Un canestro appeso al muro di un capannone in uno squallido cortile in cemento.
Un ragazzino pallido, emaciato, quasi scheletrico, vi si staglia di fronte con la palla in mano. Solo, come tutti i grandi uomini nel momento in cui si trovano ad affrontare il loro destino.
Lo sguardo su quel ferro arrugginito, la mente che viaggia libera. Immagina il silenzio di un palazzetto strapieno, tutti gli occhi puntati su di lui.
Ha la palla in mano, quella dell’ultimo possesso. Un palleggio, una finta per spiazzare il diretto avversario, quel mezzo passo di vantaggio, non tantissimo ma quanto basta per caricare il tiro. Dolcemente la sfera abbandona le sue sapienti mani e va ad accarezzare la retina. Il profumo del cotone.
E il silenzio che si trasforma in boato, il boato di un pubblico immaginario, in visibilio per l’ennesimo canestro decisivo di Jerome Alan West. Il canestro che porta la squadra, la sua squadra, alla vittoria.
Il piccolo Jerry, nato a Ceylon nel West Virginia il 28 maggio del 1938, era un bambino strano. Aveva un solo grande amico, suo fratello David, di 12 anni più grande. Poi David partì per la Corea, in guerra. Non tornò più a casa. In quel lontano paese dell’est aveva trovato la morte.
Jerry rimase ancora più solo, si chiuse ancor più in se stesso. Lui, il suo canestro ed i suoi sogni di gloria. Era piccolo di statura, magro, timido. Passava tutto il giorno a tirare in quel cesto. Continuamente, da ogni angolazione. Sotto il sole cocente o sferzato dal vento gelido, al freddo invernale o sotto la pioggia scrosciante, persino sotto la neve che per terra diventava fango ghiacciato.
La sua vita era tutta in quei pochi metri quadrati, su quel campo improvvisato, dove annegava la sua disperazione, la rabbia per la solitudine e per un’esistenza che non prometteva nulla di buono, il dolore per la morte del fratello.
Spesso non rientrava in casa neanche per la cena e crebbe così malnutrito che i suoi genitori dovettero sottoporlo a cure vitaminiche. Ma a Jerry non importava. Lui tirava e sognava.
Sognava una vita diversa, lontana dalla solitudine di Ceylon, dalla povertà di un paesino della Virginia. Una vita magari fatta di partite infuocate, di sfide reali contro avversari in carne e ossa, di canestri impossibili che lui inevitabilmente realizzava. All’ultimo secondo.
“Quante volte durante quelle interminabili partite immaginarie, la mia squadra era sotto di uno, la sirena stava per suonare ed io avevo fra le mani la palla, quella che avrebbe sancito la vittoria o la sconfitta” racconterà nel 1990 un ricco e distinto signore, General Manager di successo, a Sport Illustrated.
Quel ricco e distinto signore era il Jerry West di quarant’anni dopo. Una medaglia d’oro olimpica, nove finali NBA, un titolo, dieci primi quintetti di lega, quattordici All Star Game, quattro primi quintetti difensivi, svariati record stabiliti su e giù per i parquet di mezza America, dopo.
Per Jerry West i sogni da bambino sarebbero divenuti realtà. Come per magia, un giorno quel ragazzino smunto sarebbe diventato un giocatore sublime, una guardia tecnicamente perfetta, la cui grazia, il cui stile, l’inconfondibile palleggio e la cui sagoma sarebbero addirittura finiti per essere immortalati nel logo sportivo più famoso al mondo, quello della National Basketball Association.
La svolta era arrivata fra i tredici e i quattordici anni, quando Jerry era cresciuto in altezza e, per quanto magro, non era più il ragazzino pelle ed ossa di pochissimo tempo prima.
Provò ad entrare nella squadra di basket della sua piccola scuola, la East Bank High School. Passò larga parte del suo primo anno in panca ad apprendere i fondamentali del gioco di squadra. Ma era un tipo sveglio e l’anno seguente era già pronto per esordire fra i titolari. All’inizio circondato dallo scetticismo generale, poi pian piano le sue prestazioni e la sua pallacanestro assolutamente perfetta seppero conquistare e coinvolgere tutti.
Nel 1956 divenne il primo giocatore dello stato a mettere a segno almeno 900 punti in stagione con una media di 32.2 a partita. Condusse la sua scuola ad una splendida corsa verso il titolo dello Stato.
Jerry giocò così bene e risultò così determinante per la vittoria finale che per un’intera settimana la scuola cambiò il proprio nome da East Bank High School a West Bank High School. Ancora oggi, ogni anno, il 24 marzo, giorno in cui ricorre l’anniversario della conquista del titolo, la scuola cambia nome in onore del suo più grande player.
La scelta del college non presentava dubbi. Nonostante oltre 60 università si dichiararono interessate al giocatore, la vicina West Virginia era lì ad attendere quella che ormai era considerata la nuova promessa del basket americano.
Jerry arrivò al college quando Rodney Clark Hundley, al secolo Hot Rod, stava per terminare la sua avventura in maglia Mountaineers. Hot Rod era uno showman, un giocatore di talento che faceva impazzire il pubblico. La sua pallacanestro era innovativa per l’epoca, fatta di passaggi dietro la schiena e fra le gambe, di bombe tirate da sette metri in ginocchio, di sceneggiate col pubblico, avversari e arbitri, ma nel contempo di notevoli exploit realizzativi.
Nella NBA, in maglia Lakers, continuò su quella strada, attaccante nato e difensore ai limiti della querela. Si narra che un giorno il suo coach piuttosto arrabbiato per la sua difesa gli urlò:
“Non ti avevo detto di marcare Cousy?”
“Cousy? Forte, vero?” fu l’allucinante risposta.
West era l’esatto opposto. Lui era un tipo concreto e di spettacolare non faceva nulla. Non se intendiamo schiacciate, passaggi dietro la schiena o sopra la testa. Il suo gioco era essenziale. Segnava, difendeva, passava. Le sue braccia molto lunghe lo aiutavano ad avere uno stile di tiro impeccabile ma anche a difendere bene anticipando e deviando molti passaggi.
La sua pallacanestro era semplice, anche se in continua evoluzione. Alla costante e ossessiva ricerca della perfezione. Raramente Jerry West era soddisfatto delle sue prestazioni.
Si narra che al termine di una partita in maglia Lakers in cui aveva tirato con 16 su 17 dal campo, messo 12 liberi su 12, catturato 12 rimbalzi e distribuito 12 assist, dichiarò ai microfoni nel post partita: “Non posso dire di essere soddisfatto, difensivamente non ho giocato come avrei voluto.”
La ricerca della perfezione è stato il motivo conduttore della vita di West e lo ha contraddistinto non solo da giocatore, ma anche come allenatore e soprattutto come General Manager, consacrandolo anche in questo ruolo fra i migliori al mondo se non il migliore di sempre.
Durante i suoi anni a West Virginia, Jerry realizzò 24.8 punti di media, fu due volte All American, fece incetta di premi individuali e nel 1959 trascinò il suo college alla finale NCAA contro i California Golden Bears che in semifinale avevano sconfitto la Cincinnati del grande Oscar Robertson.
In finale Jerry segnò 28 punti e catturò 11 rimbalzi ma i Mountaineers persero partita e titolo per 71 a 70. West venne comunque nominato Most Outstanding Player delle Final Four.
L’anno successivo, l’ultimo al college, mise a referto 29.3 punti per gara, smazzò un totale di 134 assist in stagione e tirò dal campo col 50,4%. Nella sentitissima partita contro Virginia mise 40 punti e catturò 16 rimbalzi. In 15 occasioni segnò più di 30 punti, trenta volte fece registrare una doppia doppia. Tuttora Jerry detiene 28 record del suo college.
Al termine della sua brillante carriera universitaria, nell’estate del 1960, venne scelto dai Minneapolis Lakers con la seconda chiamata assoluta, alle spalle del suo rivale di sempre, Robertson.
Con lo stesso Oscar fu co-capitano della selezione statunitense alle Olimpiadi di Roma. La squadra, una sorta di Dream Team degli anni ‘60, stravinse il torneo illuminando la scena e incantando il mondo.
Proprio a Roma, leggendo un numero della rivista Stars & Stripes, West apprese che il proprietario dei Lakers aveva spostato la franchigia da Minneapolis a Los Angeles e che il nuovo coach sarebbe stato Fred Shaus, lo stesso che lo aveva allenato al college.
I Lakers ruotavano attorno al terzo anno Elgin Baylor, la meravigliosa guardia-ala che sarebbe presto diventato amico e maestro di Jerry. Baylor a parte, i giallo-viola erano una discreta squadra con Rudy LaRusso e Tom Hawkins in ala, Rod Hundley, Frank Selvy e Bob Leonard in guardia, ma un grosso buco sotto canestro. Una lacuna, in un’epoca in cui nella NBA imperversavano due signori di nome Bill Russell e Wilt Chamberlain, che non era da poco.
In attacco West divenne subito il secondo terminale offensivo dopo Baylor, ma in difesa si laureò ben presto leader della squadra, prendendo regolarmente in consegna l’avversario più pericoloso.
Fin dalle prime partite fu evidente che Baylor (soprannominato dai giornali californiani Mr. Inside) e West (Mr. Outside) stavano andando a creare una delle coppie più forti nella storia del gioco. Il Dynamic Duo, come in seguito venne ribattezzato.
Un duo però che non ha avuto i riconoscimenti e raggiunto le vittorie che avrebbe meritato, finendo spesso per essere purtroppo oscurato da giocatori come Russell, Chamberlain e Robertson che in quegli anni stavano monopolizzando l’attenzione e facendo incetta di trofei individuali e di squadra.
Fra il 1962 e il 1970, infatti, i Lakers avrebbero raggiunto la finale 7 volte. Sei volte sarebbero stati battuti dai Celtics, una volta dai Knicks. Quattro di queste finali sarebbero andate a gara 7, tre sarebbero state perse per un singolo canestro. Una si sarebbe decisa al supplementare. In due occasioni, nel 1962 e nel 1969, i giallo-viola si sarebbero ritrovati a condurre per 3 a 2 nella serie e poi avrebbero finito col perdere il titolo.
Una maledizione. Di più. Un vero e proprio incubo.
Nella prima stagione dei Lakers nella città degli Angeli, Baylor viaggiò a quasi 35 punti di media, mentre il rookie West si assestò sui 17.6 punti a partita. Jerry fece la sua comparsa al primo di quattordici All Star Game consecutivi, uno per ogni stagione da professionista.
I Lakers terminarono al secondo posto nella Western Divsion. Superarono i Detroit Pistons al primo turno di playoffs, ma si arresero di fronte ai St. Louis Hawks di Bob Pettit in una drammatica gara 7 della finale di Division, persa per 105 a 103.
L’anno successivo West viaggiò a 30.8 punti di media. Era la prima di quattro stagioni in cui avrebbe superato la soglia dei 30 punti di media. I Lakers vinsero 54 partite e si imposero come squadra da battere a ovest.
Nei playoffs Jerry portò la sua media punti a 31.5 per gara. Arrivò la prima finale della sua carriera, la prima in assoluto fra Los Angeles e Boston.
Fu la serie della monumentale prestazione di West in gara 3 quando, a pochissimi secondi dalla fine, con un jump impattò il risultato sul 115 pari, poi volò a intercettare la rimessa celtica e in contropiede andò a depositare il canestro della vittoria.
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Ma fu anche la serie degli indimenticabili 61 punti di Baylor in gara 5 con cui i Lakers violarono il Garden. La serie dell’incredibile match-ball casalingo sprecato da Los Angeles in gara 6, infine fu la serie dei 30 punti e dei 40 rimbalzi di Russell in un’epica gara 7, decisa solo al supplementare.
Una partita in cui Los Angeles ebbe il tiro della vittoria nelle mani di Selvy. La palla ballò sul ferro, Baylor volò a rimbalzo per il tap-in decisivo, ma la sfera gli venne strappata dalle mani con forza da Russell e la partita andò all’overtime. Al supplementare poi si imposero i Celtics per 110 a 107.
Nonostante la sconfitta, Jerry aveva iniziato a farsi notare per le sue ineguagliate doti negli incandescenti finali di partita. Fu proprio in quel periodo che il commentatore dei Lakers, Chick Hearn, cominciò a chiamarlo Mr. Clutch, soprannome con cui ben presto sarebbe divenuto famoso e che identificava colui che negli ultimi secondi di partita trovava la sua massima esaltazione.
In quei topici frangenti in cui i polsi tremano e la lucidità abbandona la maggior parte dei giocatori, Jerry si sentiva a proprio agio, nel suo ambiente naturale, prendeva il controllo delle operazioni, pretendeva la sfera fra le mani, non esitava mai e sapeva sempre cosa fare.
A questo proposito, qualche tempo fa Sport Illustrated scrisse: “If you remember West at the end of the game, you remember a man who demanded the ball.”
Non è un caso infatti che le migliori prestazione della sua carriera, West le abbia sempre sfornate in post-season, nelle partite più calde, nei momenti più difficili, quelli in cui ogni singola palla pesa come un macigno. A suprema dimostrazione di un’innata capacità di saper elevare il proprio gioco proporzionalmente all’importanza della posta in palio.
Nella stagione 1962-63 il terzo anno West giocò solo 55 partite, saltando gli ultimi due mesi di Regular Season per un infortunio ad una gamba. Tornò in tempo per i playoffs, stringendo i denti, ma non poté giocare al meglio delle sue possibilità e arrivò la seconda inevitabile sconfitta ad opera di Boston in finale.
Iniziava ad imporsi all’attenzione generale un’altra delle più ammirate caratteristiche di West: la sua sopportazione al dolore.
Jerry non era stato dotato da Madre Natura di un fisico eccezionale. Pagava in termini di atleticità nei confronti di molti dei suoi avversari cui rendeva chili e centimetri. Era distante anni luce dall’esplosività e dall’atletismo di un Baylor o di un Robertson, ma suppliva a queste carenze con una forza mentale fuori dal comune, valicando quelli che erano i suoi limiti fisici, con una resistenza al dolore e alle sofferenze che andavano ben oltre l’umana comprensione.
Durante la sua carriera Jerry si è rotto il naso almeno nove volte, in più di un’occasione ha dovuto essere aiutato dai medici anche solo per entrare in campo e questo subito prima di fornire prestazioni da antologia del basket. Come nella storica gara 7 di finale del 1969, consegnata direttamente ai libri di storia dalle sue giocate, dalle sue lacrime, dalle parole di Havlicek e dal silenzio rispettoso di Bill Russell.
Dalla stagione 1963-’64, complici i primi infortuni di Baylor, West prese completamente in mano le redini dei Lakers, divenendo il primo terminale offensivo della squadra. E coloro che pensavano che con Elgin Baylor al top, i tifosi di Los Angeles avessero visto il massimo, si sarebbero presto dovuti ricredere. Gli show personali cui Jerry West diede vita, avrebbero toccato vette difficilmente eguagliabili.
Nei playoffs del 1965 durante gara 1 di finale di Conference contro i Baltimore Bullets, Baylor si frantumò un ginocchio e i suoi playoffs finirono quel giorno. Sarebbero finiti anche quelli dei Lakers se Jerry non avesse preso per la mano la squadra e non si fosse semplicemente rifiutato di perdere.
Siglò 49 punti in gara 1, trascinando i suoi alla vittoria. In gara 2 ne mise 52. In gara 3 e 4 scrisse rispettivamente 44 e 48 punti. In gara 5 ne piazzò altri 43. Nella decisiva gara 6 il suo boxscore riportò 42 punti e i Lakers volarono nuovamente alla finale NBA.
Jerry chiuse quelle finali di Conference alla media di 46.3 punti a partita. Ancora oggi record NBA di tutti i tempi per una serie playoffs.
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Senza Baylor, i Celtics ebbero vita facile in finale. Pur non riuscendo a limitare West (45 punti in gara 2 e 43 in gara 3) annullarono gli altri Lakers imponendosi facilmente per 4 partite a 1. West aveva chiuso le 14 gare di playoffs alla media di 40.6 punti ad allacciata di scarpe.
La stagione successiva, Baylor, cui i medici avevano pronosticato la fine della carriera dopo l’infortunio contro Baltimore, provò a tornare in campo, ma il suo apporto alla causa fu inizialmente molto limitato. Jerry segnò 31.3 punti in stagione, finendo secondo nella classifica dei realizzatori dietro il solo Chamberlain. Terminò quarto nel ranking degli assist e nella percentuale ai tiri liberi.
In post-season siglò 34.2 punti in 14 gare. Arrivò un’altra finale, ancora contro i Celtics.
In gara 1, i ragazzi in maglia giallo-viola riuscirono a violare il Boston Garden dopo un’autentica, appassionante battaglia e un tempo supplementare, imponendosi per 133 a 129. Un redivivo Baylor aveva messo a referto 36 punti, West aveva invece scritto sul proprio boxscore 41. Insieme i due avevano siglato più della metà dei punti dei Lakers.
Al termine della gara, Auerbach per distogliere l’attenzione dalla sconfitta casalinga dei suoi ragazzi, comunicò la decisione di ritirarsi dal ruolo di coach dei Celtics al termine della stagione e di voler passare a vestire i panni di GM. Il suo posto sarebbe stato preso da Bill Russell nelle vesti di allenatore-giocatore. Russell sarebbe così divenuto il primo coach di colore nella storia della lega. La storica notizia fece il giro degli Stati Uniti e della superba vittoria dei Lakers e della sconfitta dei Celtics, nessuno parlò più.
Boston vinse le successive tre partite, portando la serie sul 3 a 1, ma in gara 5 Baylor realizzò 41 punti ed in gara 6 fu West a condurre i suoi alla vittoria. La finale sarebbe stata decisa ancora una volta in gara 7. Al Boston Garden.
I Celtics, dopo una partita tiratissima, condita da molti errori e da una buona dose di nervosismo, in cui le difese avevano prevalso sugli attacchi, vinsero ancora una volta il titolo. Per un solo canestro di differenza: 95-93. Era la quarta finale che West aveva raggiunto in 6 anni di NBA. La quarta sconfitta.
Per un giocatore con il suo carattere era una situazione letteralmente insopportabile. Jerry viveva quelle brucianti sconfitte di squadra come vere e proprie débâcles personali. Durante un’intervista confidò al Los Angeles Times Magazine di provare “unbelievable frustration” per la mancanza di un titolo.
Lo stesso Chick Hearn ricorderà al National Sports Daily come West prendesse le sconfitte – testuali parole – “peggio di qualsiasi altro giocatore abbia mai conosciuto.”
Eppure la sconfitta peggiore, quella che più di tutte avrebbe bruciato nel suo animo e avrebbe turbato le sue notti per parecchi degli anni a venire, doveva ancora arrivare. E arrivò quando nessuno se l’aspettava. Quando tutti pensavano che la dinastia celtica era giunta al capolinea e che finalmente il titolo sarebbe approdato nella città degli Angeli.
Arrivò nell’epica finale del 1969. La più bella, la più grande, quella dei palloncini al Forum, quella dello strano infortunio di Chamberlain, della grande rimonta mancata, delle lacrime di Jerry West, del primo trofeo di MVP assegnato e della grande disfatta giallo-viola proprio nel momento in cui tutto il mondo credeva che finalmente avrebbero distrutto l’eterna rivale, conquistato il tanto agognato anello.
Dirà in seguito lo stesso West: “La maggior parte degli anni precedenti loro erano più forti di noi, ma nel ‘69 non erano assolutamente migliori. Period. Noi eravamo migliori. Period. E Non abbiamo vinto. E quella fu la sconfitta più frustrante”.
Quell’anno, Los Angeles del neo-acquisto Chamberlain, chiuse la stagione con 55 vittorie, sette in più degli anziani Celtics, appagati da 10 titoli in 12 anni.
I Lakers avevano il fattore campo dalla propria, erano più motivati, decisamente più forti. Per la prima volta nella storia avevano un centro sotto canestro da opporre allo strapotere di Russell, un Russell ormai trentacinquenne, in parabola discendente, ma dal cuore e dal carisma inalterati.
Nella serie finale Jerry West salì subito in cattedra e portò i Lakers sul 2-0, segnando 53 punti in gara 1 e 41 in gara 2. Boston riuscì ad impattare nelle due successive partite casalinghe, ma per gara 5 si tornava al Forum. I Lakers comandarono fin dalla palla a due, Jerry siglò 39 punti e Los Angeles si impose per 117 a 104.
Sarebbe stata la vittoria perfetta, quella che forse avrebbe definitivamente stroncato la resistenza dei verdi di Boston, se lo stesso West, a pochi minuti dalla fine, non avesse rimediato uno strappo alla coscia.
Contro il parere dei medici il giocatore volle comunque scendere in campo per gara 6. Si presentò imbottito di novocaina. Aveva bisogno dell’aiuto dei suoi compagni per violare lo storico Boston Garden, ma quell’aiuto non arrivò.
Zoppicando, lui mise comunque a referto 27 punti, ma i Celtics si imposero per 99 a 90.
Tutto era ancora una volta rimandato alla decisiva gara 7, al Forum di L.A., nella storica partita dei palloncini colorati appesi al soffitto per festeggiare la probabile vittoria dei Lakers.
Prima della palla a due, Jerry faceva persino fatica a camminare. Eppure non voleva mancare all’appuntamento decisivo.
Al Forum i Lakers si erano dimostrati pressoché imbattibili e i Celtics nella serie vi avevano perso 3 volte su 3. Boston era apparsa più volte stanca, a corto di fiato. Per Jerry si presentava la tanto sospirata possibilità di vincere un anello. Il dolore era insopportabile ma scese comunque in campo.
Indicati da tutti come vittima predestinata e punti nel loro smisurato orgoglio, i Celtics però partirono fortissimo. Misero i primi 8 tiri su 10 per un parziale iniziale di 24 a 12.
Jerry fu il protagonista della rimonta giallo-viola. Alla fine del secondo quarto il risultato diceva 59 per Boston e 56 per Los Angeles.
Nel terzo quarto i Celtics sembrarono allungare. Nel quarto periodo, complice l’uscita per uno strano infortunio di Chamberlain, Boston riuscì a portarsi avanti persino di 17 punti.
Sembrava finita per Los Angeles, ma a quel punto salì in cattedra Jerry West. Trascinandosi praticamente una gamba su e giù per il parquet, ridusse da solo lo svantaggio a 12 punti.
In rapida successione Havlicek commise il quinto fallo, Jones il sesto. Ancora West ridusse lo scarto per i giallo-viola e con sei minuti da giocare il risultato era di 103-94 per Boston.
Jerry, in completa trance agonistica, sembrava non essere letteralmente in grado di sbagliare. Continuò la sua personale battaglia contro tutto e tutti. Con due tiri liberi portò lo svantaggio a meno sette. Successivamente con due jump dalla media, portò il risultato sul 103-100. La rimonta sembrava completata. Sembrava.
I Lakers ebbero più volte nell’ultimo minuto la possibilità di sorpassare i Celtics ma sbagliarono diverse conclusioni e diversi liberi e alla fine furono puniti. Russell a pochi secondi dalla fine stoppò Mel Counts che volava a canestro per il pareggio. Don Nelson mise a segno il jump che sanciva la vittoria dei Celtics. Un tiro che ebbe una parabola stranissima dopo esser rimbalzato sul ferro.
West chiuse la gara con 42 punti, 13 rimbalzi e 12 assist, ma fu Boston a vincere sorprendentemente partita e titolo.
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Jerry uscì dal campo zoppicando, sostenuto dai propri compagni che lo portarono in spogliatoio. Lì cominciò a piangere a dirotto. E non solo per il dolore.
Havlicek abbandonò i festeggiamenti per entrare nello spogliatoio dei Lakers e andare da West. Lo abbraccio e gli disse: “Jerry, ti voglio bene!”
Anche Russell entrò nello spogliatoio dei Lakers. Salutò Chamberlain, poi si mise di fronte a Jerry, gli strinse forte la mano, lo fissò intensamente per qualche secondo e se ne andò senza proferire parola, ma negli occhi un’intensa ammirazione per il rivale sconfitto.
Quell’anno venne istituito il premio per il miglior giocatore della finale. Lo vinse proprio West e tuttora rimane l’unico player nella storia ad esserselo aggiudicato pur avendo perso il titolo.
La frustrazione del giocatore per quell’ennesima sconfitta trovò parziale consolazione nella consapevolezza che con il ritiro di Bill Russell e la fine della dinastia celtica, i Lakers erano la maggiore candidata al titolo per la stagione successiva.
Ma anche l’anno successivo non andò meglio. L’infortunio che tenne fuori Chamberlain per tutta la Regular Season, i problemi fisici di Baylor, la necessità di inseguire costantemente i Knicks durante la stagione, la finale contro New York con il fattore campo avverso, la consapevolezza di dover violare il Madison Square Garden in gara 7, l’eroica impresa di Willis Reed, la superba prestazione di Walt Frazier, furono tutti fattori che ancora una volta privarono West e i Lakers dell’anello.
Arrivò una nuova sconfitta, ancora una volta alla settima partita.
E se da un lato la grandezza di Jerry West emerse ancora una volta lampante e la sua leggenda si nutrì di nuovi epici episodi, dall’altro la sua frustrazione crebbe a dismisura. E a nulla valse la consapevolezza di aver scritto nuove leggendarie pagine nel grande libro della National Basketball Association.
Come quando in gara 3 di finale realizzò il più famoso buzzer-beater nella storia della lega. E Walt Frazier esclamò: “The man’s crazy. He looks determined. He thinks it’s really going in!”
I Knicks avevano vinto gara 1 per 124 a 122, nonostante i 33 punti di Jerry. Los Angeles aveva impattato la serie in gara 2 per 105 a 103, trascinata dai 34 punti della sua inarrestabile guardia bianca che stava mandando in piena crisi persino un grandissimo difensore come Walt Frazier.
Il 29 Aprile al Forum di Los Angeles era in programma gara 3. Il primo tempo si era chiuso con 14 punti di vantaggio per i giallo-viola (56-42). Ma i ragazzi di New York avevano dato il via ad una furiosa rimonta. A tredici secondi dalla fine, il risultato era fermo sul 100 pari e New York aveva l’ultimo possesso.
Dave DeBusschere ricevette palle: finta, tiro, canestro. Mancavano 3 secondi e i Knicks erano avanti di 2. I Lakers avevano esaurito i time out a loro disposizione. Il Forum era ammutolito.
A quel punto, convinto che la partita fosse finita, Chamberlain passò la palla a West senza curarsi di quello che sarebbe avvenuto dopo. Voltò le spalle all’azione ed iniziò ad incamminarsi verso gli spogliatoi. Il boato del pubblico lo bloccò.
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Si voltò e vide Jerry West esultare con le braccia alzate. Quasi non credeva ai propri occhi.
Dalla propria metà campo West aveva dribblato Reed e aveva fatto partire il classico tiro della disperazione. Circa sessanta piedi di distanza. Solo rete. Jerry West aveva compiuto il miracolo, ciò che aveva sempre sognato da bambino.
Ci fosse stato il tiro da tre punti come nell’ABA, i Lakers avrebbero portato a casa partita e forse serie. Quel canestro invece rappresentaò solo il pareggio e i Knicks si imposero comunque al supplementare. Ma quel leggendario tiro ha fatto epoca e per molti anni la posizione da cui era stato scagliato è rimasto segnato con una croce.
La successiva sconfitta in gara 7 al Madison Square Garden fece precipitare West in una sorta di disperazione.
Jerry era affranto. Arrivò a dichiarare alla stampa: “Forse sarebbe stato meglio non raggiungere sempre i playoffs, piuttosto che farli ogni anno ma non vincere mai.”
Aveva persino preso in considerazione il ritiro, nonostante trentadue anni portati splendidamente, un fisico ancora integro e l’ammirazione e il rispetto che l’intero mondo sportivo americano provava nei suoi confronti.
Ammirazione che aveva portato la NBA nel 1971, in occasione del venticinquesimo anno di vita, a dedicargli il nuovo logo della National Basketball Association. Quello stesso logo che ancora oggi rappresenta la lega sportiva più famosa e popolare al mondo.
Un riconoscimento di eccezionale importanza per un giocatore ancora in attività e che fino a quel momento non aveva ancora vinto nulla. Forse fu proprio questo a spingere Jerry a continuare la sua rincorsa all’anello. La voglia di provarci ancora una volta, la consapevolezza di essere sempre e nonostante tutto il Mr. Clutch per antonomasia, lo convinsero ad andare avanti. E mai scelta fu più azzeccata.
Dopo un anno in cui ad aggiudicarsi l’anello furono i Bucks dell’ormai veterano Robertson e del giovane Alcindor, la stagione 1971-72 fu trionfale per i colori giallo-viola.
Dopo un inizio stentato (6 vittorie e 3 sconfitte) e dopo il triste addio di Elgin Baylor, i Lakers vinsero 33 partite consecutive, tuttora record NBA. A metà stagione avevano 39 vittorie e 3 sconfitte.
A fine anno il bilancio di squadra parlava di 69 vinte e 13 perse. Nuovo record della lega, record che ha resistito agli assalti delle varie squadre per 24 anni, fino al 1996, anno in cui i Bulls di Michael Jordan, Scottie Pippen e Dennis Rodman terminarono la Season con 72 vittorie e 10 sconfitte.
Il trentaquattrenne West chiuse la stagione regolare con 25.8 punti a partita e per la prima volta in carriera guidò la NBA in assist con 9.7 per partita.
I Lakers si presentarono ai Playoffs come la squadra da battere. Al primo turno spazzarono via Chicago con un sonante 4-0. In finale di Conference si trovarono di fronte i Milwaukee Bucks, campioni in carica. Jerry ingaggiò un bellissimo duello con il suo rivale di sempre, Robertson. Chamberlain fu determinante nel superare il giovane e straripante Jabbar e condurre i Lakers a imporsi in 6 gare.
Una nuova finale attendeva Los Angeles e Jerry West. L’ottava. La più dolce.
Gli avversari erano nuovamente i Knicks per la rivincita di due anni prima.
L.A. perse gara 1 e antichi spettri tornarono a tormentare i sogni di West. Vecchie cicatrici, tristi ricordi. Ricordi di finali già vinte in partenza, ma perse agli ultimi secondi di gara sette. Antichi fantasmi che sembravano essere allontanati, almeno per una stagione, tornarono a galla.
Ma stavolta la storia della serie era già scritta. Con inchiostro giallo-viola.
Jerry West non brillò, non scrisse nessuna pagina memorabile, ma i Lakers vinsero le successive 4 partite della serie. Compresi i playoffs, chiusero l’intera stagione con 81 vittorie e 16 sconfitte. E il tanto agognato anello andò finalmente ad ornare l’anulare del ragazzo bianco da Ceylon.
Al termine di gara 5, Jerry corse ad abbracciare Wilt Chamberlain, nominato MVP della finale, quindi si rifugiò in spogliatoio. E pianse. Stavolta solo di gioia.
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Fu uno strano scherzo del destino per West, quella finale.
Aveva portato i Lakers a sette finali, giocando un basket fantastico per dodici anni nella lega. Aveva lottato quasi da solo nelle finali del 1965 e del 1969 contro i Celtics. Aveva tenuto in piedi i suoi Lakers nella finale del 1970 contro i Knicks, aveva strabiliato il mondo, aveva conquistato la stima di compagni, avversari e tifosi e aveva sempre perso. Aveva sofferto e pianto per questo come mai nessun’altro.
Ora che aveva appena giocato in quella serie finale il peggior basket della sua carriera, aveva vinto un titolo. Il primo e unico titolo.
“Ho giocato un basket terribile in queste finali e abbiamo vinto. In tutto questo sembra non esserci giustizia per me. Io ho contribuito così tanto negli anni scorsi per far vincere questa squadra, ma perdevamo sempre. Ora abbiamo vinto. Proprio quando ero solo una pezzo del macchinario. E’ particolarmente frustrante per me. Ho giocato in maniera così misera che la squadra avrebbe potuto benissimo far a meno di me e vincere comunque” le parole, sicuramente fin troppo dure, con cui il perfezionista West commenterà a caldo la sua vittoria.
Rivitalizzato comunque dal successo, Jerry decise di continuare la sua avventura nel mondo del basket giocato. Nel 1972-73 i Lakers arrivarono nuovamente in finale ancora contro i Knicks. Ma stavolta furono i ragazzi della Grande Mela a prevalere. Quella serie finale rappresentò l’ultimo atto della straordinaria carriera di Wilt Chamberlain.
West invece continuò ancora per un altro anno. Un anno però sfortunato. Giocò solo 31 partite a causa di un infortunio e al termine della stagione 1973-’74, all’età di quasi 36 anni, disse definitivamente basta.
“I’m not willing to sacrifice my standards” le poche e semplici parole con cui comunicò il suo addio.
Jerry lasciò il basket giocato come terzo realizzatore di sempre dopo Chamberlain e Robertson nella storia della lega, con 25.192 punti in 932 gare. Una media di 27.03 punti a partita. Tuttora la quarta di ogni tempo fra i giocatori non più in attività alle spalle di Jordan, dello stesso Chamberlain e del suo compagno di squadra Baylor.
I suoi 31.2 punti della stagione 1969-70 rimangono ancora oggi la media più alta per un giocatore over 30. Nei playoffs, solo Jordan e Iverson hanno una media punti più alta.
Con il ritiro di Jerry West e quello contemporaneo di Oscar Robertson si chiuse definitivamente una delle più belle epoche che la NBA ricordi. Quei favolosi anni ‘60 in cui alcuni fra i più grandi giocatori di tutti i tempi, concentrati in pochissime squadre, fecero sognare tutta l’America sportiva in sfide dal sapore irripetibile.
Dopo due anni fuori dal mondo del basket, Jerry divenne head coach dei Lakers nella stagione 1976-77. Allenò la squadra per tre stagioni, chiudendo sempre con un record positivo e portandola costantemente ai PO.
Quindi divenne scout per i giallo-viola e nel 1982 General Manager della squadra.
Il suo apporto risultò fondamentale per la creazione della dinastia dei Lakers degli anni ‘80. Come GM condusse in maniera altrettanto impeccabile a metà anni ‘90 le operazioni che portarono Shaq e Kobe nella città californiana, risultando quindi l’artefice della conquista dei 3 titoli di inizio nuovo millennio.
Mr. Clutch, dunque, sempre e comunque protagonista, più di ogni altro essere umano, dei primi settant’anni di vita della NBA.
E forse è anche per questo che, nonostante Jordan, il logo della NBA continua e probabilmente continuerà ancora a lungo a raffigurare l’inconfondibile sagoma di quel giocatore meraviglioso, perfetto e stilisticamente impeccabile che è stato Jerry Alan West.
Ha esordito su Play.it nel 2004 con la rubrica “NBA Legendary Games”. Dopo una trentina di pezzi ha lasciato perdere le partite per dedicarsi alla nuova rubrica “25 Legendary Players”. Ha mollato anche questa sul più bello per mettersi a scrivere romanzi noir. Il successo, probabilmente vittima di paresi, gli ha arriso e sorriso.
E pensare che se avesse giocato nella epoca attuale l avrebbero etichettato come perdente…