Fino alla metà degli anni ‘80 Bob Pettit era ancora unanimemente considerato la miglior Power Forward nella storia della pallacanestro. Poi il ruolo subì una profonda evoluzione e nel giro di un decennio nuovi e agguerriti interpreti ridisegnarono e stravolsero completamente le gerarchie nello spot di ala forte.

Sembrerà strano ma il primo a scalzare dal trono la mitica ala dei St. Louis Hawks, fu un giocatore nato in Alabama, alto non più di 195 centimetri e con gravi problemi di peso, tanto da viaggiare sull’ordine delle 300 libbre ai tempi del college ad Auburn.

Il suo nome era – o meglio è – Charles Wade Barkley. E se di lui non avete mai sentito parlare, questa rubrica non fa decisamente per voi. O forse sì.

Rispetto a Pettit, Charles ha chiaramente numeri inferiori.

Un solo titolo di MVP contro i due del suo predecessore. Statistiche inferiori alla voce punti e rimbalzi, che pure erano il suo punto forte. Ma soprattutto nessun anello.

Una maledetta lacuna che sir Charles, per gli amici Chuck, ha provato a colmare in tutti i modi passando da Philadelphia a Phoenix e quindi a Houston, prima che gli infortuni, che già da alcune stagioni non gli davano tregua, lo obbligassero al doloroso ritiro.

Un ritiro in sordina, senza clamori, forse molto diverso da come il grande Charles lo aveva immaginato. Sicuramente diversissimo da quella che è stata la sua carriera, sviluppatasi fra giocate spettacolari, cocenti sconfitte, atteggiamenti goliardici, a volte persino eccessivi, ma compensati da una straripante, contagiosa simpatia. Da un’ironia ed un sarcasmo pungente, da una lingua che non sapeva e non voleva tacere.

Alcune sue battute sono entrate di diritto nell’Olimpo della NBA, al pari delle sue giocate.

Come quando chiese al cattolicissimo compagno A.C. Green “Ma se il tuo Dio è così buono, perché non ti ha donato un tiro in sospensione degno di questo nome?”

O quando, riferendosi al non troppo esile Oliver Miller, esclamò: “L’unica possibilità di vederlo schiacciare è mettergli un Big Mac nel canestro!”

Questo era Charles Barkley. Un personaggio particolare, persino all’interno del variegato mondo della pallacanestro americana. Particolare per il suo modo di essere. Ed ovviamente per il suo modo di giocare.

A lungo è stato considerato una delle più grandi anomalie nella storia della lega.
Alto ufficialmente 6-6, ma alla realtà dei fatti sicuramente qualcosa in meno, dotato di un fisco a dir poco rotondeggiante, è stata una Power Forward di eccezionale livello, un rimbalzista devastante, non solo in proporzione all’altezza, ma addirittura in senso assoluto.

Venne ribattezzato ai tempi del college “The Round Mound of Rebound” per le sue rotondità ma anche per la sua carica esplosiva a rimbalzo che lo ha portato ad essere nulla meno che dominate sotto i tabelloni.

Ma Charles non era solo rimbalzi. Era energia pura su parquet. Era intelligenza cestistica, era difesa, uomo assist, tecnica, palleggio, esplosività allo stato puro ma mai fine a se stessa.

Ad inizio carriera la sua azione simbolo prevedeva un rimbalzo difensivo ed una partenza bruciante per un coast to coast che si concludeva con una roboante schiacciata, travolgendo tutto e tutti.

https://www.youtube.com/watch?v=5aS6mgeH2TE

Offensivamente giocava indifferentemente sul perimetro o sotto canestro. Difensivamente a volte era svogliato, ma quando la partita contava realmente, si rivelava reattivo e pronto, sia sulle linee di passaggio che sotto canestro per rumorose stoppate rifilate ad avversari notevolmente più alti di lui.

“Come Magic e Larry. Non ha mai avuto un ruolo predefinito. Sapeva fare tutto e faceva di tutto” ha detto di lui un altro grandissimo della lega, Bill Walton.

Per poi aggiungere: “He plays everything. He plays basketball. There is nobody who does what Barkley does. He’s a dominant rebounder, a dominant defensive player, a three-point shooter, a dribbler, a playmaker.”
Potrebbe bastare, no?

Eppure la carriera di Sir Charles non era cominciata sotto i migliori auspici.
Nato a Leeds, Alabama, il 20 febbraio del 1963, appena tre giorni dopo un tale di nome Michael Jordan, nei tre anni di college ad Auburn viaggiò alle poco sensazionali medie di 14.1 punti a partita e 9.6 rimbalzi.

Fu una carriera collegiale abbastanza anonima la sua e, nonostante nel 1984 venne eletto giocatore dell’anno per la Southeastern Conference, nel circuito era più conosciuto per il peso, la fame perenne e per il fatto che i tifosi delle squadre avversarie avevano preso la tagliente abitudine di fargli recapitare cartoni di pizza nei momenti in cui sedeva in panchina per i suoi Tigers, che non per le qualità cestistiche.

Lo stesso giocatore, ricordando i tempi del college, pronuncerà la significativa frase: “I don’t eat much. I just eat all the time.”

A dispetto delle pizze, del pollo fritto e del peso, Charles fece comunque parte della selezione americana di settanta giocatori di college che nelle palestre della Indiana University sotto la guida di coach Bobby Knight, si preparò per le Olimpiadi di Los Angeles del 1984.

Anzi, Barkley fu forse la vera sorpresa del training camp, risultando insieme alla guarda di North Carolina, Michael Jordan, il miglior giocatore fra i selezionati, sopravanzando nelle gerarchie persino il molto più quotato centro di Georgetown, Patrick Ewing.

Charles venne però tagliato dalla selezione definitiva di 12 giocatori. Fu uno degli ultimi tagli che Knight operò. La leggenda narra che l’esclusione non fosse stata dettata da motivazioni tecniche ma semplicemente dal fatto che, durante un allenamento, il giocatore si fosse reso colpevole di qualche apprezzamento poco carino nei confronti delle stravaganti scarpe del non proprio affabile coach di Indiana.

Le esibizioni con la selezione statunitense aumentarono tuttavia le sue quotazioni in vista del draft del 1984, forse il più ricco di talento nella storia della lega. Una draft che annoverava fra gli altri, giocatori del calibro di Hakeem Olajuwon, Michael Jordan, Sam Perkins, John Stockton.

Barkley fu chiamato con la quinta scelta assoluta dai Philadelphia Sixers che l’anno prima avevano vinto l’anello. Si ritrovò così in una squadra zeppa di campionissimi la cui carriera si avviava verso il tramonto, quali Julius Erving, Moses Malone e Maurice Cheeks.

Chuck trascorse otto stagioni a Philadelphia, stagioni povere di successi a livello personale e di squadra.
Al primo anno fu inserito nel primo quintetto dei rookie insieme a Jordan e Olajuwon dopo aver viaggiato sui 14 punti e 8.6 rimbalzi a partita. I Sixers chiusero con 58 vittorie e 24 sconfitte, ma la loro corsa si arrestò nella finale della Eastern Conference dopo 5 gare, contro i soliti Celtics di Larry Bird.

Quella fu l’unica stagione in carriera in cui Charles giocò tutte le 82 partite di Regular Season e tutte quelle di playoffs, arrivando a disputare 95 gare complessive.

L’anno dopo, la giovane ala riuscì a soffiare al grande Moses Malone (sei titoli di miglior rimbalzista della lega alle spalle) lo scettro di rebounder della squadra, catturandone quasi 13 a partita e piazzandosi al secondo posto della specialità nell’intera lega, preceduto solo dal centro dei Pistons, Bill Laimbeer.

Nelle 12 partite di playoffs segnò 25 punti a partita con il 58% dal campo e catturò 15.8 rimbalzi, ma Philly fu eliminata alla settima tiratissima gara (112-113) dai Milwaukee Bucks in semifinale di Conference. Fu durante quella post-season che Barkley si impose all’attenzione generale, consacrandosi miglior giocatore dei 76ers.

Quella stessa estate Moses Malone fu spedito a Washington, mentre Erving si apprestava a vivere la sua ultima stagione nella lega.

Il terzo anno Barkley prese letteralmente in mano le sorti della franchigia. Vinse il suo primo titolo di rimbalzista della lega, catturando 14.6 palloni a partita. Il più basso giocatore della storia a raggiungere il primato. Fu convocato al suo primo All Star Game, finì nel secondo quintetto NBA.

Le prime vere grandi delusioni arrivarono però nella stagione seguente. Numericamente Charles fu devastante. Segnò oltre 28 punti a partita e catturò quasi 12 rimbalzi, conquistò il primo quintetto di lega, ma i Sixers non raggiunsero la post-season.

Barkley era uno splendido, meraviglioso giocatore in un contesto inadeguato. In una squadra la cui dirigenza non era riuscita a costruirgli attorno un supporting cast adeguato, figlio di una degna ricostruzione, dopo i fasti della prima metà degli anni ’80.

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La post-season arrivò l’anno dopo ma contemporaneamente anche una eliminazione al primo turno dei playoffs contro i più quotati Knicks di Ewing.

Nella stagione 1989-90, al suo sesto anno fra i pro, Barkley realizzò 25.2 punti a partita, catturò 11.5 rimbalzi e tirò col 60% dal campo per tutta la stagione. Condusse quasi da solo i Sixers a vincere 53 partite e sfiorò il titolo di MVP della Regular Season, preceduto nelle votazioni dal solo Magic Johnson.

In gara 1 del primo turno di playoffs contro Cleveland mise 38 punti e catturò 21 rimbalzi. Philadelphia avanzò al secondo turno, ma arrivò una nuova sconfitta in cinque gare, stavolta contro i Bulls di Jordan e Pippen che a breve avrebbero instaurato una lunga dinastia.

L’anno dopo Chuck si aggiudicò il titolo di MVP dell’All Star Game, realizzando 17 punti e catturando 22 rimbalzi. Mai nessuno ne aveva catturati tanti in una partita delle stelle, dai tempi ovviamente di Wilt Chamberlian. Alla fine della stagione per lui c’era il primo quintetto NBA per il quarto anno consecutivo. Ma non era certo abbastanza per un giocatore che cominciava ad avere fame di vittorie.

La stagione 1991-92 fu abbastanza travagliata per l’ala in maglia Sixers. La squadra stentava e Charles diventava giorno dopo giorno sempre più insofferente.

Oramai era diventato uno degli uomini simbolo della lega. Una lega che aveva superato con successo il profondo ricambio generazionale avvenuto tra la fine degli anni ’80 e gli inizi dei ’90, anche grazie a lui.

Le carismatiche figure del decennio precedente, le autentiche icone che avevano reso grande e popolare la NBA nel mondo, i vari Magic, Bird, Jabbar, Erving, Moses Malone, erano tutte sul viale del tramonto e molte avevano già appeso le scarpe al chiodo.

Ma i volti nuovi, i vari Jordan, Pippen, Hakeem, Drexler, Ewing, Stockton, Karl Malone, lo stesso Barkley, erano ormai stelle affermate che già da tempo ne avevano raccolto il testimone. E fra questi Chuck era sicuramente una delle stelle più splendenti. La migliore in quel momento, dopo il solo Michael Jordan.

Il contesto perdente dei Sixers tuttavia non lo aiutava e non aiutava il suo carattere particolare, spesso bizzoso, a volte iroso e irascibile.

La situazione si rese insostenibile allorché il giocatore si rese protagonista di alcuni incidenti. Il più clamoroso avvenne alla Meadowlands Arena, quando durante una partita con i Nets, Barkley sputò addosso ad un tifoso che, a suo dire, l’aveva pesantemente insultato.

Già questo di per sé sarebbe grave, ma a rendere l’episodio assolutamente intollerabile, fu il fatto che Charles mancò clamorosamente il bersaglio e centrò in pieno viso una ragazzina.

In seguito il giocatore si fece perdonare per quell’episodio stringendo un sincero rapporto di amicizia con la malcapitata e con i suoi genitori, in accordo con la sua natura paradossale, il suo modo di essere guascone ma al tempo stesso genuino.

A fine stagione, dopo che i Sixers mancarono l’accesso alla post-season, il ventinovenne Barkley chiese alla dirigenza di essere ceduto. Le sue medie dell’ultima Regular Season parlavano di 23.1 punti (calato di quasi 4 punti rispetto all’anno prima) e 11.1 rimbalzi a partita.

chuck92Quell’estate, la stessa delle storiche Olimpiadi di Barcellona in cui Barkley fu miglior realizzatore e miglior giocatore della selezione statunitense, prendendosi una parziale rivincita dopo l’esclusione del 1984, Chuck fu ceduto ai Suns in cambio di Jeff Hornacek, Tim Perry e Andrei Lang. Era il 17 giugno.

Phoenix in quel preciso momento divenne una squadra da titolo. Colui che al tempo era univocamente considerato il secondo miglior giocatore della NBA, andava letteralmente a stravolgere i valori della lega. I bicampioni in carica dei Bulls erano avvisati.

Barkley ai Suns sembrò ringiovanito di diversi anni.
Portò a termine una stagione spettacolare segnando 25.6 punti a partita e catturando 12.2 rimbalzi, ma soprattutto trascinando Phoenix al primo posto nella lega con 62 vittorie e 20 sconfitte. A fine anno vinse il suo primo e unico titolo di MVP di Regular Season, di misura su Michael Jordan. Era il terzo giocatore della storia a vincere l’MVP, subito dopo essere stato tradato.

Nei playoffs fu ancora più devastante.
In gara 7 di finale di Conference contro Seattle, si caricò letteralmente la squadra sulle spalle, realizzando 44 punti e tirando giù 24 rimbalzi, di cui 10 offensivi. Medie che dalle parti del pianeta NBA non si registravano dai tempi di Wilt Chamberlain e che travolsero letteralmente la giovane e promettente ala di Seattle, il ventitreenne Shawn Kemp.

mjbatrk574Chuck trascinò i Suns a sfidare i Bulls in finale. A sfidare Michael Jordan, suo grande amico ed avversario.

Fu una serie memorabile.
Jordan disputò probabilmente quella che è la miglior prestazione di un singolo giocatore in una serie finale nella storia della NBA, ma Barkley non fu quasi da meno.

In gara 2 mise 42 punti, in gara 3 ne mise 24 più 19 rimbalzi. In gara 5, sotto per tre partite a uno, condusse i suoi a una insperata vittoria in trasferta che improvvisamente spostò l’ago della bilancia dalla parte dei Suns.

Ora Phoenix aveva due gare casalinghe per ribaltare il risultato nella serie e vincere l’anello, tanto più che i Bulls che erano partiti a mille sin da gara 1, apparvero d’un tratto stanchi e quasi impauriti dalla rimonta avversaria. Ma dall’altro lato c’era una squadra e in particolare un giocatore che non conosceva il significato della parola sconfitta.

I Bulls vinsero di un punto gara 6 grazie al famoso canestro dalla distanza di Paxson e conquistarono la loro prima tripletta.

Per Charles tuttavia l’appuntamento con l’anello sembrava essere solo rimandato. In molti pensavano fosse ormai questione di tempo. Alla sue prima finale aveva giocato splendidamente. Avrebbe sicuramente avuto altre occasioni.
Opinione resa ancora più credibile dal fatto che, di lì a qualche settimana, Jordan annunciò al mondo intero, basito e costernato, il ritiro dall’attività agonistica.

I Suns si ritrovarono a vivere da favoriti assoluti la stagione 1993-94. Ma Barkley proprio a partire da quell’anno fece conoscenza con un vecchio e temuto nemico. Gli infortuni. Che non lo molleranno più fino all’inevitabile ritiro.

Phoenix chiuse la Regular Season con 56 vittorie, 26 sconfitte e il terzo posto a ovest. In post-season, gli avversari del primo turno erano i Golden State Warriors, reduci da una stagione da 50 vittorie e guidati da Mullin, Sprewell e del rookie Chirs Webber, ex Fab Five ai tempi di Michigan, di cui si diceva gran bene.

Contro il giovane e quotato avversario, Barkley mise 36 punti e prese 19 rimbalzi in gara 1.
In gara 3 di punti ne mise 27. In un quarto. Quelli totali furono 56, conditi da 14 rimbalzi, per la terza miglior prestazione realizzativa di sempre in una partita di playoffs. Davanti a lui c’erano solo i 63 di Jordan contro i Celtics e i 61 di Baylor contro i Lakers.

Ovviamente fu sweep.
La corsa dei Suns si arrestò però alla settima partita della semifinale di Conference contro i futuri campioni di Houston, dopo essere stati in vantaggio per 2 a 0 nella serie.

Stessa identica sorte l’anno dopo.
Ancora gli infortuni resero un calvario la stagione del numero 34. Charles saltò le prime 14 patite di season, ma quando tornò, trascinò Phoenix al comando della Pacific Division con 59 vittorie.

Al primo turno dei PO demolì i Trail Blazers con 34 punti e oltre 14 rimbalzi di media.
In semifinale di Conference si ritrovò davanti nuovamente i Rockets, in procinto di riscrivere la storia dei playoffs.
I Suns si portarono sul 2 a 0 e quindi sul 3 a 1. Sembrava una serie chiusa, ma Houston vinse le successive due gare.

Poi di nuovo una sanguinosa gara 7 cui Barkley si presentò infortunato. Scese ugualmente in campo, realizzò 18 punti, catturò 23 rimbalzi, smazzò 5 assist, ma perse anche 7 palloni. I Rockets vinsero di uno per 115 a 114 e, trascinati da un’incredibile Olajuwon e da un ringiovanito Drexler, volarono verso il secondo anello consecutivo.

L’anno dopo fu l’ultimo di Barkley in Arizona.
Chiuse la sua avventura in maglia Suns con 23.2 punti, 11.6 rimbalzi a partita e la sconfitta in post-season contro gli Spurs.

“Se non puoi batterli, fatteli amici!”
Con queste parole Charles annunciò il suo trasferimento in Texas, ad Houston. Andò a raggiungere Hakeem Olajuwon e Clyde Drexler in quello che a tutti gli effetti era un vero e proprio Dream Team.

L’anello, anche per lui come per tanti altri giocatori del passato e del presente, stava diventando un incubo. Una fissazione. Un obbiettivo da raggiungere a tutti i costi.

Ma Michael Jordan era già da un anno tornato ai suoi Bulls. Per vincere ancora. E ancora.
E per Barkley il titolo rimarrà per sempre una chimera.

bRKROK686Alla sua seconda partita in maglia Rockets, il 2 Novembre del 1996, proprio contro gli ex compagni dei Suns, tirò giù 33 rimbalzi contro i 30 complessivi di tutta Phoenix, divenendo il quattordicesimo giocatore nella storia a raggiungere un simile score. Da allora, nonostante siano passati vent’anni, mai più nessuno ne ha presi così tanti in una singola partita.

Gli infortuni però continuavano a non dargli tregua.
Al suo primo anno in Texas giocò appena 53 partite, mettendo a referto poco più di 19 punti e 13 rimbalzi di media. La corsa di Houston si arrestò nella finale della Western Conference contro Utah.

L’anno successivo, l’ultimo di Drexler, i Rockets erano ormai una squadra vecchia e logora negli uomini migliori. Al primo turno di post-season, sempre contro Utah, uscirono definitivamente di scena.

Durante quei playoffs si concluse vittoriosamente l’epopea dei Bulls e subito dopo a Houston approdò Pippen, fresco campione NBA.

Via Drexler, dentro Scottie. I Rockets continuavano ad essere un Dream Team. Ma solo nei nomi. Tanto più che per Charles gli infortuni ormai erano le regola. Nel 1998-99 giocò appena 41 partite. L’anno dopo solo 20, poi disse basta.

L’8 dicembre contro la sua prima squadra, i Sixers, si ruppe i tendini del quadricipite della gamba sinistra.
Fu la sua ultima partita NBA. Alla fine di quell’anno annunciò il ritiro.

Mai più rimbalzi per lui, mai più sonore schiacciate, mai più canestri all’ultimo secondo, mai più infiammati finali di partita, mai più terribili sconfitte. Ma ancora pungenti battute, tagliente sarcasmo, a volte persino dolcissima ironia. Ancora quella lingua che, neanche da spettatore, voleva e vuole mai tacere.

Al momento dell’addio Sir Charles era uno dei quattro giocatori nella storia, assieme a Jabbar, Chamberlain e Karl Malone, ad aver accumulato almeno 20.000 punti, 10.000 rimbalzi e 4.000 assist in carriera. Più in là si aggiungeranno al ristretto gruppo anche Tim Duncan e Kevin Garnett.

Tuttavia per Barkley questo traguardo sarà raggiunto con quasi cinquecento partite in meno di Jabbar, quattrocento in meno di Garnett e Malone, trecento in meno di Duncan e più o meno le stesse di Chamberlain.

Eppure i numeri, i record, persino le sue giocate migliori non sono sufficienti a spiegare la carriera di una delle più grandi e affascinanti anomalie nella storia del basket americano, la prima ala forte capace di scalzare l’immenso Bob Pettit dal trono di migliore Power Forward di sempre, colui che per primo, a partire dal 1984, ha rivoluzionato il ruolo e segnato la via per le generazioni future, così come il decennio più luminoso che forse l’NBA abbia mai vissuto.

E per una volta, lasciatemelo dire, al diavolo l’anello.

 

5 thoughts on “20 – Charles Barkley

  1. Lo sapevo che non poteva mancare Barkley in una qualsiasi classifica che si rispetti. Grande articolo oltretutto.
    Le parole di Walton: “a dominant defensive player”, alla faccia di chi lo paragona a Nowitzxki nela propria metà campo.

    • Se è per questo lo definisce anche un tiratore da 3, ma la media parla di 26,6%.(mentre DN è a 38,1% giusto per..) Detto ciò, ripeto, a me C.B.piaceva molto come giocatore e mi è dispiaciuto che non abbia vinto l’anello, anello che invece Dirk si è messo al dito….

  2. Grande pezzo ma devo correggere una cosa
    ” L’8 dicembre contro la sua prima squadra, i Sixers, si ruppe i tendini del quadricipite della gamba sinistra. Fu la sua ultima partita NBA. Alla fine di quell’anno annunciò il ritiro.”
    Non proprio, ritornò per l’ultima gara il 19 aprile del 2000 contro i Grizzlies, allora ancora a Vancouver

  3. Però Jordan è nato a Febbraio, mica a Dicembre.

    Puoi correggere con: Nato il 20 Dicembre, 4 giorni dopo il compleanno di Bobo Merenda, allenatore di tchoukball

  4. Ma barkley è nato davvero tre giorni dopo MJ. Uno il 17 e l’altro il 20 febbraio.

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