 6, una partita mai in bilico di una serie mai in bilico, Bird giocò come se dalla sua prestazione dipendesse la salvezza del mondo, lottando su singolo ogni pallone, su ogni singolo possesso. Dopo due quarti aveva messo a referto già 16 punti, 8 rimbalzi, 8 assist.
A pochi secondi dalla fine del match, in pieno garbage time, K.C. Jones gli riservò la passerella d’onore richiamandolo per ultimo in panchina fra gli applausi scroscianti del pubblico che, già da un po’, stava scandendo incessantemente il suo nome.
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Bird terminò quella gara con 29 punti, 11 rimbalzi, 12 assist, 3 recuperi. Era l’apoteosi di una carriera fino a quel momento durata sette anni. Sette anni giocati a livelli celestiali in cui aveva raggiunto quattro finali, vinto tre titoli, tre MVP di stagione, due MVP delle finali e soprattutto annientato ogni forma di concorrenza.
Come dicevamo a inizio pezzo, in quel momento erano in molti a ritenerlo il miglior giocatore nella storia della pallacanestro. Qualche anno dopo, lo stesso Bird confiderà candidamente a Billy Simmons: “Avrei dovuto smettere in quel momento.”
Non lo fece. E il resto della sua carriera non fu così esaltante. Non per colpa sua, beninteso.
Il problema è che Bird aveva già speso le migliori cartucce della sua meravigliosa carriera, aveva preteso troppo dal suo fisico che ben presto avrebbe cominciato a dare i primi pericolosi segnali di resa. Così, da lì in avanti la stella più splendente sarebbe stata quella di Magic, una stella i cui raggi più luminosi dovevano ancora essere emanati.
L’anno successivo Bird perse infatti il titolo di MVP di stagione proprio a vantaggio del suo eterno rivale che divenne così la prima guardia dai tempi di Robertson ad aggiudicarsi il trofeo. Larry dal canto suo divenne il primo giocatore della storia a tirare contemporaneamente con almeno il 50% dal campo e il 90% dalla lunetta.
Il 30 dicembre del 1986 si rese protagonista di uno dei momenti di trash talk più celebri e chiacchierati nella storia della pallacanestro americana.
Era risaputo che Bird avesse l’abitudine di provocare gli avversari anticipando loro a parole ciò che poi avrebbe messo in pratica sul campo. Ma quella sera l’evento andò in diretta televisiva. Boston era di scena a Seattle per l’ultima partita dell’anno solare. L’avversario di Bird era il giovane e palestratissimo Xavier McDaniel, all’epoca prospetto molto quotato, lo stesso che anni dopo diverrà il terrore di Scottie Pippen durante la celebre serie fra Bull e Knicks nei playoffs del 1992.
Col punteggio fermo sul 102 pari a pochi secondi dalla sirena, in attesa della rimessa, Larry si avvicinò a Xavier, indicò un punto del parquet e gli disse: “Tieniti pronto. Da questo preciso punto ti segnerò in faccia il canestro della vittoria.”
La risposta del duro McDaniel fu lapidaria: “Lo so, e ti aspetterò.”
Inutile dire che Bird ricevette palla, si posizionò nel punto indicato e lasciò partire il tiro della vittoria, nonostante il tentativo disperato di difesa di Xavier.
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I Celtics conclusero la stagione vincendo 59 partite e issandosi come loro solito sul tetto della Eastern Conference. In finale ad est incontrarono gli agguerriti Detroit Pistons, quelli che presto sarebbero divenuti famosi in tutto il mondo come i Bad Boys. A dispetto delle previsioni la serie fu combattuta e molto equilibrata.
A una sparuta manciata di secondi dalla fine di gara 5, sul risultato di 2 a 2, Bird si rese protagonista della celebre palla rubata dalle mani di Isiah Thomas. Quello steal salvò i Celtics da un’inaspettata sconfitta casalinga e da una probabile eliminazione. I Celtics alla fine riuscirono a imporsi in una storica gara 7 in cui The Legend fece registrare 37 punti, 9 rimbalzi, 9 assist e 2 stoppate.
Mentre le polemiche infuriavano per le dichiarazioni di Dennis Rodman e dello stesso Thomas sul colore della pelle di Bird e sulla sua reale bravura, un incurante Larry volava a Los Angeles per giocare per la quarta volta consecutiva le finali NBA.
Fino a quel momento c’erano stati tre titoli per i Lakers, tre titoli per i Celtics. Il diritto a proclamarsi squadra regina della decade passava dunque inevitabilmente per le forche caudine di quel nuovo, meraviglioso duello all’ultimo canestro.
Quella serie fu però il capolavoro di Magic che portò i suoi Lakers a imporsi in sei gare. Nessuno poteva ancora saperlo ma quella sarebbe stata l’ultima sfida in finale fra le due squadre e i due giocatori simbolo degli anni ’80. Si stava infatti scavando fra i due team un solco che aveva radici lontane.
La superiorità della Eastern Conference e le durissime battaglie che i Celtics avevano dovuto affrontare ogni singolo anno ad est, avevano logorato la squadra bianco-verde molto più di quanto fosse successo ai giallo-viola.
Inoltre gli infortuni, alcune scelte discutibili ed una buona dose di sfortuna per i Celtics avevano iniziato già da quell’anno a creare una forbice fra le due contendenti. Una forbice che si sarebbe ulteriormente allargata nella stagione successiva e in quelle rimanenti dell’epoca Magic-Bird. I Celtics non avrebbero più rivinto il titolo, non sarebbero più arrivati in finale. I Lakers erano invece prossimi a realizzare una storica doppietta per conto di Pat Riley.
Eppure l’anno successivo il trentunenne Bird fece registrare il suo career high con 29.9 punti a partita cui aggiunse 9.3 rimbalzi e 6.1 assist. Vinse per la terza volta consecutiva la gara del tiro da tre all’All-Star Game.
L’11 novembre, contro i Pacers, risultò il primo Celtics di sempre a chiudere una partita con oltre 40 punti e 20 rimbalzi. Fu l’ultima stagione ad alti livelli per lui, prima del prematuro declino.
Nei playoffs fece comunque in tempo a mettere a segno una delle sue migliori prestazioni personali. Ancora contro Atlanta e contro Dominique Wilkins. Era il 22 maggio del 1988, gara 7 delle semifinali di Conference.
All’inizio dell’ultimo quarto di gioco Bird aveva soli 14 punti, limitato ottimamente da Wilkins. Fu a quel punto che un incauto Nique sussurrò qualche parola di troppo alle orecchie dell’avversario. Il risultato era fermo sull’86 pari. Il cronometro indicava 10 primi e 26 secondi alla fine del match. Bird guardò Wilkins. Wilkins guardò Bird. E partì la silenziosa sfida.
Larry mise il primo tiro quando mancavano 10 minuti e 3 secondi dalla fine. Ne infilò altri 8 in rapida successione. Ad ogni canestro di Larry, rispondeva però un Wilkins, in completa trans agonistica, che un disorientato McHale non riusciva minimamente a limitare. A un minuto e quarantatré secondi dalla fine, con le mani di Wilkins a ostruirgli l’intera visuale, Bird fece però partire la tripla che sancì la resa definitiva per Atlanta. Aveva realizzato 20 punti, con 9 su 10 dal campo solo nell’ultimo quarto, per un totale di 34 punti, con 15 su 24 al tiro.
Purtroppo per i Celtics al turno successivo arrivò la resa ad opera dei Pistons, ormai cresciuti e pronti a giocare per il titolo. Dopo quattro anni, Boston mancò per la prima volta l’appuntamento con la finale.
L’anno successivo Larry si sottopose a un delicato intervento chirurgico per rimuovere gli speroni ossei da entrambi i talloni. Giocò appena 6 partite su 82. Perse ovviamente per la prima volta l’appuntamento con il primo quintetto NBA dopo 9 comparse nelle prime 9 stagioni, record NBA condiviso con Oscar Robertson.
Priva del proprio faro, Boston subì 40 sconfitte in stagione. Riuscì a centrare l’ottavo piazzamento per i playoffs, ma fu inevitabile la sconfitta al primo turno ancora contro i Pistons.
Bird tornò a calcare i campi da gioco nella stagione 1989-90. Mise a segno la terza striscia più lunga nella storia della NBA dalla lunetta, con 71 tiri liberi realizzati consecutivamente. Ma ormai la sua carriera era giunta al capolinea. La vera Leggenda non si vide praticamente più se non a sprazzi.
Nel 1990-91 saltò 22 partite a causa di una compressione alla radice del nervo sciatico che gli procurava fortissimi dolori alla schiena. Sarà proprio questo problema a obbligarlo al ritiro nel giro di poco tempo. A fine stagione fu operato per un’ernia al disco ma l’intervento non migliorò di molto la situazione.
L’anno successivo giocò appena 45 partite a regime ridotto. Ad ogni pausa era costretto a sdraiarsi sul pavimento nei pressi della propria panchina per mettere un freno al dolore. Ma la classe, quella era rimasta intatta. Il 15 marzo del 1992, in diretta televisiva, contro la quotata e futura finalista Portland di Clyde Drexler, segnò 16 punti nel terzo quarto, poi gli ultimi 9 totali di Celtics e la tripla della vittoria a due secondi dalla fine. Chiuse fra lo stupore generale con 49 punti, 14 rimbalzi, 12 assist e 4 palle rubate in 54 minuti di gioco.
“Ogni volta che c’è Bird sul parquet, tutto può succedere” fu il commento a fine partita dello stesso Drexler.
Poco più di un mese dopo, all’età di 35 anni, Larry giocò la sua ultima partita in carriera con la maglia dei Celtics. Era gara 5 del primo turno di playoffs contro i Cleveland Cavaliers.
Il 18 Agosto 1992 annunciò il suo ritiro dall’attività agonistica, esattamente dieci giorni dopo aver fatto vinto la medaglia d’oro con la spedizione statunitense alle Olimpiadi di Barcellona. Una competizione in cui il suo apporto fu ovviamente limitato da uno stato di salute molto precario.
La sua ultima partita in assoluto fu dunque la finale contro la Croazia in cui giocò appena 12 minuti, non segnò neanche un punto, prese due rimbalzi, recuperò un pallone e commise un fallo.
L’oro olimpico fu la perfetta consacrazione per la carriera di una delle più grandi leggende nella storia della pallacanestro americana.
Anzi, ci perdoneranno tutti gli altri, l’unica vera grande Leggenda del basket a stelle e strisce.
https://www.youtube.com/watch?v=pI470DZhojA&t=200s
Ha esordito su Play.it nel 2004 con la rubrica “NBA Legendary Games”. Dopo una trentina di pezzi ha lasciato perdere le partite per dedicarsi alla nuova rubrica “25 Legendary Players”. Ha mollato anche questa sul più bello per mettersi a scrivere romanzi noir. Il successo, probabilmente vittima di paresi, gli ha arriso e sorriso.
Goat, lasciami dire, hai scritto tanti bei pezzi, ma questo è davvero fantastico. Un inno a Bird, un inno al basket.
E’ strano pensare come Bird (e Magic, che immagino verrà immediatamente dopo) avessero almeno un difetto nel loro gioco. Cosa che non si può dire ad esempio di un Duncan o di un Robertson. E, allo stesso modo, come non si possa mettere in dubbio in nessuna maniera che Larry debba stare qui, o più in alto. Un idea di dominio totale del gioco che si è vista solo con Jordan, o Lebron. Ma farlo con il fisico di Bird… ecco perché ci sono stati e ci saranno giocatori più forti ma non ci sarà mai più nessun Larry Bird.
Ero curioso di vedere se larry sarebbe stato sopra lebron in questa splendida top 25…
Peccato, sono un romantico e mi sarebbe piaciuto che la grandezza di Larry Legend rimanesse superiore a quella di James, ma forse a pensarci bene, classifica Goat o meno, è giusto così….
Sarebbe piaciuto anche a me, ma ho cercato di essere più obiettivo possibile e mettere da parte qualsiasi forma di simpatia e/o antipatia. :-)
goat ci sono rimasto molto male nel vedere bird scavalcato da james mi sembra una cosa fuori dal mondo…
E’ un compito difficile, ma Bird alla 7 NOOOOO!!!Bird dietro solo MJ e pari con Magic, fra qualche anno ne riparleremo con LBJ… Certo davanti ci sono mostri sacri, ma se Magic come mi aspetto non andrà oltre la 3-4.. Bird in cosa è inferiore? Come passatore? Pur giocando in un altro ruolo di poco.. Come rimbalzista? No! Come realizzatore? Neppure! Come uomo squadra? Non credo… Difesa? Molto buoni entrambi.
Fondamentali? Dico Bird che duellava alla pari con Magic Doctor e Wilkins sui due lati andando pesantemente sotto come atletismo!
Già che ci sono dico la mia top 15:
Jordan
Bird
Magic
LBJ
Kareem
Shaq
Chamberlain e Russell
Duncan
Doctor
Kobe
K. Malone
Stockton
Iverson
D. Wilkins
(gli ultimi due più come provocazione considerando altri lunghi meritevoli, ma secondo me da top 30 ever)
Di pancia anche a me sembra fuori dal mondo vedere Larry Bird cosí in basso. Ma, avendo capito come ragiona Sorrenti (e non gli si può dar torto), non mi sorprendo. In fin dei conti la parabola e la carriera di Bird è stata relativamente breve. Il picco, anzi, I picchi, sono stati di livello altissimo, forse da primo posto (similmente – ancora di piú – a quando scritto su Barry, Walton, o anche O’Neal). Ma il fisico ha chiesto il suo credito.
Rimane un giocatore di un’intelligenza e di una tecnica sovrumana, con un’altissima capacità di elevare il gioco dei compagni (provoco: l’anno citato senza Bird i Celtics sono crollati di 15 vittorie, all’ultimo posto disponibile per il playoffs, l’anno dopo il primo ritiro di Jordan i Bulls vinsero appena 2 partite in meno), caratteristiche riscontrabili anche negli ultimi difficili anni di carriera.
Tutto ciò con un fisico davvero (per quei livelli) mediocre.
Quali sono le “scelte discutibili” che citi dopo la finale dei 1987?
Basta dirlo: in classifica si sta a seconda dei titoli vinti. Neppure Magic ha avuto una carriera lunga, causa HIV (per la scelta discutibile di infilarsi dappertutto), però…
A parte Chamberlain a questo punto…
Io penso che molti di voi parlano – e non mi riferisco certamente all’autore di questi articoli – senza avere molta cognizione di causa, un po’ per sentito dire, un po’ per convinzioni personali maturate chissà come e chissà dove. Si vede da ciò che scrivete, dai vostri paragoni, dagli errori che fate.
Intervengo solo per difendere l’autore dell’articolo anche se credo non abbia bisogno di essere difeso… :-)…Già di per se non esistono classifiche in grado di accontentare quantomeno il 60-70% dei lettori, siano queste classifiche su giocatori di basket….piloti di f1 o calciatori. Ci si può andare vicini nel farlo e credo tuttavia che in questo caso chi legge deve avere quella sensibilità necessaria per capire che lo scarto di una o due posiziobi in un rank può anche starci specie se parliamo di mostri sacri della disciplina di cui si parla. Ora io reputo la carriera di Bird da leggenda, una carriera migliore (nonostante abbia smesso presto) rispetto a quella di Lebron e di molti altri che gli stanno dietro e davanti. Reputo Bird l’ eccellenza del basket. Non gli mancava nulla. I pochi difetti che aveva venivano mascherati da un intelligenza e una tecnica fuori dal comune che unite ad una cazzima con pochi eguali nella storia del basker facevano di lui un giocatore speciale e non replicabile. Io ancora oggi se dovessi affidare a qualcuno il tiro della vittoria andrei da lui. Allora perche Lebron in questo caso gli sta davanti? A mio parere per il semplice fatto che sono la bellezza di 6 anni di fila che arriva in finale, perche ha portato il titolo a cleveland, perche ha ritoccato parecchi record, perche ha vinto 4 mvp, perche atleticamente mostruoso essendo un Malone nelle gambe di iverson , l’ elevazione di dominique wilkins….e la visione di gioco di un play….paragoni forse esagerati ma e per fare capire la situazione. Per di piu e il secondo per player efficienty dietro solo a Jordan. In conclusione, Bird potrebbe stare davanti a Lebron? Certo, come e certo anche il contrario, stiamo parlando di scarti millesimali . Peraltro in certi raking Lebron viene addirittura messo sul podio e in questo non sono d’ accordo, direi che un sesto posto, come credo fara l’ autore, sia la posizione piu consona. Quei 5 sono intoccabili….sono in grado di ricoprire la prima posizione senza gridare allo scandalo perche tutti e 5 hanno un qualcosa in piu, una stelletta in piu sul petto…Magic ha ridisegnato il ruolo di play…Russell ha vinto 11 titoli….Chamberlain e l’ omone dai numeri da capogiro….Jabbar e stato Wilt e Russell in un unica persona…un monumento del basket che potrebbe stare tranquillamente davanti a tutti o appena dietro Jordan .
Ecco, questo già mi sembra un commento sensato che mi sento di condividere abbastanza.
Per il resto… mah! Chi scrive che Magic vale la stessa posizione di Bird e viceversa s’è perso qualche pezzo di storia per strada. Chi reputa addirittura fuori dal mondo che LeBron stia davanti a Bird, ha bisogno di qualche lezione di ripasso se vuole evitare di essere rimandato a settembre. Per non parlare di chi fa classifiche e dimentica Robertson o non conosce Russell, chi pensa che Jabbar possa uscire da una top 4/5. Auff… sentite a me, limitatevi a leggere e non vi impelagate in certi discorsi.
A parte questo, ho una domanda da porre all’autore. Nell’articolo ribadisci più volte della differenza fra est e ovest e di come i Celtics avessero il compito più difficile. Questo però può essere vero solo nella prima parte degli anni ’80, quando comunque Lakers e Celtics ancora non avevano incrociato le armi, poi c’è stato un rimescolamento, sono arrivati i Mavs, i Jazz, gli stessi Rockets e l’ovest è salito molto proprio quando sono iniziate le grandi sfide fra le due squadre. Pensi davvero che questo abbia influito nel computo delle vittorie finali?.
No, non lo penso e in ogni caso non c’è controprova. Penso però che le contendenti ad est abbiano avuto comunque vita più difficile. E non solo all’inizio della decade, anche dopo. Perché a est i Sixers valevano quasi quanto Lakers e Cletics, mentre a ovest non esisteva una squadra all’altezza. E poi spariti i Sixers per ragioni anagrafiche, sono arrivati i Pistons che, Laks a parte, erano più forti di qualsiasi altra squadra ad ovest. Del resto basta guardare la spartizione dei titoli nelal decade.
@ Rodman se per questo comunque neanche l’ autore ha mai conosciuto ne visto Russell ne tantomeno Robertson in quanto credo sia pure piu piccolo di me ;-)….(io del 78)… Quindi dipendessfe da questo fattore sarebbero in pochi a poterle fare le classifiche. Io di testi biografici ne ho a iosa sui gicatori per cui mi ritrovo qui non tanto per leggere ma per dialogare…se qualcuno ne abbia voglia ;-)… Ritornando ai vari Robertson….Russell…ma anche Wilt…non vi e dubbio che siano coperti, come gli altri della top ten, di un aureola di santità destinata a durare nei secoli, giustamente direi , anche se bisogna puntualizzare un paio di cose e fare un distinguo quando poi ci si va ad impelagare in classifiche o simila. Per esempio i numeri dei vari Robertson…Wilt…e Russell ….come quelli di parecchi contemporanei…sono gonfiati e questo penso lo sappiate..;-) …Per dire, i 100 punti di Wilt parametrati al basket odierno sarebbero all’ incirca 74. Le sue stats parametrate ad oggi sarebbero di 37 punti e 19 rimbalzi. Numeri pazzeschi ma ridimensionati rispetto a quell epoca. Le stats di Robertson comparate a quelle del basket di oggi direbbero 23 punti a partita 9 rimbalzi e 8.5 assist….una roba pazzesca ma ridimensionate rispetto al passato. Confronto questo che.non vuole sminuire nessuno perche questi personaggi furono l’eccellenza nella loro epoca e ognuno di questi e stato ed alcuni lo sono tutt’ora l’ emblema del ruolo in cui hanno giocato….
Naturalmente intendevo stats del picco piu alto non complessive. Anche per questo motivo unito al fatto che la player efficenty rating di Robertson non figuri tra i primi posti e l’aver conquistato un solo anello mi aveva portato ad escluderlo dalla top ten ,ma non per questo personaggio ridimensionato ai miei occhi, stiamo parlando pur sempre di uno dei migliori di sempre.
Nemmeno io penso che la differenza tra est ed ovest abbia influito marcatamente sugli esiti finali. Tuttavia le battaglie tra Sixers e Celtics tolsero a quest’ultimi 20 anni di vita :-). Nella stagione 86/87 i Celtics usciro a pezzi da un doppio 4-3 inflitto ai bucks e pistons arrivando in finale con le speranze ancora piu ridotte. Ma faceva parte del dna delle due squadre…a los angeles giocavano con i mocassini ai piedi mentre a boston a piedi nudi e col coltello tra i denti. Ed avrebbero giocato cosi pure una mano di briscola. Il celtics pride, l’orgoglio Celtico, aveva trovato in Bird il protagonista ideale e in magic l’antagonista perfetto. Magic scendeva ridendo in campo e giocava quasi danzando…come se volesse piu divertire e divertirsi piuttosto che vincere ad ogni costo facendo leva del suo immenso talento….Bird al contrario scendeva sul parquet sfidando tutti compreso se stesso…facendo keva sul talento e sulla testa…ma contemplando il fatto che a partita finita sarebbe uscito con i gomiti sbertucciati….Tant’e che qualcuno gli suggeri di preservare il fisico perche a lungo andare gli acciacchi avrebbero presentato il conto. Ma Bird era fatto cosi ed e per questo che si chiama the legend. Daltronde uno che ad un certo punto di una gara tirata dice ai propri compagni datemi la palla e levatevi di mezzo che ci penso io puo essere solo.e soltanto una leggenda a cui faccio tanti auguri..!!