Larry Bird e Danny Ainge dicevano che avevano più paura d’affrontare lui che Michael Jordan. Charles Barkley l’ha definito il Sixer più forte con il quale abbia mai giocato (una compagnia che include Julius Erving e Moses Malone), eppure nessuno si ricorda di Andrew Toney.
Sui rafter del Wells Fargo Center il suo nome e il suo numero mancano, e scorrendo la lista dei 50 più grandi giocatori di sempre, il suo nome non si trova.
Toney è uno dei segreti meglio custoditi della NBA, eppure, negli anni ’80, tutti avevano imparato a conoscerlo e a temerlo. Era “Lo Strangolatore di Boston”, soprannome sinistro (era il nome di un serial killer degli anni sessanta) affibbiatogli dopo l’ennesima prestazione stellare contro i Celtics.
Prima di lui, lo “Strangolatore” era Llyod Free, ma venne obliato dalle prove che Toney infilava a ripetizione contro quei Celtics che sarebbero passati alla storia come una delle formazioni più forti di sempre.
Tali e tante erano le imprese di Toney contro i biancoverdi da spingerli ad acquisire Dennis Johnson apposta per limitarlo (riuscendoci in modo alterno).
Malone e Erving guadagnavano i titoli dei giornali, ma era spesso Toney a fare saltare il banco con tiro e tecnica, alle quali univa una forza fisica non comune per una guardia che non raggiungeva i due metri: “Lui e Moses (Malone) erano gli unici a potermi portare in post” racconta Sir Charles.
Cresciuto a Birmingham, nell’Alabama messa a ferro e fuoco dagli scontri raziali degli anni sessanta, Andrew è sempre stato un giocatore sottovalutato. Non era spettacolare e non aveva l’allure della stella.
Venne reclutato da Louisiana at Lafayette (che allora si chiamava University of Southwestern Louisiana) e scelto all’ottava chiamata del draft del 1980 da parte di Philadelphia senza essere considerato nulla più che una guardia promettente, dal cospicuo bagaglio tecnico ma non tremendamente atletica.
Aveva un tiro brutto da vedere ma cesellato al punto da essere automatico. La palla partiva dinnanzi alla sua fronte (anziché sopra), e quando coach Cunningham propose di rivedere la sua meccanica, Andrew rispose che “il mio tiro l’ho imparato nel cortile della scuola e potete dire ciò che volete, ma non lo cambierò. La palla entra, o sbaglio?“.
I Sixers divisero i minuti da guarda tra lui e Clint Richardson, un affidabile secondo anno che si sarebbe tramutato nel suo back-up, mentre Toney divenne il leader offensivo che Philadelphia sognava quando lo scelse; un killer, capace di rimanere calmo sotto pressione e di mettere fine al dominio Celtics nella rivalità più accesa della Eastern Conference.
Doctor J lo prese sotto alla sua ala protettiva, insegnandogli tutto ciò che c’era da sapere sulla vita del giocatore NBA. Un tipo di classe lo definì Andrew.
Erving era l’esatto opposto di Toney: stella amatissima prima in ABA e poi nella NBA, il dottore è stato il prototipo delle superstar odierne. Non era noto per la cattiveria agonistica e nemmeno per la difesa, ma aveva un enorme pregio: era spettacolare e iconico, e questo contribuì a renderlo una leggenda forse anche oltre i suoi meriti strettamente cestistici.
Per essere un’ala piccola, disponeva di grande tecnica negli ultimi quattro o cinque metri, ma da sei metri in poi il suo gioco era virtualmente inesistente. Tuttavia l’aria gioviale, un certo carisma, la capacità di rendersi benvoluto, hanno fatto di lui un giocatore universalmente riconosciuto e stimato.
Andrew, al contrario, era un ragazzo dell’Alabama riservato, silenzioso e decisamente poco gioviale, al quale non si poteva strappare una battuta brillante nemmeno sotto tortura.
Toney veniva da quattro anni di college nei quali aveva tirato con il 52% dal campo (nell’ultimo anno tenne il 56%) segnando 23.6 punti di media in carriera con i Rajin’ Cajun.
Con i Sixers iniziò un apprendistato durante il quale usciva dalla panchina, sostituendo Cheeks, Doug Collins (che di lì a qualche mese si sarebbe ritirato) o Hollins. Cunningham voleva avere a disposizione un esterno che, uscendo dalla panchina, fosse in grado di seppellire i Celtics sotto ai propri tiri.
In breve, Toney mantenne tutte le premesse, e anzi le superò; non incantava nessuno per i suoi salti, è vero, ma quello che non si poteva vedere, dall’esterno, era la sua forza paurosa: era capace di portare in post basso qualunque marcatore, per quanto alto e potente, e giocare da autentico professore del basket spalle a canestro.
Aveva un set infinito di finte e controfinte, sapeva palleggiare benissimo con entrambe le mani, e con i suoi piedi da ballerino era capace di mandare fuori equilibrio qualsiasi difensore; soprattutto, Toney era un giocatore competitivo.
Quando si alzava la posta in palio, giocava meglio, e come disse (forse esagerando?) Pat Riley “Andrew Toney è il miglior clutch player che abbia mai visto, altro che Jerry West!”.
Ecco perché Andrew Toney levava il sonno a Danny Ainge più di quanto non lo facesse Michael Jordan, che, certo, poteva regalarti una sgradita comparsata in uno dei suoi poster, ma sembrava allergico al gioco di squadra.
Bird non aveva problemi a dire “abbiamo visto Dio giocare travestito da Michael Jordan”, perchè, in fondo, quella serie l’avevano vinta i Celtics tre a zero. Con Toney le cose andavano diversamente.
Il temperamento competitivo era lo stesso di Air Jordan, ma Andrew era un giocatore di squadra fatto e finito, e i suoi compagni erano i Sixers che sarebbero diventati Campioni NBA nel 1983, quelli del leggendario “four four four” di Moses Malone.
Nei suoi primi cinque anni di NBA, Andrew migliorò costantemente. Arrivò il titolo, due apparizioni all’All Star Game, il tutto giocando con due Hall of Famers come Moses e Julius, oltre a Maurice Cheeks e Bobby Jones.
Toney ha legato il suo nome ai Boston Celtics e al Boston Garden, dove, sotto i fischi assordanti degli irlandesi del Massachusetts, dava il meglio del suo repertorio, fatto di tiri fantastici, giocate di tecnica ma soprattutto di una capacità innata nello scegliere il momento più doloroso per infliggere la pugnalata; è il talento dei veri fuoriclasse, una dote innata per la teatralità che non si può apprendere ma solo ammirare.
Toney sapeva prendersi il proscenio come pochi, e si scelse, come vittima prediletta, una delle squadre più toste di tutti i tempi: i Celtics di Bird, Parish e McHale.
Larry Legend disse di lui “Mi sarebbe piaciuto averlo in squadra, era un assassino. Lo chiamavamo Lo Strangolatore di Boston perché ogni volta che riceveva sapevamo che avrebbe segnato. È senza dubbio il migliore che abbia mai visto nel prendersi un tiro nei momenti cruciali di una partita, non avevamo nessuno in squadra che fosse in grado di fermarlo, nessuno”.
La sua prima sfida contro i Celtics risale ai Playoff del 1981, quando aprì le danze in Gara 1 segnandone 26, facendone seguire 35 in Gara 2, entrambe disputate in casa dei biancoverdi, ça va sans dire.
Secondo Cunningham “Andrew vuole prendersi il tiro indipendentemente dalla situazione, non ha paura di essere l’eroe o il capro espiatorio, è questo che amo di lui”. I Celtics avevano provato ad usare tutti i soliti mezzucci, inclusi Havlicek, Nelson, Jones, Russell e Sanders vestiti con delle lenzuola a fare i “fantasmi dei Celtics passati”.
“Pensavo fosse il KKK“, disse Julius Erving. Toney non disse nulla e chiuse la serie più importante del suo anno da rookie con venti punti di media.
I Sixers persero quella serie solamente in Gara 7, contro una formazione destinata a diventare Campione NBA. Toney giocò male sia la sesta che la settima partita della serie, e Philly, che era stata avanti 3-1, scoprì di non poter andare lontano senza Andrew.
Un anno più tardi, di nuovo in Gara 7, di nuovo dopo aver dilapidato un vantaggio di 3-1 (mentre la stampa massacrava Philadelphia per essere una squadra di giocatori incapaci di giocare da stelle nei momenti cruciali), i Sixers vennero salvati da Toney, che ne segnò 34 fuori casa, eliminando Boston e issando i suoi alle Finali che avrebbero incoronato i Lakers di Magic. Era l’anno di “Have no fear Magic is Here”.
Quell’estate, mentre a Philadelphia sbarcava Moses Malone, Toney andò a rifugiarsi in Mississippi per lavorare sul suo gioco.
Si applicò così tanto che in seguito Sports Illustrated scrisse “Philadelphia quest’anno sarebbe migliorata anche senza aggiungere Malone, se non altro per la crescita del terzo anno Andrew Toney, passato dall’essere solo un grande tiratore ad essere un giocatore completo“.
Nel 1983 i 76ers batterono i Milwaukee Bucks e tornarono in Finale, questa volta battendo 4-0 Los Angeles, perdendo una sola partita in tutti i Playoffs.
Toney chiuse la serie con 22 di media, ma non fu nominato MVP. Nessuno si aspettava che lo fosse, in una squadra colma di grandi nomi, ma tutti sapevano che se si voleva battere Philadelphia, occorreva porre un argine al gioco di Andrew.
Più facile a dirsi che a farsi: Toney riceveva in ala, e, sotto i fischi di paura del pubblico ostile, bruciava i difensori con il suo primo passo, o se li portava in post basso rinculando poderosamente, per poi disporre a piacimento di giocatori meno alti o meno forti di lui.
I Celtics ricorsero al mercato per dotarsi di un defensive-stopper con le caratteristiche giuste per prendergli le misure, e lo identificarono in Dennis Johnson. Nemmeno a dirlo, Toney continuò ad abusare della difesa di Boston come se nulla fosse cambiato.
Quando firmò con i biancoverdi, Danny Ainge si sentì raccontare storie di ogni tipo sullo strangolatore di Boston. Tutti avevano da dire la loro su come marcarlo, ma nessuno c’era mai riuscito veramente. “Era il migliore nell’esporre i difetti di un difensore” disse M.L. Carr.
Proprio Carr ci aveva provato con l’intimidazione, dandogli una bella sbracciata in piena faccia; per tutta risposta Toney lo guardò come se gli avesse dato la sveglia e cominciò a giocare da uomo in missione.
“Bill Fitch mi diceva – sii fisico, mettigli le mani addosso, trattienilo. Ho imparato dalla mia esperienza che il modo giusto di marcarlo era esattamente l’opposto. Era meglio lasciarlo andare dove voleva, e sperare che si annoiasse, perché ogni volta che era sfidato fisicamente o psicologicamente, lui rispondeva”.
Secondo il 22 dei 76ers “Non so perché, ma per me segnare al Boston Garden è sempre stato facile. Erano gli inservienti di quel palazzetto a farmi salire di livello, con le loro provocazioni. Fossero stati zitti, forse non avrei giocato così bene”.
A fermarlo non furono gli avversari, ma gli infortuni. Durante il suo quinto anno da professionista, sviluppò delle fratture da stress a entrambi i piedi, che per giunta non furono diagnosticate correttamente dallo staff medico dei Sixiers, inducendo il proprietario della squadra, Harold Katz, a concludere che Toney stesse cercando di “preservarsi” per lucrare un contratto più remunerativo.
Il diverbio tra Toney e la società divenne vieppiù profondo, e, quando Katz chiese che l’NBA testasse Toney per l’uso di droghe, il rapporto oltrepassò il punto di non ritorno.
Andrew si sentiva sfidato, proprio come avveniva in campo, solo che a queste provocazioni non poteva rispondere abusando dell’avversario. Nella diatriba dialettica con la proprietà, Toney era un pesce fuor d’acqua; sapeva di avere un problema, perché ogni volta che scendeva in campo i suoi piedi erano attraversati da fitte che gli impedivano d’essere il fuoriclasse che era sempre stato, ma la proprietà lo accusava apertamente d’essere un bugiardo, ferendolo nell’orgoglio.
Gli chiedevano di giocare, lui rispondeva di non poterlo fare e Katz reagiva minacciando di multarlo se non si fosse messo a disposizione.
Lui, che a venticinque anni aveva giocato trenta minuti per gara nei Playoffs, segnando 18 punti di media e dando un contributo enorme alla conquista del Titolo NBA, si sentiva accusare dalla squadra di essere un fannullone, uno disposto a insultare il gioco per guadagnare di più.
Quel titolo era lontano solo pochi anni, quando Andrew si rassegnò all’inevitabilità del proprio declino, ritirandosi nel 1989, a trent’anni, dopo otto stagioni da professionista. Nell’88 aveva disputato solo 25 partite, ed era stato l’ombra di se stesso.
“La città si divise riguardo quanto capitò ad Andrew” ricorda Cunningham. Bill Walton, la cui carriera fu martoriata da infortuni ai piedi, giunse in soccorso di Toney, mentre le radio locali non parlavano d’altro, dividendosi in due fazioni opposte.
Alcuni sostenevano il giocatore che aveva sempre dato il massimo per Philadelphia, altri si chiedevano perché negli esami medici non ci fosse traccia degli infortuni lamentati dalla guardia numero 22.
Toney arrivò al punto di convincersi (dato che non c’era nessun danno apparente) di poter giocare sopra al fastidio delle fratture, peggiorando ulteriormente la situazione.
Nel 1987 venne messo alla porta, invitato a non presentarsi agli allenamenti o alle partite in quanto “cattiva influenza sulla squadra”, un po’ come Stephon Marbury, insomma (!).
La guerra di parole tra Katz e il suo giocatore era divenuta una fonte di distrazione per lo spogliatoio, costretto a schierarsi pro o contro il compagno di mille battaglie.
Barkley disse che era evidente che qualcosa non andasse, ma soprattutto “la trasformarono in una questione d’onore, e questo, Andrew non lo tollerò mai”.
Si ritirò senza troppe cerimonie (né i Sixiers vollero tributargliene), promettendosi che mai sarebbe tornato a vedere una partita dei 76ers finché Katz fosse stato il proprietario. Anche oggi, dopo tanti cambi di proprietà, sebbene Andrew dica di non avere rimpianti, lo strappo non è del tutto ricucito e Toney rimane in un angolo.
Non partecipa alle attività delle “vecchie glorie”, ne viene chiamato. Vive ad Atlanta, fa l’insegnante alle scuole elementari, e, dei vecchi compagni, ha mantenuto i contatti solo con Maurice Cheeks.
Un paio d’anni fa è andato a vedere una partita di Philadelphia, la prima dal suo addio al Basket giocato. Il 6 gennaio del 2012 furono celebrate le vecchie glorie del 1983, e Toney si tenne in disparte dalle cerimonie, ma quando lo speaker del Wells Fargo fece il suo nome, dal pubblico esplose un ruggito e Andrew capì di dover tornare.
“Ero un guerriero da trasferta” raccontò in un’intervista del 1991 “tanti cestisti sono in grado di elevare il loro gioco in casa, ma pochi sono in grado di farlo con continuità in trasferta”.
Le partite di Andrew rimangono su qualche vecchio, nostalgico VHS, o nei tabellini ingialliti dal tempo, che non ci trasmettono la vera grandezza del giocatore; ci raccontano che segnò 30 punti nella partita decisiva per andare in Finale, ma non dicono di come li mise a referto o dell’impatto che il suo modo di stare in campo (fearless se ce n’è stato uno) ebbe sui suoi più rinomati compagni di squadra.
Nel 1983 la stampa chiese a Malone quale fosse il suo pronostico per i Playoff; “fo’ fo’fo'”, rispose Moses, con spavalderia. Certo, senza Andrew Toney, sarebbe stato un po’ più difficile.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Bell’articolo,con una svista,l’anno di “Have no fear Magic is Here” era il precedente all’81 non il successivo.
Non ve ne sfugge una! Hai ragione, era il 1980, l’anno da rookie di Magic (che, giocando in parte fuori ruolo, ne mise 42, con 15 rimbalzi e 7 assist..giusto perché non era un fenomeno!). My bad!