Si può dire tutto ed il contrario di tutto su Elgin Baylor ed esser sicuri di non sbagliare. Si può definirlo il miglior giocatore di sempre a non aver mai vinto un titolo, ma allo stesso modo il più grande fra i ”perdenti” nella storia della NBA.
Possiamo affermare che è stato una delle più devastanti macchine da canestro a calcare un parquet, ma nel contempo che non ha mai un vinto un titolo di miglior realizzatore della lega.
Ha risollevato i Lakers dal baratro del fallimento, ma non è mai stato capace di portarli sul tetto del mondo.
È stato il primo giocatore ad elevare il livello del gioco al di sopra del ferro, ma quando si parla di questa rivoluzione i nomi ricorrenti cui si fa riferimento sono sempre quelli di Connie Hawkins, Julius Erving e ovviamente Michael Jordan.
Il tutto e il nulla per colui il cui gioco, durante i suoi migliori anni nella lega, veniva spesso associato ad un unico aggettivo: unstoppable, inarrestabile. E mai termine è stato più appropriato.
Il tutto e il nulla. Ma del resto, un giocatore che deve il suo nome di battesimo alla marca dell’orologio da taschino del padre, non poteva che rimanerne segnato a vita.
Sembrerà una battuta appena passabile, ma in realtà lo è fino ad un certo punto. È finanche banale infatti riassumere la mirabolante carriera del numero 22 in maglia Lakers con una semplice e inequivocabile constatazione: nel firmamento della National Basketball Association, Elgin Baylor rappresenta una delle stelle più luminose, ma nel contempo quella con il debito più grande nei confronti della sorte.
Un debito che i numerosi e continui riconoscimenti che il giocatore ha ricevuto nel corso dei settant’anni di vita della lega, solo in minima parte hanno potuto colmare.
Nel 1992, Jerry West, uno che la maggior parte di questi settant’anni li ha vissuti interamente in prima persona, ha avuto modo di dire: “Sento spesso la gente parlare delle grandi ali di oggi. Ottimi giocatori, ma io non ho ancora visto nessuno che possa essere minimamente paragonato ad Elgin”.
Bill Sharman suo rivale quando militava ai Celtics e successivamente suo allenatore ai Lakers un giorno disse: ”Posso affermare senza esitazioni che Elgin è stato il miglior ‘cornerman’ mai visto su un campo di basket”.
Tommy Hawkins dichiarò al San Francisco Examiner: ”Libbra per libbra, nessuno è stato così grande come Elgin. Nessuno!”
Otto finali NBA, dieci primi quintetti di lega, undici All Star Game, il titolo di matricola dell’anno, terzo realizzatore di sempre fra i giocatori non più in attività per media punti dopo Jordan e Chamberlain, nono per media rimbalzi, una serie di record realizzativi, alcuni dei quali tuttora inviolati, Baylor era una guardia-ala completa ed elegante, capace di far male da ogni posizione ed in ogni occasione.
Uno contro uno era incontenibile. Quando metteva palla a terra non c’era nessuno che riuscisse a fermarlo. Era veloce, sgusciante e forte allo stesso tempo. Dotato di un ball-handling perfetto, le sue finte ed i suoi movimenti rendevano la vita improba per qualsiasi difensore.
Leggendario il suo tiro dalla distanza, scagliato con mano sicura da ogni mattonella del Forum. Efficace e preciso il suo jump-shot, da qualsiasi posizione. Solidi e diversificati i movimenti spalle a canestro, movimenti che non avevano nulla da invidiare ai migliori centri della lega.
Baylor era inoltre, nonostante la statura, un eccellente rimbalzista, aiutato in questo da un incredibile tempismo e da doti atletiche eccezionali.
Proprio le strepitose capacità atletiche, più di ogni altra cosa, spiccavano nel suo gioco. Le evoluzioni e le acrobazie con cui volava a canestro erano un’autentica novità all’interno del panorama cestistico di fine anni ‘50.
Baylor era capace di rimanere in aria più di compagni e avversari, e inventare così i canestri più impossibili. Aveva l’innata capacità di eseguire mirabolanti movimenti aerei cambiando la posizione del corpo e della sfera, veleggiando, quasi fluttuando fra gli avversari. Proprio come Erving o Jordan anni ed anni dopo.
Tommy Hawkins dirà in merito: ”Ovviamente non saltava così in alto come Julius e Michael, ma sicuramente aveva una maggiore varietà di tiro di Erving e probabilmente anche dello stesso Jordan. Era incredibile, tirava e segnava da qualsiasi angolazione. Inoltre era forte, veloce e atletico. Un mix incontenibile. Poteva giocare in post come Russell, passare come Magic, dribblare come le migliori guardie nella lega. Non bastano le parole per descriverlo.”
Elgin Gay Baylor nacque il 16 settembre del 1934 a Washington D.C.
La leggenda narra che suo padre nel momento in cui il piccolo vedeva la luce, istintivamente portò gli occhi all’orologio da tasca per immortalare l’ora dell’evento. Quale fosse la marca dell’orologio, a questo punto, è inutile sottolinearlo.
Elgin iniziò a giocare a basket molto tardi, all’età di 14 anni circa. Ma imparò in fretta. Da senor all’High School fu il primo player di colore ad essere nominato miglior giocatore della capitale.
Il suo curriculum scolastico era però estremamente negativo ed ebbe non poche difficoltà a trovare un college disposto a dargli una borsa di studio. Finì nell’Idaho dove trascorse un anno alle medie di 31.3 punti e 18.9 rimbalzi a partita. Ma ancora problemi di voti accademici complicarono il suo percorso cestistico. Elgin fu costretto a lasciare il piccolo college per trasferirsi alla Seattle University.
Le regole che vincolavano i trasferimenti di un giocatore da un college all’altro lo obbligarono a rimaner fermo per tutto il suo primo anno a Seattle. Nei due successivi viaggiò ad oltre 31 punti e 19 rimbalzi di media.
Nel 1958, durante il suo ultimo anno al college, fu All American e condusse Seattle, diciottesima nel ranking collegiale, ad una splendida cavalcata vincente che si concluse con la finale NCAA a Louisville. Fu in questo periodo che Baylor venne definito da Emmett Watson, popolare penna di Sport Magazine ”il miglior giocatore di basket del pianeta, professionisti inclusi”.
Nella finale NCAA arrivò però la sconfitta contro la più quotata Kentucky del mitico Adolph Rupp per 84 a 72. Baylor aveva giocato comunque un’eccellente partita, realizzando 25 punti, tirando giù 19 rimbalzi e meritando il premio di Most Outstanding Player delle Final Four.
Alla fine della stagione collegiale si fecero più insistenti le pressioni dei New York Knickerbockers che tentarono di convincere il giovane player a rimanere un ulteriore anno al college, nel tentativo di accaparrarsene i servizi. Baylor tuttavia decise di dichiararsi eleggibile al draft NBA contando sul fatto che sarebbe stato la prima scelta assoluta.
C’era molta curiosità fra gli addetti ai lavori attorno a questo favoloso player di cui gli scout raccontavano meraviglie.
Dicevano fosse buffo vederlo giocare perché aveva un tic nervoso che lo costringeva a strani movimenti verso il basso con il mento. Ma ribadivano che era buffo solo per gli spettatori. Gli avversari non ci trovavano nulla di divertente. Non appena Elgin metteva palla a terra, si ritrovavano regolarmente ridicolizzati.
Si sparse la voce prima del suo esordio fra i pro che il segreto fosse mandarlo in palleggio sul lato sinistro, quello più debole, ma questa diceria venne subito smentita sin dalle sue primissime partite da rookie con la maglia dei Minneapolis Lakers.
Correva l’anno 1958-59. I Lakers erano una squadra alla sbando, sull’orlo della bancarotta. I fasti dell’epoca Mikan erano ormai tramontati e la squadra del Minnesota aveva appena concluso la stagione precedente adagiandosi sul fondo della Western Division con il poco glorioso record di 19 vittorie e 53 sconfitte.
Il pubblico latitava, le entrate erano scarse. Bob Short, proprietario della franchigia, era stato sul punto di dichiarare fallimento, ma quando era riuscito a convincere Baylor a saltare l’ultimo anno di college per approdare nella NBA, aveva realizzato che forse non tutto era ancora perduto.
Elgin era stato additato come l’ultima speranza di sopravvivenza del team. Ed effettivamente, per molti versi, se oggi esistono i Lakers, se sono diventati la seconda squadra più gloriosa nella storia della NBA, lo devono a lui.
La cifra che il giocatore chiese per firmare fece molto scalpore: ventimila sonanti bigliettoni, per l’epoca elevatissima. Ma Bob Short accettò. Del resto l’alternativa era la morte della franchigia. Fu come un sei al superenalotto.
Il pubblico raddoppiò improvvisamente. Gli abitanti di Minneapolis, ammaliati dai movimenti e dalle giocate spettacolari del rookie, improvvisamente si riscoprirono innamorati della squadra. Le gare dei giallo-viola iniziarono a diventare un evento imperdibile e anche in trasferta facevano registrare sempre il tutto esaurito. Le mirabolanti acrobazie della nuova stella dei Lakers conquistarono l’intero mondo del basket a stelle e strisce.
Al primo anno in NBA, Elgin fece registrare 24.9 punti, quarto nella lega, e 15 rimbalzi a partita, terzo nella categoria.
Il 23 gennaio fu convocato per la partita delle stelle. Realizzò 24 punti, catturò 11 rimbalzi. Fu eletto MVP dell’incontro ex aequo con Bob Pettit.
Il 25 febbraio del 1959 contro i Cincinnati Royals realizzò 55 punti, prestazione che all’epoca era la migliore di sempre per un rookie (tuttora è record di franchigia per i Lakers) e la terza migliore nella storia dopo i 63 di Fulks e i 61 di Mikan.
Lo stesso Baylor, qualche mese dopo cancellerà per sempre il record di Fulks mettendo a referto 64 punti contro i Boston Celtics.
I Lakers vinsero 14 partite in più rispetto alla precedente stagione, finirono secondi nella Western Division. Baylor fu rookie dell’anno e trascinò di peso la squadra ad una splendida corsa nei playoffs.
Fra la sorpresa generale Minneapolis sconfisse nella finale della Western Division i St. Louis Hawks, campioni in carica e guidati dall’MVP di stagione Bob Pettit. In un solo anno i giallo-viola erano passati dall’essere il fanalino di coda dell’intera lega a giocare per l’anello.
La finalissima contro i Celtics di Russell fu impietosa. Un sonoro sweep assicurò a Boston il secondo titolo in tre anni, il primo di una lunghissima, interminabile sequenza.
I Celtics erano una squadra costruita in maniera perfetta da Red Auerbach, Minneapolis poteva invece contare solo sull’apporto di un fantastico Baylor, ma poco altro. La squadra aveva soprattutto una evidente lacuna sotto canestro. Lacuna che verrà colmata solamente dieci anni dopo e che costerà ai Lakers molte delle finali che andranno a disputare nel corso delle stagioni a venire.
Ma la sconfitta, la seconda consecutiva per Elgin in una finale, dopo quella dell’anno prima al college, sembrava essere solo una lieve increspatura in quella che si avviava ad essere una delle carriere più luminose nella storia NBA. Baylor aveva letteralmente abbagliato tutti, giocatori, allenatori, addetti ai lavori e pubblico.
“Ebbe lo stesso impatto che avrebbe avuto vent’anni dopo Larry Bird” dichiarerà in seguito Hot Rod Hundley, suo compagno di squadra a L.A.
Un impatto che non era solo misurabile dalla quantità dei punti realizzati o dei rimbalzi catturati. Il gioco di Baylor andava oltre i meri numeri. Sin dal suo primo anno si rivelò il leader della squadra, capace di coinvolgere i compagni, di migliorarli, ma anche di trasmettere emozioni al pubblico e renderli partecipi alle vicissitudini della squadra.
E il meglio doveva ancora arrivare. Il meglio Elgin l’avrebbe riservato per un pubblico d’eccezione. Quello di Los Angeles.
Al termine della stagione successiva infatti, i Lakers lasciavano le fredde montagne del Minnesota per la calda costa californiana. Contemporaneamente dal draft arrivò Jerry West e subito venne a crearsi una delle combo più forti nella storia del gioco.
Era l’estate del 1960 e si stava schiudendo un’epoca gloriosa per il basket made in USA.
Il terzo anno Baylor era il leader carismatico dei nuovi Lakers, in campo e fuori. Colui che sul parquet dettava i tempi e i ritmi del gioco, che fuori dal parquet disciplinava i rookie, li aiutava, li migliorava. Lo stesso West ammetterà l’importanza per lui durante i suoi primi anni da professionista di un compagno come Baylor da cui apprendere molto e a cui declinare volentieri le principali responsabilità offensive.
La città californiana impazzì letteralmente per le movenze della guardia-ala in maglia giallo-viola. Baylor li ripagò giocando un basket stellare. Ingaggiò sin dall’inizio della Regular Season uno spettacolare duello a distanza a suon di punti con il secondo anno Wilt Chamberlain.
Il 15 novembre del 1960, in una gelida serata newyorkese, Elgin fu il primo giocatore della storia a valicare la famosa soglia dei 70 punti. Per la precisione ne mise 71 contro i Knicks. Una cifra che per un esterno che non poteva contare neanche sull’ausilio del tiro da 3 punti, sembrava letteralmente impensabile. Era nuovo record NBA. Migliorava i 64 punti che lui stesso aveva messo a referto l’anno prima.
Tuttora solo tre giocatori nella storia della NBA hanno superato i 71 punti in singola gara. Sono Chamberlain, David Thompson e Kobe Bryant.
Johnny Greer, ala dei Knicks, ricorda con queste parole l’impresa di Baylor: “È difficile da credersi, ma Elgin quella sera non fece nulla di speciale. Non forzò mai una conclusione, giocò normalmente come se non gli importasse nulla dei punti che metteva. La squadra non giocò per lui, per fargli fare un record come avvenne in occasione dei 100 punti di Wilt. Solo che a Elgin veniva tutto naturale. Non sbagliava mai. Prendeva il rimbalzo in difesa attaccava il canestro avversario e segnava. Prendeva un tiro da qualsiasi posizione e lo metteva. Senza forzature, senza conclusioni avventate. Faceva cose che all’apparenza potevano sembrare non straordinarie. Ma la verità è che era lui ad essere straordinario.”
La risposta di Chamberlain non si fece attendere. Venti giorni dopo il rivale piazzò 78 punti proprio contro i Lakers in un match prolungatosi per tre supplementari.
A fine anno Elgin realizzò 34.8 punti per gara. Wilt ne mise 38.4. Per Baylor solo il secondo posto nella classifica dei realizzatori. Nel ranking dei migliori rimbalzisti di lega il suo nome invece figurava in quarta posizione, dietro autentici mostri sacri quali lo stesso Chamberlain, Russell e Pettit, tutti giocatori che, a differenza sua, spendevano la maggior parte del tempo sotto il ferro.
Nella finale della Western Division i Lakers si ritrovarono ancora una volta davanti i St. Louis Hawks di Pettit. Si portarono avanti per 3 a 2 nella serie. Ma persero una drammatica e sfortunata gara sei all’overtime per 114-113 ed una serratissima gara sette per 105-103. Agli Hawks dunque l’onore di deporre le armi contro i soliti Celtics in finale.
Per Elgin ci fu la media di 38.1 punti nelle 12 partite di post season.
L’anno successivo fu probabilmente il migliore della sua carriera. Ma anche il più strano.
La giovane ala dovette prestare servizio militare nella base dell’esercito di Fort Lewis, nello stato di Washington. Ciò gli impedì di scendere in campo durante gli incontri che si disputavano in settimana. Era disponibile dal venerdì alla domenica.
Giocò solo 48 partite, ma furono tutte indimenticabili. Segnò la stratosferica cifra di 38.3 punti a partita per quella che è tuttora la quarta media realizzativa più alta in stagione nella storia della lega. Peccato che quello stesso anno si verificò anche la prima media realizzativa di sempre: i 50.4 di Wilt. E ancora una volta il titolo di miglior realizzatore incredibilmente gli sfuggì.
Nelle 13 gare di Playoffs la media punti di Baylor salì a quota 38.6 per gara. Fu l’autentico trascinatore dei Lakers. I giallo-viola approdarono alla seconda finale della loro storia.
Fu quella la prima di una lunga serie di incandescenti sfide in cui Los Angeles e Boston incrociarono le armi nell’ultimo atto della stagione NBA. Ed Elgin scrisse un altro capitolo della sua immensa leggenda.
In gara 1 mise 35 punti. In gara 2 migliorò il suo score mettendone 36 e portando assieme a West, i Lakers a violare il Boston Garden. In gara 3 condusse i suoi alla vittoria casalinga con 39 punti. In gara 4 ci fu la vittoria esterna di Boston, ma Elgin realizzò comunque 38 punti.
Con la serie ferma sul 2 a 2, arrivò la storica gara 5 che Elgin consegnò direttamente ai libri di storia. Segnò 61 punti, un bottino che tuttora è record NBA per una partita di finale e, fino al 1986 con Jordan, è stato record per una partita di playoffs. Aggiunse 22 rimbalzi e condusse i Lakers a imporsi a Boston per 126 a 121.
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Il suo marcatore Satch Sanders lo definì ”una macchina” e Cousy rimarcò: “Nessuno ci crederà , ma Satch lo marcò bene. Lo fece sudare. A fine partita gli feci persino i complimenti per come aveva difeso. Baylor si sudò ogni singolo punto”.
Lo stesso Jerry West rammenterà tempo dopo: ”Era una di quelle sere in cui quando Elgin aveva la palla dovevi solo prendere una sedia e fermarti a guardarlo ammirato.”
Alla fine a vincere il titolo furono i soliti Celtics in una memorabile gara sette terminata solo dopo un supplementare. Una partita in cui Elgin realizzò altri 41 punti e caricò di falli la difesa di Boston. Una partita in cui Frank Selvy, guardia di Los Angeles, ebbe la palla della vittoria. La sbagliò, la sfera ballò sul ferro, Baylor volò a rimbalzo offensivo, ma Russell gli strappò la sfera dalle mani, mandando la partita all’overtime.
Anni dopo Baylor dichiarerà di non essersi mai dato pace per quella vittoria sfumata all’ultimo secondo. Per quel rimbalzo strappatogli, secondo lui, in maniera fallosa dal rivale.
Baylor chiuse quella serie finale con la media di 40.6 punti a partita, una media che è ancora oggi la terza più alta di sempre in una serie finale. Non scese mai in ognuna delle sette partite di finale sotto i 34 punti di gara 6.
L’anno seguente Elgin divenne il primo giocatore della storia a concludere la stagione fra i primi cinque in quattro categorie diverse: punti, rimbalzi, assist e percentuali ai liberi. Mise a referto 34 punti a partita, ma ancora una volta fu soltanto secondo realizzatore della lega. Inutile chiedersi chi lo avesse preceduto.
Riportò i Lakers in finale, ma ancora una volta, complice il grosso buco non ancora colmato che la squadra aveva sotto canestro, arrivò una sconfitta. Inutile chiedersi ad opera di chi. La sorte iniziava a farsi beffe dello straordinario talento del ragazzo con la maglia numero 22.
In quegli anni a Los Angeles, Baylor aveva segnato dai 34 ai 38 punti a partita, cifre che gli avrebbero consegnato in qualsiasi altra occasione lo scettro di miglior realizzatore della lega, ma quei bottini erano coincisi con i grandissimi exploit realizzati di Chamberlain.
In quegli e negli anni a venire Baylor raggiunse per otto volte la finale NBA. Ma quegli anni coincisero con la più grande dinastia che lo sport americano abbia mai conosciuto.
In quegli anni Elgin aveva portato il gioco del basket ad un livello superiore, non più il livello del parquet, ma quello del ferro. Ma in quegli anni lo sport ed il basket erano lontani dall’esposizione mediatica che avrebbero avuto nel futuro e le immagini ed i video che hanno catturato le sue evoluzioni sono stati rari.
E le stagioni migliori della sua carriera frattanto sembravano scivolare via.
Dalla stagione 1963-64 il ventinovenne Elgin iniziò ad accusare i primi problemi fisici. In molti ritengono che da allora non fu più il solito giocatore. Lentamente ma inesorabilmente cominciò a perdere parte di quell’esplosività che aveva contraddistinto i suoi primi anni nella lega. Tuttavia partiva da un livello così alto che riuscì a nascondere le prime avvisaglie di un fisico non più integro.
Il primo serio infortunio arrivò il 3 aprile del 1965. Era gara 1 delle finali di Conference. Avversari i Baltimore Bullets. Elgin si ruppe il ginocchio sinistro e i suoi playoffs finirono quel giorno.
Se per i Lakers privi di Baylor fu possibile battere Baltimore grazie a West, l’impresa di sconfiggere i Celtics in finale si rivelò ben presto disperata. Boston si impose in 5 gare.
In molti pensavano che la carriera di Baylor, trentuno primavere sul groppone, si era conclusa quel 3 aprile. Ma Elgin tornò l’anno dopo. Giocò solo 65 gare a minutaggio ridotto e realizzò appena 16.6 punti. Per la prima volta dal suo esordio nella lega, il suo nome non figurò fra quelli del primo quintetto NBA.
Vederlo giocare fu traumatico per la maggior parte dei tifosi dei Lakers. ”Era come guardare Citation (celebre cavallo da corsa statunitense, N.d.A.) correre su zampe deformi” ricorderà il commentatore dei Lakers, Chic Hearn.
Jerry West nel frattempo era cresciuto come giocatore, divenendo il leader della squadra e supplendo all’assenza del suo perfetto compagno. Baylor disputò un finale di stagione in crescendo e i Lakers approdarono nuovamente alla finale NBA. Ancora contro i Celtics. Ancora contro Bill Russell, il supremo monarca.
Sul risultato di 3 a 1 per Boston, Elgin ritornò agli antichi splendori in gara 5 realizzando 41 punti. In gara 6 il suo contributo fu importante per portare i Lakers ad impattare la seria sul 3 pari. Ma in gara 7 trionfarono nuovamente i Celics di due: 95 a 93 il punteggio finale. E per Baylor una nuova sconfitta.
Seguiranno altre tre finali, nel 1968 e nel 1969 contro i Celtics e nel 1970 contro i Knicks.
Arriveranno altri tre primi quintetti NBA nel 1967, nel 1968 e nel 1969, stagioni in cui Elgin, pur senza essere più lo straordinario atleta che tutti avevano imparato ad amare, grazie alla classe cristallina e al talento che Madre Natura gli aveva donato, riuscì ad assestarsi sempre sui 25 punti a partita.
Il resto è storia.
Nell’estate del 1968 approdò a Los Angeles Chamberlain. Arrivò finalmente quel centro che colmava la grande lacuna dei Lakers. Baylor si ritrovò ad essere una delle tre punte di diamante di una squadra che aveva in West il principale terminale offensivo e appunto in Chamberlain quello difensivo. Ma ormai gli anni migliori della sua carriera erano inesorabilmente alle spalle.
Che con Wilt sotto le plance il sospirato titolo per i Lakers sarebbe stato solo una questione di tempo era pressoché certo, che a Elgin questo tempo sarebbe stato concesso, solo il Destino poteva saperlo.
Ed il Destino non mancò di giocargli l’ultimo clamoroso scherzo.
Già nella stagione 1969-70 Baylor giocò appena 54 partite di Regular Season, tormentato dagli infortuni. Nei playoffs fece la sua parte. In finale ingaggiò un bellissimo duello su entrambi i lati del campo con quello splendido difensore che era Dave Debusschere e fu fondamentale in gara 4, quando con 30 punti riuscì a portare i suoi Lakers ad impattare la serie contro i Knicks sul 2 a 2.
La clamorosa sconfitta in gara 7, quella passata alla storia per la grandi imprese di Willis Reed e di Walt Frazier, una sconfitta maturata in un clima particolare contro ogni sorta di pronostico, spinse l’ormai trentasettenne giocatore a continuare ancora la sua eterna rincorsa al titolo.
Quel che nessuno poteva però sapere è che quella gara 7 di finale, quella cocente sconfitta, sarebbe stata l’ultima partita di playoffs di Elgin Baylor.
Dopo appena due gare della Regular Season successiva un nuovo infortunio al ginocchio parve infatti stroncare definitivamente la sua carriera. Elgin rimase fermo per tutta la stagione, una stagione che per Los Angeles si sarebbe conclusa in finale di Conference contro i Bucks di Lew Alcindor e Oscar Robertson. Fu più volte sul punto di abbandonare durante quei lunghi e terribili mesi di riabilitazione, ma la sete di vittoria lo spinse a riprovarci.
Si ripresentò l’anno successivo, nonostante un’età non più verde, nonostante gli infortuni che ne avevano limitato fortemente il rendimento, nonostante le ginocchia che continuavano a tormentarlo.
Ma dopo nove soffertissime partite della nuova stagione capì che non ce l’avrebbe fatta. Stavolta era giunto davvero il momento di dire basta.
Era il 31 ottobre del 1971. Una sconfitta per 109 a 103 contro i Warriors sancì l’ultima partita di Elgin Baylor in NBA, dopo 14 lunghissimi anni ad inseguire non solo una sfera color arancio, ma anche vanamente un meritatissimo titolo.
Era l’ultimo, ennesimo, brutto scherzo che il destino avverso gli riservava.
Dal match successivo i Lakers diedero il via a quella famosa striscia di 33 vittorie consecutive che è ancora oggi record per la lega e che nel giro di qualche mese porterà la squadra giallo-viola sul tetto del mondo. I Lakers avrebbero conquistato l’anello. Il primo da quando si erano trasferiti a Los Angeles, dodici anni prima.
E l’immenso e sfortunato Elgin Gay Baylor sarebbe stato ricordato per sempre come il più grande giocatore di sempre… a non aver mai vinto un titolo NBA. Perché la vita a volte sa essere davvero ingiusta.
Ha esordito su Play.it nel 2004 con la rubrica “NBA Legendary Games”. Dopo una trentina di pezzi ha lasciato perdere le partite per dedicarsi alla nuova rubrica “25 Legendary Players”. Ha mollato anche questa sul più bello per mettersi a scrivere romanzi noir. Il successo, probabilmente vittima di paresi, gli ha arriso e sorriso.
No dai..baylor al 16 posto non lo accetto!per me come giocatore in sè è stato superiore a bird..non ha vinto ev questo lo penalizza inevitabilmente ma così in basso mai tutta la vita
Ciao, ora che è uscito l’articolo su Moses posso risponderti. Il problema non è Baylor in sé o il fatto che non abbia vinto un titolo, il problema fondamentalmente è la concorrenza. In altre parole nè Moses Malone nè i successivi in classifica me la son sentita di metterli dietro Baylor.
Come dicevo già qualche tempo fa, un giocatore per certi tipi di classifica non si giudicano dai loro picchi (o almeno io non li giudico nel loro prime, ma complessivamente), altrimenti Shaq ad esempio non uscirebbe da una top 3.
Elgin è stato un giocatore fantastico ma alla fine ha giocato ad altissimi livelli per 5 anni e ad alti livelli per 7, fino al 1965, cioè fino al celebre infortunio contro Baltimore. Dopo di che non è stato più se stesso. Come scrivo nel pezzo, partiva da un livello così elevato che si è comunque mantenuto su buoni standard, ma dei seguenti sette anni di carriera dopo l’infortunio, due praticamente non li ha giocati, uno è stato il terzo violino, quattro son stati ben giocati ma a ritmo ridotto e da secondo violino.
Avrebbe meritato un titolo di MVP durante i suoi primi 5/7 anni? Certo. Ma c’erano Russell, Chamberlain, Robertson.
Avrebbe meritato un titolo di miglior realizzatore? Certo. Ma c’era Chamberlain.
E’ stato sfortunato? Certo. Ma alla fine per quanto dispaccia, non è colpa di chi giudica.
Sinceramente non me la son sentita di mettergli dietro Moses Malone (un titolo, due finali, 3 MVP di stagione, un dominio a tratti imbarazzante sui rivali, tutto ciò in un’epoca almeno altrettanto competitiva come quella dei primi anni ’80). Ovviamente stesso discorso vale per chi in classifica verrà dopo Malone.
Scusate ma quindi, formalmente, il titolo del 72 non l’ha vinto? Dopotutto faceva parte della rosa della squadra quell’anno
Questione dibattuta. Con le regole di allora la NBA non ha mai riconosciuto ufficialmente la vittoria del titolo a Elgin. Per omaggio e riconoscenza, i Lakers gli hanno comunque confezionato un anello che Baylor non ha mai sentito suo. Tanto è vero che lo stesso giocatore lo mise in vendita assieme ad altri cimeli appartenenti al suo passato di giocatore.
Per quanto riguarda la posizione in classifica, con calma spiegherò le mie ragioni. Premetto che il 16esimo posto è costato parecchio pure a me perché considero Baylor un giocatore eccezionale, ma alla fine ha prevalso una sorta di ragione.
Eh. Fra l’altro notizia di oggi i cavs daranno l’anello a Blatt. Mi sembra un caso con diverse similitudini. Comunque grazie per la precisazione