Esiste un solo giocatore nella storia della pallacanestro ad essere stato top scorer NCAA, NBA e ABA.
Questo giocatore è Richard Dennis Francis Barry III. Per tutti semplicemente Rick.
Se facciamo una lista dei più grandi potenziali offensivi che abbiano mai calcato i campi di basket, accanto ai nomi dei vari Baylor, Chamberlain, Jordan, Bryant figura senza ombra di dubbio anche quello di Barry. Talento sconfinato e tempestoso.
Ha segnato oltre 25.000 punti in carriera, in quattro stagioni ha realizzato oltre 30 punti a partita, deteneva ed ha detenuto per anni il record per la media punti più alta realizzata in una serie finale. Ha giocato 12 All Star Game. Per cinque volte è stato primo quintetto NBA, per quattro volte primo quintetto ABA.
Numeri. Ma Rick Barry è stato molto più di questo.
Un potenziale offensivo inimmaginabile, un talento di livello assoluto, un eccellente ruba-palloni, il miglior tiratore di liberi della storia, un passatore sopraffino, ma nel contempo un carattere difficile, un’arroganza ed una presunzione eccessiva, scelte professionali discutibili, un modo di comportarsi talvolta ambiguo, talvolta cinico, che lo hanno portato ad essere inviso a molti suoi colleghi, alla stampa, alla NBA stessa.
Una carriera strana la sua, ricchissima di eventi, di successi (considerando anche l’ABA), di record personali, ma anche di contraddizioni, di querelle legali, di scontri, di addii.
Situazioni che lo hanno portato ad avere riconoscimenti minori di quanto il suo immenso talento avrebbe meritato. Situazioni che dopo il ritiro hanno fatto cadere Rick nel dimenticatoio, lontano dal fastoso mondo della pallacanestro a stelle e strisce. Situazioni infine che portarono lo stesso Barry ad ammettere: “Non sono mai stato una persona facile con cui trattare. Non ho mai avuto molto tatto e diplomazia!”
Rick Barry nacque a Elisabeth, New Jersey, nel 1944, figlio dell’allenatore della squadra locale. Scelse per college la University of Miami sotto la guida di Bruce Hale, dove nel suo anno da senor, realizzò 37.4 punti per gara, miglior realizzatore NCAA.
Fu scelto al primo giro del draft del 1965 con la quarta chiamata assoluta dai San Francisco Warriors che avevano appena perso il colosso Wilt Chamberlain, ceduto a malincuore a Philadelphia per far fronte ai problemi economici della franchigia.
Il gioco dei Warriors avrebbe dovuto ruotare attorno a Nate Thurmond, ala/centro di 2 metri e 10 da oltre 16 punti e 18 rimbalzi a partita, ma il giovane Barry conquistò subito il ruolo di primo violino della squadra, prendendone le redini e imponendosi all’attenzione di tutta la NBA.
Nel suo anno da rookie segnò 25.7 punti per gara (quarto nella lega, preceduto solo dalle icone Chamberlain, West e Robertson), tirò giù 10.2 rimbalzi, fu convocato all’All Star Game, vinse il titolo di matricola dell’anno e finì nel primo quintetto della lega.
Dopo lo sfavillante primo anno, Barry era considerato l’astro nascente della lega, uno dei talenti più limpidi e cristallini dell’Olimpo cestistico. Il secondo anno fu quello della consacrazione assoluta.
I Warriors esordirono il 15 ottobre al Boston Garden contro gli imbattibili Celtics che venivano da 8 titoli consecutivi. Persero la partita ma Barry mise 41 punti in faccia ad Havlicek. Alla seconda gara di stagione ne mise 32, poi 43, quindi rispettivamente 37 e 36 nel back to back contro i Pistons.
Si dovette attendere la sesta partita per vederlo scendere sotto la soglia dei 30 punti, quando contro i Baltimore Bullets ne mise appena 28. Ma nella gara successiva, contro i Royals di Cincinnati, fra le cui file militava tale Oscar Robertson, riprese il discorso lasciato in sospeso, realizzando 57 punti.
Alla fine chiuse la stagione con la media di 35.6 punti a partita togliendo dopo 7 stagioni consecutive la palma di miglior realizzatore della lega nientemeno che a Wilt Chamberlain.
Nella storia della NBA solo 3 giocatori hanno avuto una media realizzativa più alta in stagione. Chamberlain e Baylor prima di lui e Jordan quasi un quarto di secolo più tardi.
Il 6 dicembre contro i Knicks realizzò il record per più tiri liberi messi in un quarto di gioco. Quattordici. Fu convocato al secondo All Star Game. Realizzò 38 punti, oscurando tutte le altre stelle nella partita. Fu nominato MVP della gara.
Nei playoffs il secondo anno Barry trascinò i suoi Warriors di peso alla finale contro i terribili Philadelphia Sixers del grande ex Chamberlain, la squadra che nel 1981 è stata votata da un equipe di esperti come la più forte di sempre.
Barry non si presentò all’appuntamento decisivo della stagione in perfette condizioni fisiche, ma in gara uno realizzò 37 punti. A pochi secondi dalla fine smazzò a Thurmond il facile pallone della vittoria, provvidenziale arrivò la stoppata di Chamberlain che mandò il match all’overtime in cui i Sixers riuscirono ad imporsi.
Philly replicò la vittoria in gara due, ma la serie non era affatto chiusa. Nella terza partita Barry realizzò 55 punti che schiantarono i Sixers.
La quarta gara fu ad appannaggio di Philly che andò ad espugnare la Bay Arena nonostante i 43 punti di Rick, ma fu nella quinta che il suo show personale raggiunse l’apice. Ventisei punti nel primo tempo e partita archiviata. Quarantasei complessivi per lui a fine gara.
Nella decisiva gara 6 a San Francisco, Barry realizzò altri 44 punti. I Warriors persero di tre (125-122) la partita e la serie, ma Rick aveva appena stabilito un record che sarebbe stato battuto solo ventisei anni dopo da Michael Jordan. La media punti più alta in una serie finale: 40.8 a partita.
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Era appena al suo secondo anno nella lega e il suo impatto era stato da brividi.
Si favoleggiava su quello che potesse essere il futuro del ragazzo, un futuro in cui niente era precluso, né vittorie, né record, affermazioni personali o di squadra.
Il suo limite era il cielo. Tanto più che Rick, nonostante le caterve di punti, era un giocatore completo, aveva un’ottima visione di gioco ed un istinto per il passaggio come poche volte si era visto in un’ala.
Tempo dopo Bill Sharman suo allenatore a San Francisco dirà di lui: “Rick è alto 2.01, estremamente veloce e ha il cervello che corre fortissimo. E’ stato una delle più grandi ali passatrici della storia.”
Forse la migliore, dopo Larry Bird.
Tutto molto bello. Troppo per essere vero.
A breve il mondo si sarebbe accorto che la carriera per il nuovo profeta della lega non sarebbe stata tutta rosa e fiori. E Rick il grandissimo sarebbe presto diventato Rick l’arrogante, Rick il viziato.
Quell’estate infatti nacque l’American Basketball Association, meglio conosciuta come ABA.
Una franchigia fu fondata ad Oakland, dall’altro lato della baia dove viveva e giocava il giovane Rick.
Pat Boone, il proprietario della franchigia, provò a convincere Barry a lasciare i Warriors e la NBA per gli Oaks e l’ABA. Sarebbe stato un colpo tremendo per la neonata lega.
Il contratto di Barry era in scadenza, ma all’epoca esisteva la “Reverse Clause”, una clausola che vincolava un giocatore alla propria squadra ancora per un anno dopo la scadenza del contratto.
Boone era convinto che un tribunale ordinario avrebbe sicuramente invalidato la clausola così gli Oaks offrirono a Barry 75.000 dollari più il 15% della franchigia.
Se questo non fosse bastato, Boone completò l’opera assumendo come allenatore degli Oaks quel Bruce Hale che era stato coach di Rick al college e di cui il giocatore aveva sposato la figlia. Per Barry, Hale era un secondo padre e non seppe resistere al richiamo di giocare per lui. Accettò.
San Francisco provò a pareggiare l’offerta, ma Barry ormai aveva preso la sua decisione.
I Warriors e la NBA non la presero affatto bene. Trascinarono il giocatore in tribunale e, contrariamente alle previsioni di Boone, il tribunale ordinario obbligò Barry a rispettare la “Riverse Clause”.
Una mazzata tremenda per il giocatore, i cui rapporti con la sua ex squadra e col suo coach Sharman erano ormai irrimediabilmente compromessi. In più Barry si ritrovava ad essere comproprietario degli Oaks.
Alla fine la sua scelta fu stupefacente. Rimase un anno fermo piuttosto che tornare nella NBA.
Dopo una stagione da 35.6 punti a partita, dopo una finale da oltre 40 punti di media, dopo aver illuminato con la sua classe i parquet di mezza America, Barry all’età di 23 anni decise di sua spontanea volontà di rimanere un anno senza giocare. L’opinione pubblica americana insorse.
Libero da clausole, Rick tornò a giocare nel 1968-69. Nell’ABA.
Nonostante un infortunio limitò fortemente la sua presenza in campo, realizzò 34 punti e catturò 9 rimbalzi a partita. Portò gli Oaks a vincere il titolo.
Sembrava aver ripreso in mano le redini della propria sfavillante carriera. Sembrava.
Poche settimane dopo il titolo, la squadra fu venduta e spostata a Washington. Barry non ci stava a lasciare la baia californiana.
In una celebre intervista al Los Angeles Time dichiarò: “Se avessi voluto andare a Washington mi sarei candidato per la presidenza degli Stati Uniti!”
Così Rick decise di riprovare a tornare nella NBA, ai suoi ex Warriors. Firmò un contratto di cinque anni per un milione di dollari complessivi. Ma ancora una volta finì in tribunale. Stavolta fu l’ABA a portarlo.
Ancora una volta il tribunale diede torto al giocatore e lo obbligò ad andare a giocare a Washington fino alla scadenza del contratto, vale a dire per i successivi tre anni. Solo alla scadenza dei tre anni, il contratto coi Warriors avrebbe avuto valore.
A Washington uno scontento Barry realizzò 27 punti a partita, ma i Capitols furono eliminati nei PO.
Poi ancora una svolta. La squadra fu trasferita in Virginia. Sarebbero divenuti gli Squires (quella che sarebbe stata anche la prima squadra dell’immenso Julius Ervig).
Rick era furibondo. Rilasciò un’intervista in cui attaccò senza motivo tutto lo stato della Virginia, solo perché la squadra lo rilasciasse e potesse tornare nella sua San Francisco. Ma per l’ABA Barry era una gallina dalle uova d’oro.
La dirigenza della Lega tentò di trovare un compromesso fra il giocatore e la dirigenza degli Squires.
Dopo alcuni concitatissimi giorni, Barry fu trasferito a New York. Ai Nets.
Rick trascorse i successivi due anni nella Grande Mela, realizzando rispettivamente 29.4 e 31.5 punti a partita e aumentando notevolmente la sua media assist.
Vinse un altro titolo ABA, fu miglior realizzatore della lega e costantemente convocato all’All Star Game, oltre che primo quintetto in ogni sua stagione.
Al termine della stagione 1971-72, col contratto in scadenza, Barry scoprì di essersi profondamente innamorato di New York.
Gli giungeva improvvisamente difficile lasciare la metropoli. I Nets lo capirono e tentarono di rinnovargli il contratto, pur consapevoli che Rick ne aveva già un altro coi Warriors, divenuto valido nel momento in cui gli era scaduto quello coi Nets.
Barry vacillò. Ma la prospettiva di essere nuovamente portato in tribunale, gli fece propendere per il lasciar perdere New York e l’ABA. Tornò dunque in NBA. Ai suoi Warriors, che nel frattempo erano diventati Golden State. Vi rimase per i successivi sei anni.
Al suo ritorno, Barry aveva alle spalle 7 anni da professionista. Sei giocati, uno fermo. Due leghe, tre squadre e quattro città differenti.
Era tuttavia un giocatore diverso quello che esordì nei Golden State Warriors in quella che può essere definita la seconda parte della sua carriera. Più forte fisicamente, più muscoloso, più attento alle esigenze delle squadre, meno accentratore.
Nella stagione 1972-73 realizzò 22.3 punti a partita. L’anno successivo ne mise 25.1.
Il 26 marzo 1974 contro Portland realizzò 64 punti, suo record personale. Fino ad allora solo due giocatori avevano valicato la soglia dei 63 punti. Chamberlain 15 volte e Baylor due.
L’anno dopo Rick disputò la migliore stagione della sua carriera in NBA.
Segnò 30,6 punti, raccolse 5,7 rimbalzi e smazzò 6.2 assist a partita. Guidò la lega nei recuperi (2.33) e nella percentuale ai tiri liberi, cosa che per lui era comunque la norma.
Avrebbe strameritato il titolo di MVP di stagione, ma aveva un passato troppo compromesso dai suoi trascorsi e la NBA preferì premiare Bob McAdoo.
“That’s all politic”, il commento di Barry che era finito addirittura terzo nelle votazioni. Tuttora il nostro è ricordato come il miglior giocatore di sempre insieme a Elgin Baylor a non aver mai vinto un titolo di MVP di Regular Season.
Rick si prese la rivincita nei playoffs.
I Warriors nella off-season precedente avevano ceduto la bandiera Thurmond in cambio di Clifford Ray, un centro dal talento limitato ma dalla grande applicazione difensiva.
Ray fu fondamentale per gli equilibri dei Warriors. Il resto lo fece Barry. Trascinò la squadra in finale ad affrontare i Balimore Bullets.
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I Bullets erano ampiamente favoriti. Avevano Elvin Hayes al suo massimo splendore e Wes Unseld sotto canestro, mentre Golden State, a parte Barry e il rookie Jamal Wilkes, aveva una squadra di onesti mestieranti, tutto sudore e sacrificio.
Barry segnò 36 e 38 punti in gara 3 e gara 4. I Warriors sweeparono i Bullets e vinsero una serie in cui erano nettamente sfavoriti con una facilità irrisoria. Trascinati dal favoloso, odiato, inviso Rick Barry.
Stavolta però nessuno poté negargli il trofeo di miglior giocatore delle finali.
The greatest upset in the history of NBA finals fu ribattezzata quella serie.
Barry non ebbe la possibilità di difendere il titolo, perché l’anno dopo Golden State, nonostante le 59 vittorie in stagione regolare, non raggiunse la finale, eliminata nell’ultimo atto della Western Conference dai Suns.
Rick giocò altri due anni in California, poi chiuse la carriera a Houston, dove disputò due stagioni in una squadra tutta incentrata su Moses Malone.
Al suo primo anno in Texas su 169 liberi tirati in stagione, sempre col suo inconfondibile stile vecchia maniera a due mani dal basso verso l’alto, ne sbagliò solo 9. L’anno dopo appena 10.
Si ritirò alla fine della stagione 1979/80.
Pochi riconoscimenti per lui nel momento dell’addio. L’etichetta che si era costruito e si portava dietro dai suoi primi anni di carriera non l’aveva ancora abbandonato.
Indipendentemente dai suoi trascorsi, dal carattere difficile, dalla sua famigerata arroganza, Barry tuttavia va considerato comunque di diritto uno dei più grandi giocatori della storia. E molto spesso, purtroppo, uno dei più sottovalutati.
A metà anni ’70 era considerato insieme al predecessore Baylor, ad Havlicek e al giovane Julius Erving la migliore ala di sempre.
Il ventiquattresimo posto in classifica è suo di diritto, con il rimpianto che con una gestione più oculata della carriera, senza rimanere un anno fermo, senza la parentesi dell’ABA, Barry sarebbe tranquillamente rientrato fra i primi venti giocatori della storia.
https://www.youtube.com/watch?v=YLGAaTinDq8
Ha esordito su Play.it nel 2004 con la rubrica “NBA Legendary Games”. Dopo una trentina di pezzi ha lasciato perdere le partite per dedicarsi alla nuova rubrica “25 Legendary Players”. Ha mollato anche questa sul più bello per mettersi a scrivere romanzi noir. Il successo, probabilmente vittima di paresi, gli ha arriso e sorriso.
Una domanda: sia in Barry che in Ervng le stagioni ABA non vengono considerate?