Quante volte abbiamo sentito parlare di passaggi obbligati nella costruzione di una squadra da titolo? Quante di percorso a tappe ben definite e soprattutto graduali verso il successo? Quasi sempre.

Quasi sempre si è detto che per arrivare alla gloria bisognasse affrontare cocenti delusioni step by step, come dicono loro, salendo un gradino alla volta. Ogni anno si sente parlare di squadre che cercano il tassello mancante, quel componente in grado di far chiudere il cerchio alla franchigia di turno e mettere in moto un ingranaggio pressochè perfetto.

Ebbene, nella stragrande maggioranza dei casi è così. Come potrebbe essere altrimenti? La pallacanestro NBA con i rigidi vincoli stabiliti dal salary cap e il meccanismo più o meno ciclico della lotteria del draft è soprattutto capacità di programmazione. Però non è sempre stato così.

Esistono infatti nel corposissimo libro dei ricordi della lega alcune stagioni particolari. Ci sono stati anni in cui si è arrivati all’anello venendo da una stagione, quella precedente ovviamente, in cui si era occupato stabilmente l’ultimo posto della rispettiva Division.

Chiaramente la scelta di trattare esclusivamente di quelle compagini che nella storia abbiano impiegato un solo anno per passare dall’ultimo posto al titolo di campioni NBA è puramente arbitraria. Avrei potuto benissimo includerne molte altre che sono passate semplicemente da un record perdente alla vittoria. Non l’ho fatto per evidenti ragioni di spazio.

Così, principiando dagli albori del gioco, quando ancora si tirava a canestro sotto i vessilli della vetusta Basketball Association of America (BAA), cioè a partire dal 1946, questa particolare scalata si è compiuta in tre occasioni, piuttosto diluite nel tempo, quasi a scoraggiare possibili perdigiorno interessati alla cosa.

PhiladelphiaWarriors1956_display_imageI primi a rendersi protagonisti di un tale ribaltone furono i Philadelphia Warriors del 1955-56, che vinsero il titolo dopo essersi piazzati all’ultimo posto della Eastern Division nell’anno precedente con il record di 33-39.

Dopo di loro fu la volta dei Portland Trail Blazers, annata 1976-77, che erano reduci dall’ultimo posto nella Pacific Division conquistato nella stagione 1975-76 con il record di 37-45. Infine, come tutti sappiamo in quanto le loro gesta sono incastonate nella contemporaneità, i Boston Celtics del 2008 sono gli ultimi ad aver conquistato l’anello dopo una stagione a dir poco disastrosa, quella del 2006-07, conclusa con solo 24 vittorie all’attivo in regular season e l’ultimo posto nella Atlantic Division.

Venendo ai giorni nostri, proiettandosi verso la nuova stagione 2013-14, è difficile individuare una squadra nel variegato panorama NBA che potrebbe inserirsi nel solco tracciato da queste appena elencate. Gli unici in grado di fare un salto triplo carpiato partendo dai bassifondi della Central sono probabilmente i Cavalieri di Cleveland ma è estremamente improbabile se non addirittura impossibile anche solo immaginare per loro una conclusione che preveda dell’argenteria.

Tuttavia molte franchigie odierne sembrano non aver studiato la lezione e continuano a cercare di raggiungere il tetto della lega tutto insieme, tutto in una volta, aggiungendo questo o quell’altro free agent, senza curarsi degli effetti collaterali provocati alla chimica di squadra. Ma torniamo nel dettaglio al primo degli esempi citati del passato, d’altra parte è risaputo: le vecchie storie ingiallite sono sempre più affascinanti di quelle più vivide, consumate più di recente.

Rimettiamo un po’ indietro le lancette e, come un novello Marty McFly di Ritorno al Futuro, torniamo al 1955.

I Warriors sono a Philadelphia. Sono lì fin dal principio, quando tutto ebbe inizio nel novembre del 1946. Ci staranno ancora per poco. Nel 1962 si trasferiranno a San Francisco e non torneranno più, soppiantati nella città della Pennsylvania dai 76ers. D’altronde una squadra di Guerrieri nella città dell’Amore Fraterno ci stava davvero come i cavoli a merenda.

Ma ai nastri di partenza della stagione NBA 1955-56 sono pronti a dare battaglia all’ombra della Liberty Bell. L’avversario più accreditato sulla loro strada è, all’epoca, quel Bob Pettit, ala grande degli Hawks – appena trasferitisi a St. Louis, fresco vincitore del titolo di rookie dell’anno e in procinto di ricevere la primissima onorificenza della storia come MVP della lega. Chiuderà la stagione con 25,7 punti e 16,2 rimbalzi di media.

Le squadre che hanno disputato l’ultima finale sono invece i Syracuse Nationals e i Fort Wayne Pistons. Philly nel 1954-55 non si è nemmeno qualificata per i playoff. A causa dell’abbandono dei Baltimore Bullets dopo un inizio da 3-11, i Warriors si sono adagiati in fondo alla classifica della Eastern Division. 33 vinte e 39 perse. Non un record pessimo ma che comunque ha valso loro l’ultimissimo posto.

A onor del vero giova precisare che in quegli anni regnava forte l’equilibrio fra le poche squadre della lega. Con 33 vittorie potevi benissimo finire ampiamente fuori dalla corsa playoff, così come potevi rischiare di conquistare la testa di serie numero uno, in una delle due Conference.

Per l’appunto gli Hawks del 1956-57 ottennero il miglior record della Western con 34 vittorie e raggiunsero la finale, perdendola. Lo stesso fecero i Lakers nel 1958-59, quando raggiunsero l’ultimo atto partendo dalla base tutt’altro che solida in regular season di 33 vittorie, secondi a ovest.

Ci avrebbero pensato definitivamente Russell e i Celtics a rompere per sempre la situazione d’incertezza fin lì piuttosto estesa. Nei 5 anni che vanno dal 1953 al 1958 ben 5 squadre diverse tagliarono per prime lo striscione del traguardo finale. Da lì in poi fu solo una questione di vedere quale fosse l’avversario di turno dei biancoverdi di Boston in finale. Ma questa è un’altra storia.

La vicenda che a noi interessa oggi parla di metamorfosi kafkiane e bistecche col formaggio (le celebri cheesesteak inventate da tale Pat Olivieri nel 1932 che costituiscono il fiore all’occhiello degli amanti della tavola di Philadelphia e di cui – detto piuttosto onestamente – non sentivamo davvero il bisogno).

nh_display_image_display_imageI Warriors del ’56 sono una squadra sensazionale. Hanno una coppia di cannonieri come Paul Arizin e Neil Johnston da far arrossire la gloriosa Marina Britannica. I due finiranno la stagione rispettivamente al secondo e terzo posto della classifica marcatori mentre si classificheranno soltanto primo e secondo (stessi interpreti, ordine inverso) in quella della percentuale dal campo.

Hanno uno dei backcourt con più centimetri di tutta lega in Jack George e Tom Gola, pronti a smazzare palloni per le bocche da fuoco della squadra (finiranno 2° e 4° nella speciale classifica degli assist). In più c’è l’ala Joe Graboski a completare il quintetto. Di lui si ricordano soprattutto i 35 (più del triplo del fatturato medio in carriera) messi a referto contro Russell in una partita in cui giocò centro al posto dell’infortunato Johnston, lui sì infallibile macchina da canestri e titolare di un gancetto affidabile.

Verrebbe da chiedersi allora quali di questi alfieri non vestissero la maglia dei Warriors nell’infausta stagione precedente. La risposta sorprendentemente è nessuno di loro, eccetto Thomas Joseph Gola, all’epoca ancora al college a La Salle. Come si spiega quindi il repentino capovolgimento di fronte che li portò dalle stalle alle stelle in soli 12 mesi?

Come in molte circostanze, non è possibile isolare delle vere e proprie cause; anche perchè probabilmente in questo specifico caso non ce ne sono di così rilevanti. Basti dire che ci sono annate in cui tutto procede per il verso giusto.

Il potenziale della squadra era tutto lì da vedere e probabilmente il cambio al timone, dove George Senensky andò a rimpiazzare quel Gottlieb che aveva alzato il primo trofeo di campione NBA… pardòn BAA nel 1947, dette la scossa di cui tutto l’ambiente necessitava. Record del buon George nelle successive 2 stagioni, le ultime in cui ha allenato: 37-35, 37-35.

Tom-GolaNon siamo propriamente di fronte ad un Phil Jackson ante litteram, almeno a giudicare dai semplici numeri. Molto più probabile che sia stato l’innesto del sopracitato Tom Gola ad elettrizzare i Guerrieri.

La leggenda di La Salle costituisce probabilmente uno dei primi esempi, se non proprio il capostipite di questa particolarissima specie, di Big Guard che sia mai stato avvistato su un parquet a stelle e strisce. Alto 6’6″, al college giocava centro (19.0 rimbalzi di media per lui).

Figlio di un poliziotto di Philadelphia, aveva spiccate doti di ball handler e di passatore, le stesse poi che gli hanno permesso, una volta approdato tra i pro, di ricoprire il ruolo di guardia. Ma soprattutto sprizzava leadership da tutti i pori ed era letteralmente osannato dai tifosi, suoi concittadini.

Ad ogni suo canestro l’annunciatore dell’Arena di casa, Zinkoff, come fosse il più classico dei telecronisti del Boca a La Bombonera, era solito gridare: “A goal by Gooooalla!” Ok, grande contributo del giovane Tom ma non è ugualmente sufficiente a spiegare per intero l’exploit dei suoi.

Allora proviamo con Paul Arizin, stella della squadra e autentico pezzo pregiato dell’intera collezione NBA. Arizin, che la storia del gioco ha poi colpevolmente sottovalutato, è stato uno dei primi grandi realizzatori della lega. Capace di segnare in svariati modi, dal tiro da fuori al lay-up in corsa al gancetto in avvicinamento, mise a referto la bellezza di 289 punti nelle 10 gare di playoff che portarono Phila al titolo.

Prima di lui solo Mikan aveva fatto qualcosa di simile, diciamo pure di meglio. Fu soprannominato “Pitchin Paul” per il suo caratteristico tiro. Sì perchè il nostro fu uno dei pionieri del tiro in sospensione. A quei tempi osservare questo tipo di conclusione, oggi tanto diffusa, era raro come avvistare un cammello del Gobi.

arizin_11_200Un giornalista al seguito della squadra affermò che il suo tiro era “perfetto come un Renoir o un Rembrandt”. Paul in tutta risposta rivelò che era pervenuto a quel tipo di rilascio della palla all’apice del salto del tutto accidentalmente: staccare i piedi da terra gli garantiva di non scivolare sul parquet.

Definito anche “a man without a team”, è praticamente un ibrido nel panorama cestistico in quanto è stato per tutta la carriera un Warrior ed ha giocato solo a Philly ma non ha mai militato nei Sixers nè ha giocato alcuna partita a Golden State/ San Francisco. E’ uno dei 3 giocatori – gli altri sono Schayes e Lucas – fra i 50 premiati nel 1996 come migliori interpreti del primo cinquantennio NBA a non avere la maglia n.11 ritirata.

Nessuno l’ha mai adottato fondamentalmente. Eppure fu il principale artefice del trionfo dei suoi, avendo la meglio sul suo dirimpettaio in finale e stella dei Pistons, George Yardley. Il fatto è che Arizin c’era anche l’anno precedente. E’ vero però che in quella stagione aveva messo a segno “solo” 21 punti di media col 39% dal campo. Quindi il decisivo incremento dell’apporto fornito alla causa di Phila dal suo giocatore principe potrebbe essere fra i papabili colpevoli della metamorfosi che si osservò allora sulla riva occidentale del fiume Delaware.

Probabilmente si era fatto sentire l’allontanamento forzato dal campo che aveva subito nel biennio 1952-54, quando era stato arruolato negli U.S. Marine Corps ed era stato spedito a combattere la Repubblica Democratica Popolare di Corea. Abituatosi alle operazioni anfibie contro i nordcoreani del “Grande Leader” Kim Il Sung, forse non riusciva più a districarsi nelle maglie difensive dei Nationals Di Syracuse, autentici bulldozer del parquet.

Alla fine dei salmi, per cercare di capirci qualcosa in questa vicenda, non resta che appellarsi al più classico dei “erano altri tempi” oppure alla questione dell’equilibrio già discussa in precedenza e che faceva sì che in quegli anni bastassero una manciata di vittorie in più o in meno per porsi obiettivi diametralmente opposti.

Si era forse in un periodo di assestamento per le squadre NBA in quanto il rivoluzionario limite dei 24 secondi a azione era stato introdotto soltanto nella stagione 1954-55. Fatto sta che i Warriors dopo aver fatto dannare i propri tifosi per tutta un’annata, si ritrovarono, a distanza di soli 12 mesi, ad alzare quello che un paio di decenni più tardi sarebbe diventato il Larry O’Brien Championship Trophy.

Come disse Sandro Ciotti: “Clamoroso al Cibali!” Forse ad essere realmente clamorosa era stata più che altro la debacle della stagione precedente, vista la quantità di talento accumulata nella città dove fu siglata la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America.

 

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